L’anno successivo il ventello è sempre a portata di mano. Crescono i punti realizzati e la fiducia in una squadra che, salutato Ben Gordon, era ufficialmente passata nelle sue mani.
20 punti di media, ottavo posto ad Est e primo incrocio contro i Cleveland Cavaliers. 27 punti e 7 assist di media per D-Rose, ma il 4 a 1 rifilato dai Cavs è difficile da mandar giù. Un senso di impotenza, quasi di passo indietro rispetto ad un percorso di crescita che sembrava procedere in maniera spedita.
In realtà, sarà la benzina necessaria per caricare il serbatoio di convinzioni del numero 1, che nella stagione 2010-2011 realizza il suo capolavoro. 81 partite (ne saltò soltanto una, bei tempi davvero) non racchiudibili in cifre, statistiche o altro.
Puro e semplice basket. Un distillato di esplosività, tecnica e talento.
Il premio da MVP la naturale conseguenza. Il più giovane della storia NBA a ricevere il premio, ma di fronte a cotanta stagione, impossibile non fare un’eccezione.
Una regular season da sogno, infranta, come al solito, dalla cocente delusione Playoff. In finale di Conference questa volta, ma sempre contro LeBron James, in maglia Miami Heat. Di nuovo 4-1, di nuovo quel senso di frustrazione.
E soprattutto, quel senso di incompiuto.