Categorie: Primo Piano

Ti ricordi l’ultima volta?

Sono passati 35 anni da quando il signor Joe Bryant, in arte “Jellybean”, frequentava il parquet del Valley View Casino Center con la divisa dei San Diego Clippers, inconscio che a casa c’era il suo pargolo di appena tre anni che stava giocando la partita insieme al padre. Davanti alla TV, con la divisa dei Clippers, il piccolo Kobe seguiva pedissequamente le mosse del padre mostrando da subito un’interpretazione ossessiva della vita.

Sono passati vent’anni da quel 26 Giugno del 1996, un giorno che ha cambiato il destino dei Lakers, del Gioco e forse dello sport americano in generale. Gli Charlotte Hornets acquistano Vlade Divac dai Los Angeles Lakers in cambio dei diritti sulla tredicesima scelta, tramutatasi in un diciassettenne che aveva beatamente saltato il college per rendersi direttamente eleggibile al draft. In realtà lui sarebbe andato in un unico college e non penso sia difficile indovinare. C’era il compianto Dean Smith ad emettere gli ultimi vagiti cestistici su un pino collegiale, c’era (e c’è ancora) quell’aura mistica che il 23 ha lasciato a Chapel Hill e c’era Vince Carter, la miglior guardia universitaria del pianeta, a detta dello stesso Kobe. North Carolina era l’unica opzione, qualora il college fosse mai stata un’opzione.

Era il 1998, erano passati due anni e qualche mese, quando lo scrutinio del All-Star Game decretò la presenza di un diciannovenne nel quintetto dell’Ovest. Nessuno a quell’età aveva mai pensato di partire titolare in un All-Star Game. Kobe finì la partita con 18 punti, secondo soltanto a quel Michael Jordan che si stava accingendo a vincere il suo sesto titolo, lasciando una lega (salvo ripensamenti) totalmente cambiata dalla sua ascesa. Da quella partita emersero due risultati. Il primo è che nessuno sarà mai come quello lì, il secondo è che se nessuno sarà mai come quello lì, un occhiatina al nativo di Philadelphia andrebbe data, potrebbe diventare buono.

Servono altri due anni per arrivare alla Conseco Fieldhouse, Indianapolis. È una gara 4 agonica. Il sesto fallo di Shaq nei supplementari sembra essere il preludio al 2-2 dei Pacers, con la quinta da giocare in casa. Ogni volta che la palla passa dalle mani di Kobe una parte razionale nel cervello di chi sta guardando si spegne, per cercare un’altra chiave di lettura a quello che per la mente umana non è leggibile. Bryant prende tre tiri uno più insensato dell’altro, lasciando agli avversari la sensazione che se il contesto è quello giusto, 5vsKobe è persa in partenza. Durante la stagione Phil Jackson aveva preso il “Black Mamba” a brutto muso dicendogli che per diventare il leader di una squadra bisognava che i compagni lo seguissero. Dopo quella sera più di qualcuno si era convinto che la leadership del 24 (al tempo ancora con la 8) non era quella auspicata dai seminari delle grandi aziende, ma che comunque seguirlo avrebbe generato dividendi. 

Sono passati poco più di tredici anni da quello che forse è stato il momento più oscuro della vita di Kobe Bryant. Siamo in Colorado, in un hotel ad Edwards, vicino Beaver Creek. Katelyn Faber è una receptionist che per la prima volta trova soltanto un bancone a dividerla dalla sua superstar preferita. Inutile dire che come divisorio è facilmente eludibile e la ragazza non resiste. Quello che realmente successe in quella stanza rimane celato nei ricordi di Kobe e Katelyn. Che ci sia stato un rapporto sessuale è dimostrato, così come sembra essere impossibile pensare che almeno inizialmente la ragazza non fosse consenziente. Se alla fine lo sportivo milionario, abituato ad ottenere senza chiedere, abbia realmente abusato di una receptionist non penso lo sapremo mai. Fatto sta che per un anno abbondante la vittoria in campo non è stata l’unico pensiero di Bryant, obbligato a presenziare a più di un’udienza giudiziaria per difendersi dall’accusa di violenza sessuale.

Passano altri due anni e Phil Jackson è di nuovo sulla panchina dei Lakers. Shaquille O’Neal non c’è più, la dirigenza ha deciso di puntare tutto su Bryant e probabilmente se i due avessero trovato un modo di convivere staremmo parlando di una delle coppie più vincenti nel basket. Quella squadra ha bisogno di un periodo di rodaggio e nel frattempo lo Zen Master dà carta bianca al suo asso, sperando che da solo possa reggere il peso dell’attacco. Il 22 Gennaio 2006 inscena uno spettacolo che nessuno aveva mai pensato di vedere, perché probabilmente nessun testimone di questa prestazione fu anche tanto fortunato da vedere Harvey Pollack disegnare su un foglio il numero 100, per poi porlo a tale Wilt Chamberlain e scattare quella che ad oggi è una delle fotografie più rappresentative dello sport pre-televisivo. Kobe non domina, è Katrina che spazza via New Orleans. Non è tanto una sensazione di dominio, quanto più l’inesplicabile forza della natura concentrata in un metro e novantotto di pallacanestro pura. Alla fine sono 81 punti, e qui ci stanno benissimo le parole che Pedernera rivolge ad Alfredo Di Stefano dopo una giocata permessa solo alla saeta rubia: “Alfre, come tu ben sai noi ci mangiamo con questo gioco, puoi evitare di renderlo così ridicolo?”.

L’estate del 2007 è senza ombra di dubbio, insieme alla notte del draft, la sliding door più decisiva per la carriera del 24. Kobe non vede margini di miglioramento, la squadra è stata eliminata per due anni di fila al primo turno e i Chicago Bulls sono ad un passo dal convincere il Dr. Buss e il giocatore ad accettare una trade per portarlo nel Illinois. Phil Jackson riesce ad ottenere una deroga sperando che i risultati della squadra facciano cambiare idea al Mamba, ma il clima è rovente. La prima partita della stagione, allo Staples Center contro i Rockets (persa), Bryant viene sommerso dai fischi. La fine sembra vicina, ma l’attacco a triangolo di coach Jackson entra finalmente nel DNA dei suoi nuovi giocatori e la squadra ingrana, sospinta da performance importanti di Bynum e Fisher. Proprio il Venerabile Maestro è una delle cinque persone, sei al massimo, con cui Kobe riesce ad avere un dialogo senza provare un primitivo impulso di spaccare una sedia in testa al suo interlocutore. A metà Gennaio Bryant pone fine alle speculazioni sul suo futuro, giurando amore eterno ai Lakers. Come regalo Mitch Kupachak strappò ai Grizzlies un certo Pau Gasol, con il quale Kobe si trovò dal primo istante, forte del fatto che si trattasse di un lungo “con un paio di mani” (cit.), al contrario di Shaq.

Sono passati appena sei anni, quella era una serie che per forza di cose sarebbe dovuta finire nelle mani degli altri. Tuttavia la retorica della rivincita e quella faccia sono due fattori difficilmente negoziabili. Il terzo quarto di Gara 5 delle NBA Finals 2010 ha un significato avulso dalla pallacanestro e molto più pertinente ad un racconto di formazione. È ovvio che quella partita la vinceranno i Celtics, giocano un basket efficacissimo su entrambi i lati del campo e un solo uomo non può sconfiggere un’armata, però da quella prestazione derivano le due vittorie successive dei Lakers. Bryant potrebbe scherzare contro il primo quintetto difensivo della lega, perché come detto, quei dieci minuti scarsi di cestistico hanno esclusivamente lo scenario. Ogni volta che la retina si scuote è l’equivalente di osservare Picasso mentre delinea i contorni di Guernica, da un momento all’altro dovrebbe subentrare la parte razionale e porre un freno a un tale impulso artistico. Dovrebbe.

Sono passati un anno e sette mesi, nella mente di Kobe rimarrà sempre un giorno particolare. Rick Fox ha giocato sia con MJ che con Bryant ed è convinto che il primo abbia un’insensata voglia di competere contro un avversario qualsiasi, non necessariamente sul parquet, ma l’altro è diverso. Kobe gioca ogni giorno contro se stesso, per dimostrare (sempre a se stesso) che i limiti posti a 15-16 anni andranno giù. Non esiste nessun’altro, esiste lui e la sua ombra, che non deve vincere mai. Tuttavia quel giorno di Dicembre, al Target Center di Minneapolis, in lunetta sta per tirare il secondo libero un uomo che per la prima volta gradisce essere accostato al suo illustre predecessore. Se non altro perché lo sta per superare. Solo rete. Non riuscirà mai ad utilizzare la seconda mano per indossare gli anelli, ma da quella notte il più grande di tutti si è dovuto spostare e lasciare che il 24 divenisse il terzo miglior marcatore nella storia della lega. Per trovare un altro giocatore inferiore ai due metri nella classifica dei top scorer NBA, dobbiamo arrivare alla posizione numero 12 dove soggiorna Oscar Robertson. Superare Michael Jordan in quella classifica vuol dire essere il più grande marcatore di tutti i tempi, al netto dei numeri che comunque diranno 33.643 punti scritti a referto.

Sono passati tre mesi, non siamo più svegli alle 7 del mattino, e per lui non lo saremo più. Parlando con un mio amico gli ho detto che durante l’ultima stagione Bryant avrebbe dovuto regalare al pubblico un ultimo sussulto che valesse la pena rivedere in loop negli anni a venire. A inizio Febbraio i Lakers vincono contro i T’Wolves grazie ad una prova da 38 punti del Mamba. In molti, compreso il sottoscritto, pensavano che quella sarebbe stata l’ultima pennellata ai girasoli, l’ultimo versetto della sua commedia. “I challenged him to get 50 and the motherfucker got 60”. Queste sono le parole di Shaquille O’Neal dopo aver visto la grandezza prendere forma in un modo che nemmeno Quentin Tarantino avrebbe potuto rappresentare. Il fatto che gli ci siano voluti 50 tiri, ovvero il massimo di tentativi negli ultimi 30 anni di NBA, serve ad estremizzare lo stare al mondo di un uomo che ha sempre pensato di poter diventare il più forte di tutti, e ci è riuscito. È il giocatore che ha sbagliato più tiri nella storia della lega ma se esiste una remota possibilità di vincere una partita la palla deve finire nelle sue mani, e lui lo sa. 60 punti e commedia finita, non con un colpo di scena, ma con un elogio alla supremazia di un giocatore che rimarrà per sempre nel cuore di chi si intende di basket e di che conosce a malapena il Gioco. È passato del tempo, ne passerà ancora, ma certe gesta sono destinate a riecheggiare nella storia dello sport. Alla prossima Kobe, e se non ci sarà poco male. Dimenticare non è, e non sarà mai, un’opzione.

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Pubblicato da
Paolo Stradaioli

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