Le nocche strette, il pugno serrato.
Come quella dimostrazione di forza, potenza e strafottenza che ti porta a lasciare a terra enormi gocce di sudore. Soltanto perché in realtà quelli da mandare in pensione saranno sempre gli altri. La difesa è casa tua e un canestro evitato è provocazione efficace e pungente seconda soltanto a quelle spavalde flessioni concesse al boato del pubblico. Falangi schiacciate sul parquet e quel corpo d’ebano che sale e scende a sfiorare il legno meno pregiato che disegna cerchi concentrici sul fondo del palazzetto.Il padrone sei tu, quello il tuo regno e quello è il tuo popolo. Una monarchia che non necessita di corone per palesarsi.
Le nocche strette, il pugno serrato.
Come quella vittoria dalla fragranza perfetta, dal sapore rarefatto di vette che in pochi (o nessuno) ha realmente mai raggiunto. E stringi quel trofeo come se avesse una consistenza finalmente diversa: stavolta è davvero tutto tuo e nessun MVP da 220 centimetri o 150 chilogrammi potrà mai fare ombra sui riflessi che quel giallo non smette di dispensare attorno a te. Tu e la tua coppa tra le mani, l’idillio per un desposta che non conosce altra legge se non la sua. E non conosce altra religione se non quella marchiata dalla W di vittoria.
Le nocche strette, il pugno serrato.
Come quella canotta tirata ad un compagno da riportare all’ordine. Perché la protesta non è né pretesto né soprattutto strumento di lotta. Perché la forma va lasciata agli altri, e la sostanza va curata nel proprio intimo, nel proprio posto. Perché l’esempio non va a referto, ma segna un sacco di punti nel cuore di chi ti segue. Perché un leader democratico non ti urla nelle orecchie, ma ti dà tanto da studiare. Le note del successo sono così complesse da decifrare, ma una volta suonate diventano cultura.
Soltanto il basket poteva riuscire nel miracolo di racchiudere tre personalità così differenti in 28 metri di campo. Tre eccellenze, tutte a modo loro. Differenze percepite prima ancora che reali in verità, perché per il podio per l’etica del lavoro non c’è gara: se lo accapparano loro (l’assegnazione di argento e bronzo la lascio volentieri a voi, auguri). Nonostante questo però sono riusciti a convivere sullo stesso palcoscenico senza togliere nulla l’uno all’altro. Ma anzi, aggiungendo peso e valore al traguardo che vicendevolmente si sono ritrovati a tagliare.
Su 12 degli ultimi 20 anelli NBA c’è il loro timbro, spesso faccia a faccia a lanciarsi urla di disprezzo o a pestarsi i piedi nel silenzio di una lotta a rimbalzo. Senza mai compromessi, fedeli al proprio credo.
Questo è quello che più mancherà di Kevin, di Kobe e di Tim. La coerenza.
La capacità di intercettare un modo di essere prima ancora che un modo di giocare. Di far sentire il tifoso in realtà parte attiva in una battaglia ben più alta, nella quale appendere un poster al muro diventa dichiarazione d’appartenenza. Diventa colorare la propria vita con una bandiera.
Ecco, la bandiera. Le tinte di quelle di Garnett, Bryant e Duncan con gli anni hanno in realtà sempre più assunto tinte rosse, bianche e blu: quelle del logo dell’NBA, della Lega della quale sono diventati non simbolo, ma rappresentazione in campo.
C’è stata l’era dei Russell e dei Chamberlain, dei Magic e dei Bird e quella di Kevin, Kobe e Tim, finita ufficialmente questa estate ma che già ha valicato il confine della cronaca per varcare le porte della Storia.
Prima però, resterà a lungo quel sapore di vuoto. Di assenza. Duro da digerire come un colpo allo stomaco.
Con le nocche strette e il pugno serrato.