Esiste un luogo dove gli Dei si recano per essere uomini normali. Esiste un luogo dove i professionisti affermati della NBA sognano di emulare gli street ballers. Sì, esiste. All’incrocio tra la 155th Street e la 8th Avenue, nella città fatta di sogni e di cemento, la città dove tutto sembra possibile, New York City.
Il bello è che qui spesso gli Dei… perdono.
Per comprendere la storia di un posto così tanto imbevuto di mitologia cestistica, è necessario prima presentare due personaggi collaterali quanto indivisibili, legati a doppio nodo con la fondazione dell’evento. Il primo di questi è Earl “The Goat” Manigault, il giocatore di playground più famoso della storia.
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All’alba dei primi anni ’60, New York era senza dubbio l’agglomerato urbano sulla terra dove più di tutti si respirava la pallacanestro di strada. E più nello specifico, il quartiere di Harlem veniva visto come la Mecca del basket all’aperto. Un luogo ecumenico-sacrale, da cui attingere spunti per imbastire aneddoti al confine fra favola e realtà. Earl era un adottato semi-muto, che viveva qui come un selvaggio, in una casa diroccata di legno senza luce e senza il becco di un quattrino.
Nel quartiere nero se sai giocare a basket, sai fare tutto nella vita e sei uno che conta. A 13 anni Manigault era in grado di schiacciare a canestro due palloni da volley contemporaneamente. Presto detto che diventò in breve tempo una vera e propria celebrità. La sua reputazione, nella City di quel decennio, crebbe esponenzialmente, a tal punto da venire fregiato del titolo di Re di Harlem.
Nell’Independence Day 1960, il Re prese parte ad un All-Star Game per i migliori adolescenti della Big Apple e durante la partita, affondò una superba schiacciata ascensionale lievitando a trenta centimetri sopra il ferro. Poco? Suonerà ancor più strabiliante se si pensa che lo fece in testa a due torreggianti figuri, che di basket ne sapevano abbastanza. Uno era Connie “The Hawk” Hawkins. L’uomo a cui ad Harlem assegnarono il trofeo di MVP senza che avesse nemmeno preso parte alla competizione. Perché?
Perché ad Harlem, se decidi di dare un trofeo di MVP, non puoi non darlo a Hawkins
L’ altro era Lewis Alcindor. Kareem Abdul-Jabbar per intenderci, il giocatore che ha segnato più punti nella storia della NBA e che parlò di quella schiacciata:
Qualcosa di abbondantemente oltre i confini della realtà
Earl “The Goat” fu un grande atleta senza un briciolo di disciplina. Sapeva fare l’amore con la palla a spicchi. Purtroppo però, a Earl Manigault piaceva flirtare molto da vicino anche con alcol di infima qualità, sigarette e droga. Infatti, venne presto espulso dalla Benjamin Franklin High School, dopo essere stato sorpreso nei bagni a fumare uno spinello. A poco gli valsero i 43 punti messi a referto, da ubriaco per altro, in una gara di finale per il titolo della città. Ed è proprio in seguito a quest’ultimo evento che subentra il secondo personaggio di questa storia.
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Holcombe Rucker era invece un ex Marine dell’Esercito degli Stati Uniti d’America. Nel secondo dopoguerra, cercava di guadagnarsi da vivere facendo il guardiano per un parco tra la 130th Street e la 7th Avenue, a nord di Manhattan. Eternamente sovrappeso, aveva la malsana abitudine di accendersi la sigaretta con il mozzicone di quella appena finita. Che altro? Che Rucker possedeva quella sensibilità tipica degli uomini che hanno visto la morte in faccia.
Non ci teneva quindi che un altro dei “suoi” ragazzi, giocatori del parco, dissipasse il proprio futuro a causa di violenza e/o stravizi. Così, fu il guardiano Holcombe in persona a mandare Manigault nella Carolina del Nord, per frequentare il Johnson C. Smith College, dove a professare basket c’era: Bill McCullough, il Buddha del gioco controllato di squadra. Ma Manigault era un figlio della strada, apparteneva al playground, non adatto a sistemi organizzati e a regole.
Earl lascia perciò il college e torna ad Harlem, dove però scopre che Rucker, l’unico vero amico che abbia mai avuto, è morto di cancro. Era la fine degli anni ’60. Sinatra cantava My Way, Alcindor entrava nella NBA e Manigault si squadrava le braccia, alla ricerca di uno stralcio di pelle ancora buono per infilare l’ago e farci un buco.
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Fu nel 1971 che Earl “The Goat”, durante uno dei pochi momenti di lucidità che la droga ancora gli concedeva, interpellò il più influente spacciatore di Harlem, per ottenere un campo da basket immacolato in cui organizzare il Rucker Memorial Tournament. Manigault era ormai un uomo straziato dalla grande signora in bianco, ma l’abilità nel basket ancora pagava all’interno della comunità nera. Fu così che ottenne il playground a Morningside Park. Sede che, di lì ad un anno, venne poi trasferita nell’attuale posizione dell’Holcombe Rucker Park, a ridosso del Bronx.
Oggi il torneo si chiama EBC Tournament, dura tutta l’estate ed è diventato un evento mediatico, in cui le stelle della NBA si cimentano per curiosità o per sfida, sotto gli occhi di una folla in visibilio ad ogni gesto atletico-tecnico di rilievo. Tutto molto bello, se non fosse che l’entusiasmo degli spettatori spesso eccede in vere e proprie invasioni di campo e conseguenti interruzioni forzate della manifestazione. Come nell’anno 1999, quando Vince Carter ed Anthony Heyward “Half Man Half Amazing” misero in piedi alla Gauchos Gym una “guerra” di triple. Poi Carter piazzò una pazzesca schiacciata in 360, il pubblico irruppe definitivamente e fine dei giochi.
Fra i volti intriganti comparsi negli anni al Rucker, si ricorda Joe “The Destroyer” Hammond. Ala di 1.94 metri che ingaggiò un duello epico con niente meno che Doctor J. Non è chiaro se effettivamente Hammond arrivò o no a partita già iniziata, e se segnò 50 punti protraendo la gara al secondo overtime. Sta di fatto che nel 1977, Hammond 73 punti in una sola partita al Rucker li segnò per davvero (record ogni epoca). Con essi arrivarono gli applausi e un’offerta di contratto da parte dei Los Angeles Lakers, poi declinata perché considerata meno vantaggiosa rispetto al profiquo business dello spaccio.
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Come il Distruttore, “Pee Wee” Kirkland divise la propria vita fra il redditizio spaccio di droga e le partite al Rucker. Avendo giusto appena il tempo di fare un saluto al training camp dei Chicago Bulls, strapazzare Doug Collins e tornare a casa per vendere al tossicodipendente della porta accanto l’ultima dose avanzata di cocaina. E “Helicopter” Knowings, il più grande saltatore di tutti i tempi. Secondo la leggenda, una volta rimase sospeso in aria tanto a lungo che il suo difensore ebbe il tempo di tornare a terra dopo il balzo difensivo e commettere infrazione di 3 secondi… remember the crocodiles in sewers.
Ma il Rucker Park è anche questo. Un luogo iperbolico in cui andare ogni estate, per recitare una parte che, forse, qualche fessacchiotto un giorno riporterà in un articolo o in un libro. Per tutti i talenti di strada, il Rucker Park rimane però soprattutto una seconda casa, dove allacciare un vecchio paio di Jordan scolorite ed insegnare lo streetbasketball anche a chi da imparare, non sembra avere più nulla.