Nati tra il 1974 e il 1980, se fossero cresciuti in Italia Chauncey, Richard, Ben, Tayshaun e Rasheed sarebbero sicuramente stati allevati a pane, latte e Goldrake. La sigla di uno dei cartoni animati giapponesi più amati dai giovani telespettatori di fine anni ’70 recita una frase tanto celebre quanto priva di senso che tanti bambini ha fatto cantare in tutto lo stivale: “Mangia libri di cibernetica, insalate di matematica”. La nostra storia ci porta ad immaginare che le mamme dei succitati futuri campioni NBA abbiano individuato il modo giusto,“the right way”, di interpretare quella sigla e abbiano preso in mano il vocabolario alla ricerca del significato della parola “cibernetica, portando i figli a comprendere un concetto chiave di uno dei più grandi upset sportivi di inizio terzo millennio.
A inizio anni 2000 i Detroit Pistons bivaccavano nel limbo della Lega e il rispetto a loro dovuto vive ancora del ricordo dei Bad Boys che nel 1989 e nel 1990 si inserirono di prepotenza tra il predominio gialloviola dello Show Time e l’onnipotenza cestistica di MJ e dei Bulls di Coach Jackson. Isiah Thomas, Dennis Rodman e Bill Laimbeer hanno chiuso con il basket giocato, ma un pezzo pregiato di quei ragazzi cattivi, l’ MVP delle Finals ’89, ha intrapreso la strada del GM, sedendo dietro la scrivania della franchigia di MoTown e con in testa “the right way” per riportarla al successo.
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Joe Dumars, prima del back to back dei Bad Boys, non conosceva il gusto dolce, stordente e soprattutto assuefacente del successo; non immaginava neanche lontanamente come vincere portasse a vincere. È un po’ come i bambini quando assaggiano per la prima volta il cioccolato: finché non ne assaporano il gusto non conoscono uno dei veri piaceri della vita, ma una volta messo in bocca il primo pezzo, non ne sanno più fare a meno. E Joe si sente in astinenza dalle vittorie, vuole riportare Detroit sul tetto del mondo e il 2003 è l’anno della svolta. Dopo due anni con Rick Carlisle, abile ma poco fedele coach lanciato dai Pistons nel 2000, Detroit pensa che “the right way” per tornare a stupire il mondo sia quello di affidare la panchina ad un genio del pino, Larry Brown.
La squadra è ricca di buoni giocatori, il gruppo è solido ma è privo di un vero e proprio go to guy alla Allen Iverson, tanto per ricordare chi, con coach Brown alla guida, aveva fatto sognare i tifosi della città dell’amore fraterno. Billups, nonostante abbia messo in mostra un talento fuori dal comune nel college basket, non è mai emerso nella Lega se non a sprazzi nelle stagioni al fianco di Garnett a Minnesota; Richard “Rip” Hamilton, dopo gli anni a Washington nei quali ha avuto la fortuna di giocare affianco alla terza, e per ora ultima, reincarnazione di Michael Jordan, è un ottimo realizzatore, abilissimo ad uscire dai blocchi e mettere molti punti in poco tempo, ma è uno che ha bisogno del sostegno e del lavoro della squadra per decidere ed incidere; Ben Wallace è un ottimo difensore, anzi è il difensore per eccellenza nella NBA, ma in attacco la palla gli scotta tra le mani e spesso e volentieri si estranea dedicandosi solo ed esclusivamente al lavoro sporco; Tayshaun Prince, infine, viene da una stagione difficile perché coach Carlisle non lo ha mai investito della fiducia necessaria per farlo emergere, etichettandolo come troppo esile e privo di ruolo. Dalla panchina si può pescare “The Big Nasty”, Corliss Williamson, uno dei lato B più prominenti e più incisivi in post basso della lega, nominato sesto uomo dell’anno nel 2002; Lindsey Hunter, ottimo gregario; Mehmet Okur, astro nascente del basket turco, Elden Campbell, Chuky Atkins, Mike James, Rebraca e Darvin Ham.
Insomma un ottimo gruppo ma di sicuro non il primo team ad essere indiziato come favorito alla carica di campione NBA. E la scelta al Draft non fa altro che confermare ai tifosi dei Pistons che la stagione non sarà di quelle da ricordare. La lottery è benevola con Detroit, tanto che la pallina da ping pong con l’effige della città dei motori è la seconda a scendere dopo quella di Cleveland e il menù delle scelte è particolarmente ricco di pietanze prelibate: LeBron James, Carmelo Anthony, Chris Bosh e Dwyane Wade. Tra lo stupore di tutti i presenti la scelta dei Pistons ricade però su Darko Milicic. Detroit, non potendo arrivare al Chosen One, scelto da Cleveland alla numero uno, preferisce il gigante serbo al talento cristallino del neo campione NCAA con Syracuse, a Bosh e al piccolo Flash proveniente da Marquette.
Nonostante tutto, comunque, i Pistons partono bene: il credo di coach Larry Brown, affiancato dal fratello Herbie (con il quale non ha avuto sempre un buon rapporto) genera una solidità difensiva e una ossessiva ricerca della scelta giusta in attacco, “the right way” , che porta i Pistons ai vertici della Eastern Conference. Indiana e New Jersey sembrano averne di più e gli addetti ai lavori le elevano a vere pretendenti al titolo ad Est, ma i Pistons ci sono, non mollano e tengono botta. La squadra viaggia a buone percentuali in attacco e in difesa è praticamente perfetta, ma c’è bisogno di quella stilla di talento che faccia la differenza nei momenti cupi della stagione, che emerga e prenda per mano la squadra nelle pieghe di quelle partite chiuse ed equilibrate che necessitano del colpo di genio per avere la meglio. Al limite della deadline di febbraio 2004, neanche a farlo apposta, Portland, molto più simile ad una comunità di recupero che a una franchigia NBA, pensa che “the right way” per dare una svolta alla sua stagione sia quella di dover lasciar andare qualcuna delle tante teste calde che compongono il suo roster. La scelta è ardua perché i pretendenti sono tanti: Ruben Patterson, Bonzi Wells, Qyntel Woods, ZiBo, Rasheed Wallace. Il ragazzo di Philadelphia, con trascorsi collegiali alle dipendenze di Dean Smith e dei Tar Heels di North Carolina, viene epurato dallo staff di Portland e dopo una brevissima, quasi impercettibile, parentesi in maglia Hawks, viene ingaggiato dai Pistons. Ecco il tassello mancante, il colpo di genio, la dose di talento necessaria per rendere mortale il cocktail di coach Brown: il numero 30 in canotta Pistons: Rasheed Wallace.
La squadra è ora al completo e Joe Dumars sa di avere in mano un gruppo dal valore molto più alto di quello attribuitogli dagli esperti. Provate ora a fare un viaggio con noi. Imbarcatevi sul primo volo per la Giamaica, destinazione Ocho Rios, per ammirare un vero e proprio unicum del pianeta Terra: le cascate del fiume Dunn. Una montagna d’acqua che da 180 metri sopra il livello del mare si tuffa sul Mar dei Caraibi e che l’uomo ha deciso di affrontare e di scalare controcorrente, nonostante l’acqua gelida, fidandosi dei suoi compagni di avventura dai quali non può prescindere, sfidando la natura, formando una catena umana capeggiata da una guida esperta. È la fiducia nel prossimo l’elemento base per scalare le cascate del fiume Dunn, ed è la fiducia nel prossimo l’elemento chiave del successo dei Pistons. Larry Brown, come la guida esperta giamaicana, al grido di “play the right way” dopo la pausa dell’All Star Game di Los Angeles mette in fila i suoi scudieri che, tenendosi per mano, superano qualsiasi ostacolo grazie all’aiuto reciproco e alla fiducia incondizionata l’uno nell’altro.
I Pistons raggiungono i playoff con la terza posizione nella griglia della Eastern Conference dietro Indiana (dell’ex Carlisle) e New Jersey (reduce da due finali Nba consecutive). I playoff sono avvincenti: a Est Detroit la spunta eliminando i Bucks al primo turno, i Nets (ribaltando uno svantaggio di 3 a 2) in semifinale di Conference e i Pacers in finale. Della serie contro Indiana rimarrà negli annali “The Block”, la stoppata memorabile rifilata da Tayshaun Prince a Reggie Miller a 40″ dalla fine di gara 2 che evita il canestro della parità e indirizza definitivamente la serie consegnando le chiavi delle Finals NBA ai Pistons. A Ovest ci sono i soliti Lakers, che a inizio stagione hanno creato un vero e proprio Dream Team affiancando alle due bocche da fuoco principali Kobe e Shaq (ormai ai ferri corti nei rapporti personali) , due veterani, due Hall Of Famer della Lega ai quali manca solo il titolo NBA per mettere la ciliegina sulla torta di una carriera fenomenale: Karl Malone e Gary Payton. I gialloviola la spuntano di prepotenza trovando “the right way” per eliminare in finale l’edizione più bella e concreta di sempre di Minnesota in versione Timberwolves e approdano all’atto conclusivo della stagione come favoriti a riprendersi quel titolo che, dopo tre anni consecutivi di successi, era stato strappato loro nel 2003 da Tim Duncan, Gregg Popovich e tutta la compagnia in nero-argento.
Le Finals vengono presentate come l’ennesimo sacrificio della squadra proveniente da Est, la tendenza sembra dover essere quella degli ultimi anni: vittoria facile per la compagine della Western Conference. Anche i bookmaker snobbano i Pistons non ritenendoli in grado di poter competere contro l’armata di Phil Jackson e sottovalutando l’importanza e la preparazione di chi, sempre seduto in panchina e sempre da underdog, qualche anno prima aveva sgambettato i Lakers, fosse anche solo per gara 1 delle Finals 2001. Come i Sixers di Allen Iverson anche i Pistons sbancano lo Staples Center alla prima uscita: 87 a 75 il risultato finale tra lo stupore di tutti. Kobe & Shaq sempre più distanti dal punto di vista dei rapporti personali sembrano non collaborare e i due super veterani Malone e Payton sono lontani dai fasti dei tempi migliori. Gli interrogativi sono tanti anche perché, a differenza del 2001, i Lakers si trovano di fronte una squadra compatta e agguerrita che affronta ogni possesso “in the right way” e non un singolo fromboliere come The Answer.
Gara 2 è drammatica, la partita si gioca punto a punto e i Pistons non si accontentano di aver ribaltato il fattore campo nella partita precedente. Detroit accelera e si ritrova a un possesso pieno e pochi secondi dal punto del 2a0. È l’orgoglio del Black Mamba a salvare i Lakers da una sconfitta che avrebbe dell’incredibile: Kobe sulla sirena mette la tripla del pareggio da distanza siderale e all’overtime, complice uno Shaq costretto a spendere uno dei quei pochi gettoni che gli sono rimasti in tasca, porta i Lakers sull’uno a uno. La serie si trasferisce a Est e il clima è torrido. Le prime due gare allo Staples hanno dimostrato che i Pistons sono più freschi degli avversari: la lucidità offensiva gestita da Mr. Big Shot Chauncey Billups, la difesa ossessiva di Prince su Kobe, i kilometri macinati dall’uomo in maschera Rip Hamilton, il comando sotto i tabelloni del Wallace-Duo e la scarica di energia portata dalla panchina di Detroit creano più di un dubbio nella mente dei Lakers che non sono più sicuri e spavaldi come prima della palla a due di Gara 1.
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Il Palace of Aubune Hills è una bolgia, neanche fosse il Sukru Saracoglu di Istanbul durante il derby calcistico tra Fener e Galatasaray e a rincarare la dose ci pensa John Mason, storico speaker del “Palace”, con la presentazione dei quintetti sulle note di The Final Countdown e il suo continuo ed incessante “Deee-troit Basketball”. Non c’è storia, le tre partite non avranno mai inizio, saranno un tripudio bianco-rosso-azzurro, una lezione di coralità e di lavoro di squadra, la perfezione dell’esecuzione offensiva e della intensità difensiva, un inno alla forza di volontà e all’unità di intenti. Lakers tenuti sempre sotto i 90 punti nelle tre gare lontano dallo Staples, tre vittorie schiaccianti e anello per i Pistons di Coach Brown e Joe Dumars.
Ricordate le mamme di Chauncey, di Rip, di Ben, di Tayshaun e di Sheed con il vocabolario in mano all’inizio della nostra storia? Devono aver spiegato alla perfezione il concetto di cibernetica ai loro figli, insegnando loro, con quella parola, l’importanza dell’insieme e del concetto che il tutto è maggiore della somma della singole parti. A differenza dei Lakers che hanno assemblato dei singoli pezzi, seppur di valore, sconnessi l’uno dall’altro, i Pistons hanno creato un insieme nel quale la forza di un singolo elemento è propulsione e benzina per lo sviluppo degli altri, arrivando a creare un sincronismo e un funzionamento in grado di produrre molta più energia di quella realizzata dalla semplice somma degli individualismi.
Purtroppo quella vittoria resterà il classico Gronchi Rosa per un gruppo che invece avrebbe potuto dominare negli anni, causa anche l’incontro-scontro memorabile nel 2005 con i soliti speroni texani, ma i Detroit Pistons del 2003/2004 resteranno nella storia degli appassionati di basket come il simbolo del concetto di sport di squadra, di collaborazione, di voglia di vincere e della ricerca ossessiva di “the right way” per raggiungere il successo.
Articolo scritto da Checco Rivano