Perdere Kevin Durant

Fin da pochi istanti dopo l’annuncio di Kevin Durant di lasciare l’Oklahoma per firmare con i Golden State Warriors in molti hanno iniziato a porre una ed una sola domanda: scelta giusta o scelta sbagliata? Verrebbe da chiedersi se Kevin Durant ha mai sentito parlare dei Centri di Gravità Permanente, quelli che, come diceva il Maestro, dovrebbero servire a non cambiare idea sulle cose e sulla gente, ma francamente ogni analisi semplicistica di questo tipo finisce quasi subito con l’avere poco valore; provare a dare una risposta esauriente ad un argomento così soggettivo e controverso, con milioni di sfaccettature diverse e soprattutto emozioni e sentimenti semi-impossibili da conoscere (che forse il solo Durant può sapere) è poco produttivo, o peggio astratto.

Quello che invece possiamo constatare è che la scelta di KD ha generato delle conseguenze psicologiche inevitabili. Da quelle sui tifosi dei Thunder (in questa categoria non rientrano i cretini che bruciano le magliette, sia chiaro) a quelle sui suoi ex-compagni di squadra; oppure sui componenti dello staff tecnico o del front-office (Sam Presti), fino a quelle sul resto della lega più in generale.

Quando una persona così importante della tua esisistenza, che ha cambiato il tuo percorso di esperienza-diretta in maniera così tangibile viene meno, si può arrivare a soffrire di una condizione psicologica definita come Sindrome dell’abbandono. L’importanza che Durant aveva nell’emisfero-Thunder era talmente elevata che la sua decisione, caduta dal cielo come uno dei tantissimi fulmini (Thunder, appunto) che caratterizzano lo stato dell’Oklahoma, ha causato delle conseguenze psicologiche inevitabili. Che Kevin Durant mancherà di certo a tutti, ma come si fa a superare un trauma così invasivo? Ci sono diversi modi per superare o combattere questa sindrome; va da sé che molto dipende dal carattere e dalle esperienze di vita precedenti del soggetto in questione.

Per esempio Sam Presti ha sfoderato per l’ennesima volta tutta la tranquillità d’animo di quelli che hanno imparato ad accettare le conseguenze della vita: se si ha la consapevolezza interiore di aver fatto tutto il possibile anche i drammi inaspettati diventeranno (leggermente) più semplici da digerire: per semplificare potremmo definire questa reazione come un’accettazione del cambiamento.

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Presti ha mostrato tutta la sua classe con una dichiarazione che trasuda intelligenza in ogni parola, augurando il meglio per KD, parlando di come tutti dovrebbero essergli grati e di come Durant andasse ricordato anche (e soprattutto) per tutto quello che ha fatto per la comunità.

Come detto l’esperienza-diretta è un fattore fondamentale e l’aver dovuto superare il caos mediatico della trade-Harden ha concesso a Presti di avere una corazza più spessa; così come deve averlo aiutato la consapevolezza di aver fatto davvero tutto il possibile, nel modo più corretto possibile, per provare a trattenere Durant. Semplicemente a volte le disgrazie succedono: sono fortunati quelli che hanno persone come Sam Presti a rimettere insieme i pezzi.

Come naturale che fosse i giocatori hanno avuto invece reazioni molto più emotive, anche se variegate tra loro. Nonostante ci si affretti sempre nel sottolineare i guadagni milionari, la visibilità, la popolarità, l’obbligo di rappresentare un modello per le comunità, tendiamo con altrettanta facilità a dimenticare che in fondo stiamo parlando di ragazzi che (generalmente) vanno dai 19 ai 30 anni, e che quindi non hanno ancora raggiunto la loro completa formazione neuro-emotiva.

Con l’abbassarsi dell’esperienza-diretta diventa più difficile schermare il proprio disagio emotivo. Uno dei metodi più semplici per corazzarsi diventa quello di gonfiare spasmodicamente l’ego: possiamo definire questo fenomeno come l’importanza dell’identità. E nessuno ― ma proprio nessuno ― è in grado di esaltare il concetto di identità meglio di Russell Westbrook.

I minuti successivi alla decisione di Durant ― oltre a chiedersi se fosse una mossa giusta o sbagliata ― hanno dato vita anche ad un’altra domanda capitale:

Come sta Russell Westbrook?

Nei giorni successivi all’uscita della lettera su Players Tribune sono rimbalzati commenti e/o presunte dichiarazioni sull’umore di Westbrook. Si è detto che il rapporto tra i due non sarà più lo stesso, che Westbrook fosse arrabbiato, deluso, ferito dal comportamento dell’ex compagno. Westbrook si è preso ― come giusto che fosse ― del tempo per pensare a quale volto mostrare pubblicamente; riflettere su quanto male effettivo avesse subito e su quale aspetto della sua personalità concentrare gli sforzi emotivi (tradotto: come corazzarsi). E Westbrook, ragazzo dal cuore enorme, ha mandato un messaggio chiarissimo, folgorante, quasi aggressivo: esattamente un mese dopo ha annunciato il suo rinnovo con i Thunder postando questa foto sul suo profilo twitter.

L’impatto visivo di questa foto è impressionante, quasi stordente. L’uniformità dei colori ― o meglio del colore, il bianco ― è potente come un frame di Utopia ed ogni singolo centimetro della sua muscolatura sembra urlare sentimenti mistici da fanatismo. Nel suo ricorrere all’importanza della propria identità Westbrook finisce per indossare la maschera che più gli si confà: mostra i muscoli dell’uomo d’acciaio (corazza) e si scrolla di dosso tutte le sovrastrutture del suo recente passato (“Adesso sono io il leader”), minacciando la guerra della rivendicazione ma mostrando la sensibilità dell’uomo in missione.

Westbrook ha bisogno di caricarsi il mondo sulle spalle (di qualsiasi mondo si tratti) e di riconoscersi in un epica logorante, solitaria, inattaccabile. Quando un giornalista gli chiede se fosse rimasto ferito (sting, in inglese) dal comportamento di Durant lui con faccia assente ma cuore (molto) presente si abbandona in un quasi istintivo “Sting for who?” che penso riassuma perfettamente la sua emotività.

Ma tanti giocatori dei Thunder hanno esternato i loro sentimenti. Anthony Morrow al contrario di Westbrook non sembra possedere lo stesso stoicismo e appena saputa la notizia ha sentito il dovere di sfogare la sua frustrazione con un tweet (poi cancellato) malinconicamente isterico, come quando un bambino piange perché la mamma dopo averlo portato a scuola se ne va (esempio classico di Sindrome da abbandono).

Diverso ma ugualmente interessante il comportamento di Cameron Payne che, passata la crisi da separazione, ha riversato tutta la sua personalità sul nuovo giocattolo scintillante, riflettendo un bisogno di identificazione necessario per superare il trauma. Ancora una volta il tempo è il solo maestro di vita capace di levigare le proprie sfere sensoriali: i due giovani Thunder sono ancora molto lontani dal possedere lucidità di Wade o, ancora meglio, di Paul Pierce che dall’alto della sua seraficità  trova sempre le parole giuste (e d’altronde se lo chiamano The Truth un motivo ci sarà).

Chi però ha davvero portato il limite della comunicazione (e non è una novità) su un altro livello è la coppia Enes Kanter-Steven Adams.

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L’estate del centro turco è stata molto movimentata (come quella di molti suoi connazionali, specie dopo il tentato colpo di stato); se chiedessimo a Kanter quali siano i problemi che lo affliggono maggiormente molto difficilmente ci direbbe qualcosa di relativo alla pallacanestro. Ma avendo un animo (scontroso ma) generoso la notizia della partenza di Durant non l’ha lasciato indifferente. Anche lui ha riconosciuto immediatamente la nuova leadership e neanche era iniziata l’alba del nuovo impero che si era già gettato su una granata per difendere l’onore del proprio generale. L’umorismo di Kanter è piccante come un kebab fatto a regola d’arte ma ha al suo interno anche un’intelligenza da non trascurare. Per esempio il consiglio dato ai tifosi dei Thunder di non bruciare le magliette, ma di risparmiare soldi e rabbia in maniera molto più costruttiva, ne è un esempio molto efficace.

Le persone come Kanter hanno sentimenti profondi ma sono sostanzialmente dei cazzari della prima ora e quindi ti fregano due volte. Non restano immuni ai traumi e di conseguenza ne soffrono come tutti, con la differenza che esternamente mostrano la faccia tosta e si rendono molto difficili da decifrare. È però molto interessante vedere l’evoluzione della sua emotività nel corso dell’estate. Piccolo inciso. Come penso molti di voi sapranno Kanter e Adams hanno dato vita ad uno dei siparietti più divertenti della passata stagione: gli Stache Brothers. Kanter appena finita la stagione agonistica ha deciso però di tagliarsi i baffi, sancendo la fine della coppia; l’ha fatto con la bontà d’animo di quelli che sanno di avere una famiglia unita. Guarda caso però poco dopo l’addio di KD il baffo è tornato al suo posto, chiedendo ad Adams una riammissione pacifica. Ma Adams ha negato l’accesso con fare offeso, portando Kanter a sfoggiare nuovamente il suo humor tagliente e a chiedergli di non tradirlo come qualcun altro che i due conoscono bene.

Non sappiamo se alla fine Steven Adams cederà, ma all’interno del Meraviglioso Mondo di Steven Adams le relazioni personali sono molto importanti e un metodo valido per superare la Sindrome dell’abbandono è quello di dare importanza alle relazioni che potrai avere e che hai adesso, dimenticandoti a quelle che hai perso. Quindi, appurato che Kanter tornerà ― anche perché il giovane turco non molla, anzi, rincara la dose ―, è comunque interessante dare una lettura anche alla reazione emotiva di Adams. Le vacanze sono una componente fondamentale della sua filosofia e quindi niente di meglio di una desolata spiaggia cilena deserta per schiarirsi le idee.

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Subito dopo aver gridato ai mari del pacifico cose che anche se ascoltate difficilmente capiremo (e l’accento kiwi non aiuta), Adams ha deciso di affrontare proprio il citato oceano (forse a nuoto) per spendere del tempo in Giappone, dove si può meditare e svuotare la mente dai pensieri negativi. Ora, comprendere la capziosissima filosofia adamsiana è un compito che lasciamo volentieri ad un’altra volta (avevamo iniziato a farlo qui), ma possiamo stare certi che anche se appare duro come una scogliera neozelandese il giovane Steven ha sofferto l’addio di Durant. Quei comportamenti di lucida follia che lo contraddistinguono però sono rimasti, e questa è la cosa migliore per non perdere la propria personalità; infatti Adams, oltre a ridare voce ad uno dei pezzi più teenager della fine degli anni ’90, ha anche dato una lucida chiave di lettura su cosa la partenza di Durant significherà sul futuro suo e della squadra. Riassunto: “Il passato è passato, vorrà dire che dovrò iniziare a prendermi qualche tripla”.

Lasciando perdere quella vocina nella testa che vorrebbe farci parlare di come Adams potrebbe davvero diventare un tiratore vista la sua velocissima capacità di apprendimento (10 anni fa non sapeva neanche cosa fosse un canestro) è importante trarre da Adams forse la lezione più importante di tutte. Nonostante quanto la vita possa deluderti, portarti davanti a momenti di difficoltà, chiuderti ogni speranza, non dobbiamo mai dimenticare chi siamo realmente.

Perché se abbandoniamo la nostra coscienza emotiva a se stessa corriamo il rischio di lasciarsi andare alla rassegnazione. Ma quando manteniamo accesa la nostra luce interiore, quando diamo sfogo alla nostra emotività, quando prendiamo la vita con la giusta mentalità, è allora che possiamo superare ogni ostacolo. Per quanto sia difficile superare la mancanza, la stanza vuota, il ricordo ingombrante di qualcuno, non dobbiamo mai dimenticarsi che il nostro percorso, per quanto sia vero che è legato anche agli altri, resterà sempre il risultato del nostro sacrificio, del nostro essere ambiziosi.

E allora ben venga l’umorismo di Kanter, la follia di Steven Adams e la resilienza di Russell Westbrook. Ben venga l’intelligenza di Presti e la voglia di rimboccarsi le maniche di ogni persona che vorrà credere nei nuovi Thunder.

Il domani è già qui e con la giusta forza di volontà sarà ancora luminoso.

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Pubblicato da
Niccolò Scarpelli

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