Dwyane Wade che protesta con veemenza con l’arbitro appostato sulla linea di fondo per un presunto (nonché probabile) fallo subito, Kemba Walker che qualche metro più un là esulta, consapevole di essere a tanto così dall’entrare nella storia della franchigia che l’ha scelto e eletto a suo go-to-guy, dopo anni di vacche magrissime, a tratti (vedi annata fortunatamente breve 2011/2012) addirittura scheletriche. Qualche giorno dopo, invece, su quello stesso campo, ad alzare le braccia al cielo, peraltro con notevole anticipo sulla sirena finale, è invece il go-to-guy avversario, corsaro in North Carolina e poi poco più che in ufficio all’American Airlines Arena, ad assistere al completamento dell’altrui harakiri.
Perché a Charlotte, soprattutto da quando i più gloriosi Hornets sono tornati in qualità di eredi dei derelitti e talvolta tragicomici Bobcats, le cose paiono sempre andare così: un miglioramento, un segnale che fa ben sperare, un buon risultato, quasi sempre immediatamente smentito nel momento della conferma. Nella sua reincarnazione come Bobcats/Hornets, Charlotte non è mai tornata ai playoffs l’anno successivo alle rare volte in cui era riuscita a strappare un seed nel tabellone. E la scritta Hornets stampata sulle maglie in campo non si è mai vista nella storia della Lega dopo il secondo turno. Ora per Kemba e soci è tempo di invertire la rotta, e non tremare nel momento decisivo, di fronte cioè a una stagione, questa in entrata, che potrebbe consacrare la franchigia come realtà vincente a Est o, al contrario, ricacciarla tra i bassifondi da cui con tanta fatica era riuscita a uscire.