Draft, la Scelta Sbagliata – Hasheem Thabeet: il Gigante dalla Culla della Vita

Watapanda na kushuka

Na wataanguka kweli!

Wakisukumwa na upepo wa wakati!

Provo a immaginare lo stupore di un lettore che, aprendo un articolo sul basket, si trovi di fronte a tre righe di parole senza senso. L’impressione immediata deve essere quella di un grossolano errore. Magari è l’articolo sbagliato – si potrebbe pensare – perché queste tre righe non sembrano avere un significato, anzi: sembrano essere, piuttosto uno di quei goffi tentativi infantili di mettere insieme sillabe a caso per tentare di farsi capire dagli adulti. O possono sembrare un linguaggio alieno tratto da qualche audace film di fantascienza. Ma non è un errore, e l’articolo sul basket che avete aperto inizia davvero con tre righe di parole senza senso. L’apparenza inganna però, perché quella che potrebbe sembrare una terzina in Klingon presa da una puntata di Star Trek: the Next Generation, è in realtà qualcosa di molto più semplice e – a suo modo – familiare. Si tratta di una lingua straniera. Una lingua misconosciuta, con la quale gli Occidentali in genere non hanno (o non osano avere) molta dimestichezza. Una lingua però, che permette a quasi novanta milioni di persone di comunicare, di incontrarsi, di stringere amicizie, di discutere, di litigare. È lo swahili, la lingua franca dell’Africa nera. Una lingua commerciale, una lingua nata per essere funzionale, una lingua “artificiale”. Ma anche una lingua come questa, quando diventa espressione di una così grande comunità umana, finisce per sviluppare una sua letteratura, una sua poesia, un suo modo per estrinsecare la bellezza intrinseca della parola. E così è successo anche allo swahili, che ha conosciuto una grande produzione letteraria, che ha il suo cuore pulsante in Tanzania. E del resto il più conosciuto autore in lingua swahili è proprio il tanzaniano Euphrase Kezilahabi, il poeta cui appartengono quei tre incomprensibili versi che hanno aperto l’articolo. Cosa significano dunque quelle parole? Non è certo semplice renderne il senso, ma una traduzione abbastanza significativa potrebbe essere:

Sorgeranno e cadranno

E davvero sono crollati

Guidati dai venti del tempo.

Kezilahabi non sapeva che scrivendo queste parole nel 1974, stava profeticamente descrivendo la parabola di un uomo, un altro tanzaniano, che è al centro di questo articolo. Sorgere e cadere. Alzarsi, scuotendosi la polvere di dosso per poi crollare di nuovo in ginocchio. Due verbi, due concetti, che bastano a consegnare un’idea più che concreta della storia di una persona nel suo essere un giocatore di basket. Due parole che non esauriscono, ma delineano in modo netto, e forse un po’ sconfortante, la vita di Hasheem Thabeet.

Una veduta della città di Dar es Salaam; credits to: visitcapitalcity.com via Google

Era il 16 febbraio del 1987 a Dar es Salaam, quando la signora Rukia Manka, da poco vedova di mister Thabit Manka dette alla luce un bel bambino maschio. Rukia scelse per quel figlio un nome di ascendenze arabe dal significato molto forte: Hashim Thabit, “il Distruttore del Male”. Un ruolo importante quello assegnatogli dalla madre con quel nome, un ruolo che avrebbe avuto bisogno del giusto phisique du role. Ma fortunatamente Hashim Thabit Manka era alto – molto alto – tanto che già da bambino spiccava al di sopra di tutti i suoi coetanei. Un piccolo gigante Hashim, costretto a crescere in uno degli ambienti meno ospitali del mondo: una grande metropoli africana.

Hasheem Thabeet in compagnia della famiglia; credits to: williammalecela.com via Google

Dar es Salaam non era più, almeno nominalmente, la capitale della Tanzania, ma continuava a essere la città più popolosa di questo grande stato dell’Africa Orientale, e ne aveva tutti i pregi e i difetti. Non era certo una vita facile, ma Hashim era, a suo modo, un privilegiato: frequentò la Mlimani Primary School, una struttura non esattamente all’avanguardia, ma comunque già molto di più di ciò che la maggior parte dei suoi coetanei si potesse permettere. Dopo aver concluso con successo gli studi elementari, il giovanissimo Thabit passò anche dalla Makongo Secondary School. Ma questi privilegi il giovane Hashim Thabit se li era più che guadagnati. Partecipava infatti attivamente al mantenimento della famiglia, sfruttando il fisico straordinario come modello, aiutando in questo modo mamma Rukia a provvedere a sua sorella Sham e a suo fratello Akbar.

E nonostante tutto, Hashim Thabit Manka trovava ancora le energie per lo sport. Appena tredicenne prese parte a una mezza maratona, quasi volesse intraprendere una strada, quella dell’atletica e delle corse di durata in particolare, sulla quale gli africani sono dominatori incontrastati. Ma la corsa non faceva per lui, un ragazzo alla ricerca di ritmi più elevati. Così decise di provare lo sport più diffuso in Tanzania: il calcio. E nonostante le leve lunghissime era piuttosto bravo. Abbastanza bravo da sembrare avviato verso una possibile carriera che potesse portarlo a giocare in uno dei due grandi team di soccer tanzaniani, lo Yanga o il Simba. Ma qualcosa si mise in mezzo. Fu una partita di basket alla quale il giovane Hashim assistette per caso a Dar es Salaam. Aveva quindici anni. E dopo quella partita ne vennero altre, e altre ancora. Hashim Thabit non lo sapeva, ma si stava innamorando della palla a spicchi. Decise di provare anche lui che, così alto e possente com’era, sembrava il profilo ideale per quello sport. Fu la scelta giusta. La migliore di tutta la sua vita.

In quel periodo la famiglia si trasferì dalla Tanzania in Kenya, a Nairobi, dove Hashim iniziò a frequentare la Laiser Hill Academy. Giocava a basket da pochissimo tempo, ma aveva una comprensione del gioco molto profonda, e apprendeva velocemente. Migliorò a vista d’occhio, giorno dopo giorno, con passi degni del gigante che era. E poi qualcuno lo notò. Un gruppo di americani in vacanza in Kenya si fermò a guardare una partita e lui era lì, svettante e longilineo, un Titano che troneggiava sui suoi compagni. Ne furono folgorati. Alla fine della partitella Hashim si vide avvicinare da questi turisti pallidi che gli proponevano di andare negli Stati Uniti, per imparare a giocare sempre meglio. Dicevano di avere le conoscenze necessarie in una high school.

Hasheem Thabeet con la maglia della Cypress Christian School; credits to: scout.com via Google

Fu così che Hashim Thabit, che negli States avrebbe adattato il suo nome in Hasheem Thabeet, fece le valige e lasciò l’Africa per andarsi ad accasare a Houston, Texas, alla Cypress Christian School. Fu una folgorazione. Il ragazzo aveva dei margini di miglioramento spaventosi, tutti se ne rendevano conto, ed era materia da college basketball. Certo, ci furono anche i classici problemi di adattamento, perché quando Hasheem Thabeet raggiunse gli Stati Uniti era in grado di parlare fluentemente lo swahili e il francese, ma non conosceva che poche sillabe in inglese.  Una barriera non indifferente, quella linguistica, eppure dopo averlo visto i reclutatori sarebbero stati pronti a insegnare lo swahili al resto della squadra pur di averlo. Nel 2006 un appena 19enne Hasheem Thabeet si diplomò, e intraprese la dura strada che aveva scelto, quella del giocatore di basket.

Quell’anno a University of Connecticut c’era la leggenda di Jim Calhoun, coach degli Huskies da due decadi. Il curriculum vitae di Calhoun era impressionante, e parlava (all’epoca) di due titoli NCAA portati a casa, nel 1999 e nel 2004, di un National Invitation Tournament datato 1988, oltre a svariati altri titoli di basket collegiale. Ma la sua creatura – UConn – era all’ora della svolta.

Coach Jim Calhoun; credits to: usatoday.com

Al Draft 2006 gli Houston Rockets avevano selezionato Rudy Gay, il talento più cristallino del suo roster, lasciando la squadra in emergenza. Servivano forze fresche da affiancare Jeff Adrien e Craig Austrie, giunti ormai al loro anno da senior, ma fortunatamente la recruiting class di quell’anno era colma di prospetti interessanti. Calhoun si mosse con attenzione, selezionando solo profili che riteneva estremamente interessanti: arrivò l’ala piccola inglese Ben Eaves (per la verità non proprio memorabile) e con lui le ali forti Curtis Kelly e Stanley Robinson, ma soprattutto arrivò una micidiale guardia tiratrice che rispondeva al nome di Jerome Dyson (un nome particolarmente noto in quel di Sassari). Con il rientro di A.J. Price – si era iscritto nel 2004, ma era stato fermato per due anni da una malformazione arteriovenosa al cervello – un solo tassello mancava nel roster di UConn: un centro dominante.

Da sinistra verso destra: Stanley Robinson, Jerome Dyson e A.J. Price

Calhoun si guardò intorno e la sua attenzione venne letteralmente calamitata da quel gigante africano che dominava i pitturati dell’high school basketball. Fu così che Hasheem Thabeet si iscrisse a UConn, per farsi plasmare dalle sapienti mani di un coach Hall of Famer.

Hasheem Thabeet con la maglia di UConn; credits to: daytondailynews.com via Google

Il primo anno in quel del Connecticut fu effettivamente un successo: Thabeet assommò minuti importanti, mettendo insieme cifre più che interessanti, soprattutto – è scontato – alla voce stoppate (3.8 a partita durante l’anno, a condire i 6.2 pts ad allacciata di scarpe). Il 3 dicembre 2006 inoltre, Thabeet scrisse precocemente il proprio nome nella storia di UConn eguagliando il record di squadra per stoppate in una singola partita, ben 10, piazzate in faccia a Texas Southern in una roboante vittoria per 106-55.

Thabeet si esibisce in una stoppata; credits to: nydailynews.com via Google

UConn dominò la regualr season della Big East, vincendo la Conference, e Thabeet, insieme a Dyson, venne nominato nel quintetto dei migliori esordienti. Fu l’inizio di una carriera di successo. Nel suo anno da sophomore Thabeet si guadagnò altro spazio, e ricompensò coach Calhoun con una stagione da 10.5 pts, 7.9 rbd e 4.5 blk ad allacciata di scarpe, facendo segnare per la seconda volta il picco di 10 stoppate, stavolta in un effort perdente, il 5 gennaio 2008, quando gli Huskies vennero sconfitti 73-67 da Notre Dame. Alla fine della stagione non poté non vincere il titolo come Defensive Player of the Year della Big East Conferece, e venne anche inserito nel secondo miglior quintetto. Ma fu nel suo anno da junior (2008/09) che il fenomeno Hasheem Thabeet esplose completamente. Al di là delle statistiche, comunque impressionanti, che parlavano di una doppia doppia di media (13.6 pts e 10.8 rbd), Thabeet sembrava essere passato a un livello superiore. Il 31 gennaio 2009, nella partita contro Providence College fece segnare la sua prima tripla doppia (15 pts, 11 rbd e 10 blk), e alla chiusura della stagione regolare le sue stoppate ammontavano complessivamente a 152. Vinse di nuovo il titolo di Big East’s Defensive Player od the Year, e anche quello di Big East’s co-Player of the Year, in compartecipazione con DeJuan Blair di University of Pittsburgh. Ma la cavalcata di UConn (che quell’anno poteva contare anche sul freshman Kemba Walker in cabina di regia), e di Hasheem Thabeet, non si fermò. Il 26 marzo il centro tanzaniano raggiunse il traguardo dei 1.000 punti (in quella stessa stagione ci erano arrivati anche Jerome Dyson e A.J. Price) nella partita contro Perdue, e trascinò la squadra alle Final Four, le prime in quel del Conncticut dal 2004. Il 4 aprile 2009 però, a Detroit, UConn affrontò uno scoglio troppo arduo: la Michigan State di Kalin Lucas e Draymond Green. Gli Huskies uscirono sconfitti da quella partita per 82-73, e la prestazione peggiore fu proprio quella di Thabeet che, nonostante i 17 pts e 6 rbd, diede l’impressione di essere completamente fuori dal gioco, annaspando in molte delle azioni chiave del match.

credits to: uloops.com via Google

Ma dopotutto si trattava soltanto di una partita, e ormai Hasheem aveva visto ciò che era in grado di fare. Si sentiva pronto. Nell’aprile 2009 decise di rinunciare al suo ultimo anno di college e di tentare il grande salto: si dichiarò eleggibile per il Draft NBA.

L’annata 2008/09 era stata una stagione particolare per la NBA. Il ritorno degli Hornets nella vecchia casa di New Orleans dopo l’esilio causato dall’uragano Katrina aveva lasciato un vuoto a Oklahoma City, che si era dimostrata un mercato caldo e appassionato. Dopo lunghe trattative la lega aveva scelto di premiare quell’ardore, e aveva accondisceso al cambio di sede dei Seattle SuperSonics, che, lasciando lo stato di Washington, si accasarono in Oklahoma con tutti i loro assetts, nuovi colori, e un nuovo nome: Oklahoma City Thunder. Per la prima volta dalla stagione 1966/67, non ci sarebbe stata una franchigia NBA nella città di Seattle. Ma i Thunder erano ancora una squadra acerba, guidata da un giovanissimo Kevin Durant, al suo secondo anno nella lega, e da un Russell Westbrook appena uscito da UCLA. Il coach della squadra era P.J. Carlesimo che però aveva iniziato la stagione con un drammatico 1-12 di record. Venne sostituito da Scott Brooks, ma i risultati migliorarono solo parzialmente: OKC vinse altre 22 partite, a fronte di 47 sconfitte, presentandosi a fine stagione con il record complessivo di 23-59. Ma gli ex Sonics non erano l’unica squadra in difficoltà. I Sacramento Kings avevano affrontato l’anno con un roster che era impossibile definire competitivo, e il coach Reggie Theus ne aveva fatto le spese quando, dopo 24 partite, il record di squadra recitava ancora 6-18. Al suo posto Kenny Natt non ebbe miglior fortuna, siglando un 11-47 che si tradusse in un tristissimo 17-65 finale per i californiani. Anche la sponda meno nobile di L.A., quella a marca Clippers, non se la passava benissimo: Mike Dunleavy non era riuscito a far andare oltre il 19-63 un gruppo composto da buoni giocatori come Baron Davis, Zach Randolph e Marcus Camby e i due rookie Eric Gordon e DeAndre Jordan. Difficoltà di gioventù, simili a quelle che affliggevano OKC, le avevano vissute anche i Memphis Grizzlies che con un nucleo fondamentale di giocatori composto da Rudy Gay e Kyle Lowry (entrambi al terzo anno nella lega), i sophomore Javaris Crittenton e Mike Conley e i rookie Marc Gasol e O.J. Mayo, avevano raggiunto soltanto quota 24 vittorie, a fronte di 58 sconfitte. Del cattivo andamento della squadra avevano fatto le spese prima Mark Iavaroni (licenziato sul record di 11-30) e poi il traghettatore Johnny Davis (0-2 per lui), prima che i Grizzlies passassero nelle mani di Lionel Hollins. Inutile specificare fossero queste le franchigie con più probabilità di ottenere la prima scelta in un Draft che si annunciava come assolutamente promettente. L’urna della Draft Lottery decretò che i Kings avrebbero scelto per quarti, mentre la terza scelta sarebbe stata di proprietà dei Thunder. I Clippers la ebbero infine vinta per la prima assoluta su Memphis, che si dovette così accontentare della scelta #2.

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Fu così che la notte del 25 giugno 2009 tutte le franchigie si riunirono al Madison Square Garden di New York, pronte a ingrossare le fila della lega professionistica con tutti i giovani più interessanti del panorama cestistico mondiale, tutti con le proprie speranze, i propri sogni, la propria trepidazione. I Clippers, ad esempio, erano proprietari di una visione: una visione chiamata Lob City. Ereditata la meravigliosa idea che era stata dei cugini giallo-viola di portare Chris Paul sull’Hollywood Boulevard, il GM dei losangelini decise di puntare tutto su un’ala forte dalle spaventose doti atletiche in uscita da Oklahoma University, un ragazzone di nome Blake Griffin con una capacità non comune di schiacciare il pallone a canestro. Subito dopo di loro però, ai Memphis Grizzlies rimaneva in mano una rosa di nomi molto interessanti tra i quali scegliere. Il GM della franchigia del Tennessee, Chris Wallace, non si fidava della sua batteria di lunghi. Al di là di Hakim Warrick e Marc Gasol, che avevano dato dei segnali incoraggianti anche in termini statistici, nessuno dei vari Darko Milicic e Hamed Haddadi dava la giusta sicurezza come backup nella posizione di pivot. Per questo l’occhio dei Grizzlies cadde sulla mastodontica e longilinea figura di Hasheem Thabeet. E così si compì la favola del Gigante tanzaniano, dalle strade polverose di Dar es Saalam alla porta principale della NBA, scelto alla #2 del Draft.

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Dopo di lui gli Oklahoma City Thunder scelsero James Harden alla #3, i Sacramento Kings portarono a casa Tyreke Evans alla #4, i Golden State Warriors utilizzarono la scelta #7 per un certo Stephen Curry, alla #17 i Philadelphia 76ers draftarono Jrue Holiday e alla #19 gli Atlanta Hawks presero Jeff Teague.

Da sinistra verso destra: Blake Griffin, James Harden, Tyreke Evans e Stephen Curry

Cominciava un nuovo, eccitante capitolo della carriera di Hasheem Thabeet e il giovane tanzaniano non poteva che essere al settimo cielo per quell’occasione. Era arrivato nella élite del basket mondiale, lui, il ragazzino che fino a 15 anni non aveva mai saputo cosa fosse una palla a spicchi, e inoltre era il primo giocatore originario della Tanzania a riuscirci, in una NBA in continua espansione che si avviava a diventare sempre più globale. Ma ben presto il Gigante dovette rendersi conto che quel sogno non stava andando nel modo in cui aveva sperato. Memphis mandò Quentin Richardson ai Los Angeles Clippers in cambio di Zach Randolph, e l’arrivo del lungo nativo di Marion, Indiana, avrebbe chiuso lo spazio anche a lui, nonostante tutti i suoi 221 centimetri e l’apertura alare spaventosa. Doveva sgomitare più duro e più forte per emergere. Sarebbe stato tutto più difficile. Tutto dannatamente difficile. Thabeet se ne accorse definitivamente il giorno del suo esordio ufficiale nella NBA. Era il 28 ottobre 2009 e i Memphis Grizzlies ospitarono i Detroit Pistons, ma nonostante il sostegno dei tifosi, gli uomini di Lionel Hollins persero pesantemente per 94-76. Thabeet giocò 19 minuti, mettendo a referto soltanto 2 rimbalzi difensivi. Una statline piuttosto misera per una seconda scelta NBA. Cominciava l’incubo.

Hasheem Thabeet stoppa Rashard Lewis; credits to: gettyimages.com via Google

Nonostante quell’esordio shock qualche sprazzo del buono (a tratti ottimo) giocatore di college che Hasheem Thabeet era stato venne fuori anche al piano superiore. Il 13 dicembre 2009 mise a segno 5 pts, 5 rbd e 5 blk (season high a questa voce), con il 100% dal campo nella vittoria dei Grizzlies 118-90 sui Miami Heat. Ma fu la vetta più alta di una stagione che Hasheem non riusciva a far decollare. Il 25 febbraio 2010, dopo mesi di prestazioni stentate, l’establishment dei Grizzlies prese una grave decisione, e assegnò Hasheem Thabeet ai Dakota Wizards della NBA D-League. Fu, a suo modo, un fatto epocale: Thabeet diventò il giocatore più alto della lega di sviluppo, e si prese anche il poco invidiabile record di essere la scelta al Draft più alta della storia a finire in D-League (un record di cui, solo l’anno scorso, si è appropriato Anthony Bennett, ex prima scelta assoluta al Draft 2013). Quell’esperienza durò poco, però, perché già l’8 marzo 2010 i Grizzlies richiamarono il loro Titano, per concludere la stagione. Una stagione che a Thabeet portò in dote cifre poco confortanti: 3.1 pts, 3.6 rbd e 1.3 blk in 68 partite, di cui 13 da titolare. In tutto l’anno il tanzaniano segnò un totale di 77 canestri dal campo, con una percentuale realizzativa del 59%. Una miseria. Sembrava essere uno degli errori più grossolani della storia del Draft.

credits to: nba.com via Google

L’anno successivo Memphis concesse 45 partite ad Hasheem Thabeet per tentare di ottenere una redenzione che non arrivò: 8.2 minuti, conditi da 1.2 pts, 1.6 rbd e 0.3 blk. Era troppo. Il 24 febbraio 2011 Memphis si liberò di lui, spedendolo agli Houston Rockets insieme a una futura prima scelta al Draft, in cambio di Shane Battier e Ish Smith. E così Hasheem Thabeet continuò a sprofondare. Il 21 marzo 2011 i Rockets lo assegnarono ai Rio Grande Valley Vipers di D-League, per richiamarlo soltanto l’11 aprile. Gli concessero solo due partite nelle quali il tanzaniano fece registrare una statline completamente vuota, non fosse stato per una stoppata. E la situazione non migliorò l’anno successivo, quando Houston fece scendere Thabeet sul parquet solo 5 volte, con un bottino di 1.2 pts, 1.4 rbd e 0.4 blk. La sua avventura in Texas, mai davvero cominciata, si concluse il 15 marzo 2012, quando – in compagnia di Johnny Flynn (per combinazione altra scelta poco felice del Draft 2009) e di una futura seconda scelta – partì in direzione Portland, in cambio di Marcus Camby.

Hasheem Thabeet in maglio Blazers insieme a Wesley Matthews; credits to: basket-infos.com via Google

Una esperienza in Oregon che non fu affatto migliore rispetto alle altre: Thabeet mise insieme 15 apparizioni (3 in quintetto), 1.9 pts, 2.3 rbd e 0.5 blk. Nessuno si stupì quando, alla fine dell’anno, i Trail Blazers decisero di non esercitare l’opzione sul suo contratto. Ma nonostante tutto qualcuno credette in lui, e quel qualcuno fu Sam Presti: l’11 luglio 2012 Hasheem Thabeet firmò un contratto con gli Oklahoma City Thunder. Per OKC Thabeet sarebbe diventato un Titano in cerca di riscatto, per OKC sarebbe tornato a essere il Gigante nato nella Culla della Vita.

Rinacque. Toccò il campo, molto più spesso di quanto non avesse fatto nei tre anni precedenti, e con risultati migliori.

Hasheem Thabeet schiaccia contro gli Charlotte Bobcats; credits to: nba.com via Google

E poi finalmente giunse il giorno. Era il 26 novembre 2012, i Thunder affrontavano gli Charlotte Bobcats. Hasheem Thabeet giocò poco meno di 27 minuti. Provò 6 tiri a canestro e ne segnò 5. Ci aggiunse anche 3 tiri liberi. Prese 3 rimbalzi offensivi, ne tirò giù altri 7 in difesa. Piazzò una stoppata. Chiuse con 13 pts (career high) e 10 rbd. Fu la sua prima doppia doppia in NBA. OKC vinse 114-69. Se la Tanzania avesse un’epica nel senso che noi occidentali diamo al termine, quello sarebbe stato il punto più alto di quell’epica: ci sarebbero ancora aedi e rapsodi in giro a cantarne la Gloria. Ma fu l’ultima vetta, la più alta che Thabeet avrebbe mai potuto scalare. Rimase a Oklahoma City per due stagioni, assaggiando anche l’aria rarefatta dei Playoffs (sei partite giocate in due postseason), prima che l’establishment della franchigia lo ritenesse sacrificabile: il 26 agosto 2014 venne mandato ai Philadelphia 76ers in cambio di una futura seconda scelta e di una trade exception. Ma nella Città dell’Amore Fraterno, Hasheem Thabeet, il Gigante tanzaniano, non giocò mai: venne tagliato il 1 settembre di quello stesso anno. Provò a rimettersi in carreggiata, firmando un contratto con i Detroit Pistons il 25 settembre, ma anche gli uomini di Motown non videro come potesse essere utile alla squadra, e lo tagliarono il 20 ottobre, prima dell’inizio della stagione. Ad Hasheem Thabeet, Titano ormai sconfitto, non rimase che scegliere di orbitare ancora intorno alla NBA, aspettando e sperando nella chiamata. Nel novembre 2014 venne ingaggiato dai Grand Rapids Drive, una squadra di D-League affiliata ai Pistons, e in 49 partite assommò 8.6 pts e 6.2 rbd ad allacciata di scarpe. Nel luglio 2015 ha fatto parte del Select Team di D-League per la Summer League. La chiamata non è ancora arrivata, ma nonostante tutto Hasheem Thabeet continua ad aspettare. È ancora un atleta di 29 anni, straordinariamente alto, straordinariamente muscoloso. Non ha intenzione di ritirarsi.

credits to: jmjimages.com via Google

In Tanzania Hasheem Thabeet è ancora un personaggio al confine tra la leggenda e la realtà, e questo non tanto per le sue rare gesta su un campo da basket, ma per la sua straordinaria generosità. Da privilegiato qual è, Thabeet non ha mai dimenticato le polverose strade di Dar es Salaam e la lotta quotidiana che si deve sostenere per vivere lì, nella Culla della Vita. Le fondazioni e le iniziative che ha inaugurato servono a rendere quella lotta un po’ meno sanguinosa, e forse è proprio per questo, più che per la statura o per le spalle ampie che Hasheem Thabeet è ancora, nonostante tutto, un Gigante.  Un Gigante che è sorto, che è caduto.

Ma che non è mai crollato.

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Pubblicato da
Simone Simeoni

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