Siamo abituati a considerare l’NBA un lussuoso circo fatto di luci abbaglianti e colori sgargianti, dove tutto, anche lo spettacolo dell’intervallo, è spinto all’eccesso. Un mondo dove tutto è più grande e dove apparire in alcuni contesti conta forse più dell’essere. Molti giocatori dell’NBA sono infatti personaggi prima che giocatori: per fare un esempio, Nick Young o Chris Andersen avrebbero la stessa fama se non esistessero i loro eccentrici alter ego Swaggy P e Birdman (senza voler togliere nulla ai giocatori)? Abbiamo inoltre un’idea stereotipata del giocatore NBA medio, quello che spende buona parte del proprio lauto stipendio in suv e muscle car con cui andare al palazzo, in vestiti spesso stravaganti (Westbrook docet), o in ville e yacht sfarzosi.
C’è stato però qualcuno che con il proprio denaro ha scelto di comprare anche qualcosa di inusuale, ovvero una chiesa. Sì, una chiesa. Non per un bizzarro capriccio, ma come segno di riconoscenza verso Dio e verso il proprio maestro di vita. Quel giocatore dell’NBA è Michael Redd, e quella chiesa è la Philadelphia Deliverance Church of Christ di Columbus, Ohio.
Qui celebra il pastore James Redd, che oltre a essere il padre di Michael è l’uomo che l’ha introdotto alla fede nella Bibbia e che nel campetto fuori casa ha forgiato il giocatore che sarebbe poi diventato Michael Redd. Papà James è stato un ottimo prospetto a livello liceale: viene cercato dai migliori college ma la madre è malata, e da qui la scelta di rimanere a Columbus alla poco blasonata Capital University.
Le possibilità nel basket sfumano, ma James non ha rimpianti perché alla Capital incontra la futura moglie, Haji. “No her, no Michael Redd. It’s all about timing”. Tra il lavoro allo stabilimento della Pepsi e le funzioni di pastore, James trova il tempo di trasmettere al figlio la passione per la palla a spicchi.
James Redd nella sua nuova chiesa
Il percorso di Michael è molto simile a quello del padre. Dopo aver frequentato la stessa high school di Columbus, la West, decide anche lui di rimanere vicino a casa, ma il college prescelto è di ben altro rango: Redd si accasa infatti a Ohio State. I Buckeyes vengono da decenni di stagioni negative dopo i trionfi degli anni ‘60, ma rimangono comunque un’università nobile nel panorama cestistico, e Michael è affascinato dall’idea di poter contribuire alla rinascita dell’università della sua città.
Con l’arrivo di Scoonie Penn (visto poi con 5 squadre italiane) e di Michael, assieme a quello di Jim O’Brien in panchina, il vento cambia. Arrivano due partecipazioni di fila al torneo NCAA e nel 1999 Ohio State raggiunge addirittura le Final Four, che mancavano dal 1968 (risultati poi cancellati dall’NCAA per irregolarità nel recruiting del Montenegrino Savovic).
Michael domina: 3 stagioni intorno ai 20 punti di media, 3 volte miglior giocatore dei Buckeyes e numerose menzioni nei migliori quintetti nazionali e di conference. Si sente pronto per l’NBA e le sue prestazioni al college sembrano essere un ottimo biglietto da visita. Si dichiara al Draft del 2000, sperando in una chiamata al primo giro.
Kenyon Martin è la prima scelta, e via via le altre 28.
La chiamata non arriva. Dirà poi Michael.
Ho visto i miei sogni e le mie ambizioni andare in frantumi davanti ai miei occhi
Essere chiamati al secondo giro o ancora peggio non essere draftati significa nel 99% dei casi doversi andare a cercare un ingaggio in giro per il mondo, lontano dai riflettori dell’NBA. Intanto il draft va avanti; Michael, che lo segue da casa con il padre, sente finalmente il suo nome: 43° scelta, Milwaukee Bucks.
Le preoccupazioni però non svaniscono: Milwaukee ha un pacchetto esterni di primissimo livello: Sam Cassell, Glenn Robinson e soprattutto Ray Allen. Insomma, difficile per una 43° scelta trovare spazio. Ad ogni modo, dal giorno successivo Michael, grandissimo lavoratore, comincia ad allenarsi come un matto per arrivare pronto al training camp.
I primi tempi in NBA sono però durissimi. Redd, anche a causa di qualche infortunio, non gioca quasi mai, e in più non riesce ad adattarsi alla sua nuova vita. È la prima esperienza lontano da casa e dai suoi, e si trova spaesato in un mondo fatto di club, donne, alcool e lusso. Capisce che non può andare avanti così, che quella non è la sua strada, e trova un’ancora in quella fede cristiana trasmessagli dalla famiglia.
Michael ha svelato di aver avuto la sua personale folgorazione sulla via per Damasco, un momento che ha cambiato tutto. Ad Atlanta, mentre si stava concedendo il canonico riposo prima della partita con gli Hawks, quando, racconta, il Signore lo sveglia e gli dice di pregare. Da quel momento Michael abbraccia veramente la fede, fino ad allora superficiale, e dà una svolta alla sua vita: si mette a lavorare ancora più duro di quanto già non facesse e mantiene un’attitudine positiva anche se continua a non giocare.
Nella stagione da rookie infatti gioca la miseria di 35 minuti TOTALI (!) segnando 13 punti. Le cose però pian piano cambiano. Coach George Karl gli concede sempre più minuti e nell’anno da sophomore raggiunge gli 11 punti di media, stabilendo anche un record NBA con le 8 triple segnate nell’ultimo quarto contro i Rockets (record battuto da Klay Thompson nel 2015) .
L’anno dopo Glenn Robinson va ad Atlanta e il ruolo di Michael diventa ancora più importante, con i Bucks che pareggiano l’offerta di Dallas per tenerselo stretto. Nel 2003 parte anche Ray Allen, cosa che da una parte gli consegna definitivamente le chiavi della squadra, ma dall’altra segna il distacco da quello che è stato il suo mentore tecnico.
L’essersi allenato duramente con “He got game” e averne potuto seguire i passi è stato uno step fondamentale nella carriera di Redd. Lo stesso Allen ha detto che Michael è stato una sorta di fratello minore, uno dei pochi giovani ad arrivare in NBA con la volontà di migliorarsi costantemente. Anche perché Redd ha dovuto modificare non poco il suo gioco per potersi affermare in NBA. Si è dovuto trasformare in uno specialista del tiro da tre, lui che al college non lo era affatto, sviluppando un tiro non bellissimo tecnicamente, con la palla tenuta molto in alto sopra la testa, ma terribilmente efficace. In più, migliorò moltissimo anche in difesa, aspetto del gioco dove non aveva mai brillato.
Redd e Allen all’All-Star Game 2004
Ormai punto di riferimento della squadra, Redd spicca il volo: arrivano 5 stagioni di fila oltre i 20 punti di media (26,7 nel 2007), la convocazione per l’All-Star Game nel 2004, il record di franchigia dei Bucks con i 57 punti rifilati ai Jazz nel 2006. Nel 2004 sceglie di legarsi a Milwaukee con un rinnovo da 91 milioni in 6 anni, rinunciando alla possibilità di tornare in Ohio e di giocare assieme a Lebron James ai Cavs.
Nel 2008 arriva un altro importante riconoscimento per Michael. La convocazione per i giochi di Pechino 2008 con Team USA. Quella squadra fu soprannominata Redeem Team, in quanto assemblata con lo scopo di vendicare le figuracce fatte ad Atene 2004 e ai mondiali del 2006. Una squadra infarcita di stelle che, guidata da Lebron e Kobe, conquistò l’oro in finale contro la Spagna.
Jerry Colangelo, general manager di Team USA, ha raccontato un episodio che mostra almeno in parte l’etica e la serietà che hanno sempre contraddistinto Michael e che l’ha aiutato nello scegliere chi doveva completare il roster. La guardia dei Bucks accettò di recarsi a Chicago per incontrare Colangelo, e si fece tre ore di macchina appena finito allenamento.
Presentatosi in tuta, chiese di usare il bagno: ne uscì vestito di tutto punto, come fosse un neolaureato al primo colloquio di lavoro, e la cosa impressionò molto Colangelo. Anche Coach K, che ai tempi dell’high school aveva cercato di portare Redd nella sua Duke, sottolineò come le sue qualità umane ne fecero una parte importante della squadra, nonostante il limitato utilizzo sul campo: “He’s a rock, he understands the meaning of legacy”.
Campione olimpico e stella della propria squadra, Michael è al top e soprattutto ha ancora solo 29 anni. Ma spesso, proprio quando tutto sembra andare per il meglio, il destino si diverte a metterci lo zampino. Il 24 gennaio 2009, mentre Redd sta viaggiando ancora una volta a oltre 21 di media, il numero 22 si rompe il legamento crociato mediale e quello anteriore del ginocchio sinistro.
Un infortunio terribile per uno sportivo che segna irrimediabilmente la storia del Michael giocatore e le speranze playoff dei Bucks. Salta tutta la stagione, ritorna in quella successiva ma non è che l’ombra di se stesso. Gioca solo 18 partite con la media punti che scende a 11, prima che lo stesso identico infortunio, sempre allo stesso ginocchio, metta la pietra tombale sulla sua carriera. Ritornerà per altre due stagioni e 61 partite, ancora a Milwaukee e poi a Phoenix, prima di annunciare un ritiro che la sfortuna aveva già sancito da tempo.
Che dire dunque della carriera di Michael Redd?
Molti l’hanno definita incompleta, se non triste. Una carriera mai esplosa del tutto, sempre sulla linea di confine tra ottimo giocatore e stella, senza mai riuscire a varcarla. Un grande giocatore, che però non è mai riuscito a portare la sua squadra oltre il primo turno ai playoff . Un campione olimpico di cui però nessuno si ricorda quando si parla di Redeem Team.
E poi, rimane un grande what if?: che cosa sarebbe stato senza quegli infortuni nel momento migliore? Che cosa sarebbe successo se non fosse stato “intrappolato” in una franchigia marginale nel mercato NBA come i Bucks, se avesse avuto compagni di livello più alto?
Domande che rimarranno senza risposta.
Però questa visione d’insieme suona un po’ ingiusta. Basta guardare anche il bicchiere mezzo pieno. Michael Redd è stato un giocatore che, facendosi un mazzo enorme in palestra ogni giorno, è passato dall’essere la riserva della riserva a diventare un’all-star, un campione olimpico, l’idolo di tutta una città e un tiratore letale come pochi altri.
Quanti altri giocatori, dopo quella stagione da rookie, avrebbero avuto la forza mentale per andare avanti e fare quello che ha fatto lui? E pazienza se le cose avrebbero potuto andare meglio, a Michael va bene così:
Vincere campionati, essere un giocatore da Hall Of Fame. Questi non sono successi definitivi. Io credo che il basket sia il più grande sport al mondo, ma la pallacanestro non è ciò che io sono. Considero la mia fede e la mia famiglia molto più importanti del basket.
Insomma, ci sono cose più importanti del successo, valori come la riconoscenza, l’etica del lavoro, e nel caso di Michael, la fede. Al di là delle convinzioni personali di ognuno, non possono non colpire la determinazione e la serenità con cui questo giocatore ha affrontato le avversità incontrate sul suo cammino. Un ottimo esempio di come il duro lavoro ripaghi sempre che ci dice che non siamo definiti dagli obiettivi che raggiungiamo.
Questa è la storia di Michael Redd, sfortunato sì, ma comunque riconoscente. Tanto da comprare una chiesa.