Quando l’annuncio dell’improvviso licenziamento del golden boy della panchina Derek Fisher, fortemente voluto dal nuovo presidente Phil Jackson, è calato sulla Lega come un fulmine a ciel sereno, i New York Knicks, per l’ennesima volta nel corso della loro storia recente, si sono trovati a dover ricostruire i cocci dopo un nuovo progetto naufragato miseramente.
Ed infatti la stagione, già compromessa, con il mai convincente Kurt Rambis al timone è terminata con un misero 32-50 e le nuove vacanze anticipate per Anthony e soci. Anche questo 2016/2017 è stato dunque l’immagine di una franchigia condannata a rappresentare nel mondo professionistico una delle Mecche del basket mondiale, con le insostenibili pressioni che ne derivano: e il risultato, negli ultimi anni, sono state squadre talvolta dal talento specifico notevole, messe insieme però più sul peso dei nomi che su quello di un progetto coerente, e finite così molto spesso per rivelarsi cocenti delusioni.
Phil Jackson (credits: Maddie Meyer/Getty Images)
Dai tempi eroici di Isiah Thomas nell’improbabile ruolo di visionario GM, all’accoppiata di ali Anthony-Stoudamire, dopo le Finals del ’99 i tifosi dei Knicks sono andati al Madison per sostenere la propria squadra anche in aprile inoltrato solo sei volte, superando il primo turno in due sole occasioni, a dispetto di roster sulla carta spesso ben forniti e luxury tax versate alla Lega come fossero monete per il caffè.
L’ennesima nuovelle vague andata in scena quest’estate pare peraltro ricalcare proprio il criterio dell’ammassamento di talento specifico, ma ha un Phil Jackson in più dietro le quinte a tirare le fila: sarà finalmente la volta buona per i Knicks per aprire un ciclo vincente, o anche Jackson dovrà arrendersi alle pressioni della Mela?