L’anno di Bobby

Quando parliamo di “calcio d’estate” è normale che il sistema nervoso si soffermi qualche secondo su un paio di gol fantasmagorici messi a segno in amichevole dal nuovo fenomeno della squadra, prima di passare alle innumerevoli voci di mercato che rendono l’afa di inizio Agosto leggermente più sopportabile. Traslando il discorso al mondo NBA, quelle amichevoli ben poco provanti sono interpretata dalla Summer League (in tre appuntamenti tra Las Vegas, Salt Lake City e Orlando), mentre le secchiate di acqua gelida o rinfrescante in base al contenuto delle notizie tendono a chiamarla free-agency. Eppure guardando la finale di Summer League, a parte le divise non all’altezza del marketing più evoluto al mondo, a parte le telecamere di ESPN 2, a parte il cast più simile a una finale NCAA che a una partita NBA, lo spettacolo c’è stato. Merito soprattutto del signor Denzel Valentine che con due buzzer-beater si presenta al piano di sopra consapevole delle sue abilità clutch. Uno serve a mandare la partita all’overtime, l’altro (di una difficoltà inaudita) a vincerla.

Nonostante le due perle del prodotto di MSU, senza le quali Chicago avrebbe perso contro Minnesota, all’ultimo atto brilla ancora il signor Bobby Portis.

Chiude la sua Summer League con 17,3 punti, 9,4 rimbalzi, 49% al tiro e 41% da oltre l’arco. Insieme a Jerian Grant è il trascinatore di questa squadra sperimentale in grado comunque di dare qualche buon elemento a coach Hoiberg. Se alla fine il premio di MVP delle finali se lo prende l’ex giocatore di New York, per Portis rimane una crescita costante che lo sta appropinquando sempre di più allo starting five dei Bulls (quelli veri). Prospettiva quasi utopica un anno e mezzo fa, quando nella Windy City lo chiamarono con la 22, sperando che levigando i numerosi difetti del nativo di Little Rock potessero farne un comprimario all’altezza. Ad Arkansas era diventato quasi un icona riuscendo ad equiparare l’hype di ben altri programmi della SEC come Kentucky, USC e Florida. Nel suo anno da sophmore si permette anche il lusso di vincere il SEC Player of The Year, tributo che ad Arkansas era toccato esclusivamente a Corlis Williamson nel ’94 e nel ’95. Nonostante molti mock draft lo davano in zona lottery, difficilmente sotto la ventesima, i vari GM si sono resi conto che le sue lacune difensive erano un qualcosa di mascherabile al college ma debilitante tra i pro. Strano, perché nella vita di Bobby la difesa, avulsa dal contesto cestistico, è sempre stata l’arma in più.

Da bambino viveva con mamma Tina e con i suoi tre fratelli più piccoli, un nucleo familiare al quale è sempre mancata la figura paterna. Bobby Sr. pagava un mese si e tre no gli alimenti (che tra l’altro ammontavano alla modesta cifra di 81$), la signora Tina era una dipendente dell’American Airlines e la sua più grande preoccupazione era fornire un istruzione adeguata ai figli, affinché capissero da soli la realtà nella quale erano costretti a vivere. D’altronde Little Rock è una delle città più brulicanti di gang e nei racconti del piccolo Bobby non mancano testimonianze di omicidi nell’autolavaggio sotto casa. Un giorno, mentre tornava da scuola, un gruppo di ragazzi lo avvicina e con maniere tutt’altro che gentili lo invitano a tirare fuori tutto quello che ha. Ovviamente non ha nulla e i malintenzionati minacciano di farlo fuori, ma dopo aver capito che effettivamente non avevano preso il figlio di Bill Gates se ne vanno con il portafogli vuoto del ragazzo. La mamma capisce che non si può continuare così e prova a dare una svolta alla vita della famiglia trasferendosi dal fidanzato.

Peccato che quest’ultimo ha un problema con l’alcool e una sera torna a casa ubriaco, minacciando di alzare le mani sulla signora Tina. Bobby stava facendo i compiti, sente l’accaduto e si frappone tra la madre e il padrone di casa. Il ragazzo ha quattordici anni ma già attenta ai due metri, e tanto basta per far desistere l’uomo dalla sua follia alcolica. Lì non si può più stare e quindi si torna a Little Rock, dai nonni, perché intanto il nido familiare era stato venduto. Nonno Otis (che tra l’altro voleva vedere il nipotino eccellere nel baseball) fa l’autista e aiuta la figlia a risparmiare per comprare una casa in un quartiere meno pericoloso. Passa un anno e finalmente l’occasione che la signora Tina attribuisce a Gesù arriva. Un uomo la chiama dicendole che c’è una casa in vendita che risponde alle esigenze della famiglia Edwards/Portis. Quella diventerà la sistemazione definitiva, anche se Bobby se la gode per un breve periodo, dal momento che nel 2013 si muove in prima persona coach Mike Anderson per vestire il più grande dei Portis con i colori dei Razorbacks. Ad Arkansas le cose non vanno proprio bene; ormai i due metri sono abbondantemente superati e la goffaggine mista ad un esplosività quasi nulla lo rendono un bersaglio appetibile per gli 1vs1. Bobby lavora giorno e notte, mamma Tina lo chiama tutte le sere per assicurarsi che non si demoralizzi, ma è tardi.

Se gli girano meglio lasciarlo in pace

Bobby non migliora e questo lo manda in bestia. Ogni allenamento è carico come una sveglia e anche quando va a giocare ai campetti con gli amici si procura infortuni di lieve entità. Non sa gestirsi e la delusione di perdere un pallone è quasi equiparabile a quella di perdere una partita. I compagni dicono che non è prudente batterlo al 2K perché dopo aver lanciato il joystick diventa intrattabile per un paio d’ore. L’anno da freshman si chiude con tante lacrime e qualche piccola gioia derivante dal mid-range dove parliamo di uno dei primi 10 giocatori collegiali nella nazione. Non basta, vuole di più e fortunatamente incappa in Corlis Williamson, proprio lui, la leggenda dei Razorbacks.

Al tempo aveva appena iniziato il suo lavoro come assistant dei Kings ma viveva a Ferndale, a pochi passi dal college. Si erano incontrati una volta quando Bobby aveva nove anni perché il figlio di Williamson, Chasen, frequentava dei corsi insieme a lui. Corlis ci parla, lo vuole aiutare, e lo invita a passare l’estate ad allenarsi con lui e con il figlio, promettendogli che ne avrebbe tratto giovamento. Se per un comune mortale estate fa rima con riposo, per Bobby è tutto l’opposto: si lavora cinque giorni a settimana (delle volte anche sette) perfezionando la meccanica di tiro, la posizione a rimbalzo e soprattutto l’attitudine difensiva. Portis incanta per la sua etica lavorativa e Williamson decide di affidarsi al suo amico Marcus McCarrol affinché seguisse lo sviluppo di questo ragazzo mentre lui prendeva la strada per Sacramento. Facilitando il pensiero di McCarrol: “questo qui non si tiene!”. Continuava a giocare a duemila ogni volta che una palla veniva alzata e così il problema vero divenne quello di incanalare tutte queste energie affinché fossero spese nei momenti opportuni. Il suo anno da sophmore è un epifania.

Anderson si ritrova in squadra un atleta che da quelle parti non si vedeva dai tempi di Williamson. Tira con il 56% dal campo e con il 47% da 3 (provando comunque meno di una tripla a partita di media), ne mette 17,5 ad allacciata di scarpa catturando anche 8,9 rimbalzi di cui un terzo sono offensivi. Finalmente la dinamite che ha nelle gambe trova uno sfogo costruttivo quando bisogna “fare a cazzotti” sotto le plance o quando, malgrado la sua stazza, si fionda su una linea di passaggio per involarsi in solitaria (1,1 rubate per game). I Razorbacks tornano al torneo NCAA dopo sette anni, arrendendosi al terzo turno contro North Carolina. Ormai tutti si sono accorti di un classe ’95 che in campo domina; la giuria lo inserisce tra i papabili venti per il Jhon Wooden Award, ma nello Stato non ce n’è per nessuno e arriva il SEC Player Of The Year, con buona pace dei vari KAT, Booker, Cauley-Stein. Dopo aver ricevuto il premio Bobby torna al college, digita il numero della madre e scoppia in lacrime. Continua a ripetere che senza l’intervento di Corliss Williamson lui non avrebbe combinato nulla di buono nella vita, ma adesso sapeva che il basket era il suo modo di stare al mondo e per il basket avrebbe cominciato a vivere dal prossimo anno. Era troppo tardi per il padre biologico, Bobby Sr., il quale lo avrebbe voluto incontrare prima del draft, ricevendo il no secco del figlio. Era tardi anche per il fidanzato di mamma Tina, sobrio e desideroso di un nuovo inizio che per ora non ha avuto il placet dell’uomo di casa.

Eccoci tornati al draft, quando le quotazioni del giovane Bobby scendono per due motivi: anzitutto i lunghi presi prima di lui erano più futuribili (Towns, Okafor,Porzingis,Lyles) oppure più NBA-ready (Cauley-Stein, Kaminsky), e inoltre il suo essere un 2,11mx104kg lo inseriva in una terra di mezzo aberrata dalla lega post esplosione dei Warriors. Troppo piccolo per fare la voce grossa nel pitturato, troppo grande per giocare contro i 4 in grado di tirare e attaccare i close-out. Nonostante le stuzzicanti fantasie che i tifosi dei Bulls covavano, il minutaggio pre All-Star Game di Portis dette ragioni ai detrattori.  “Il mio rookie wall finisce a Gennaio. Con Febbraio inizia una nuova stagione”. Le parole del diretto interessato sono profetiche. Sono due mesi e mezzo in cui minutaggio, punti, rimbalzi e assist subiscono un incremento che (anche a causa degli infortuni) lo spinge in quintetto per quattro volte. Chiude la sua prima stagione tra i grandi con 7 punti e 5,4 rimbalzi a partita, compresi 2 offensivi che lo posizionano dietro a KAT, Okafor e Jokic tra i rookie. C’è da mettere su qualche chilo e migliorare la posizione in difesa (gli avversari segnano 16,4 punti nel pitturato con lui in campo), perché da un giocatore che ci mette tanto impegno e riesce a complicare la vita di uno come Kyrie Irving ci si deve aspettare di più (DefRtg 108,6). Deve avere più fiducia nel suo tiro tutt’altro che malvagio (42,7% dal campo) con il quale potrebbe concedersi un dato migliore degli 0,8 tentativi da 3 a partita. Infine dovrebbe sviluppare una tendenza più associativa sulla quale però deve lavorare anche coach Hoiberg e con un compagno di squadra come Rajon Rondo passare il pallone ricorda più un’arte figurativa che un fondamentale della pallacanestro.

Un passaggio di Rondo genera questa reazione

A guidare la squadra durante la Summer League c’era l’assistant Pete Mayers, che a Little Rock ha frequentato il college e ricorda bene il posto in cui Bobby è cresciuto. “Mi spinge sempre al massimo, mi vuole davvero bene, per me è una figura paterna”. Portis ha un legame incredibile con Mayers, i due sanno che devono vivere il sogno al massimo delle loro possibilità per tutti quelli che da Little Rock non se ne sono mai andati. Tra questi c’è anche la signora Tina, che ogni volta che la TV inquadra il suo bambino gli manda un messaggio. Lei giocava a basket, il suo sogno era diventare una professionista, ma vedere un figlio che raggiunge i sogni di un genitore è forse ancora più appagante per quest’ultimo.

Nelle gerarchie Mirotic e Gibson partono davanti al prodotto di Arkansas, Fred Hoiberg potrebbe anche usare Snell e McDermott da 4 in alcuni frangenti di partita, ma la dedizione e la voglia di arrivare di Portis potrebbero fare la differenza. La Summer League non conterà nulla ma questo può essere il suo anno; non l’anno in cui esplode ma quello in cui prende coscienza delle sue reali potenzialità, quello in cui dimostra di poter essere qualcosa di più di un uomo da rotazione, quello in cui i messaggi di mamma Tina si moltiplicheranno perché le telecamere indugeranno più spesso su mister Bobby Portis.

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Pubblicato da
Paolo Stradaioli

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