Seven seconds or less

Il tempo e il suo incedere imperterrito, il suo saper essere veloce nei momenti felici e la sua capacità di rallentare, sino a quasi sembrare immobile, nel momento del dolore o dell’attesa. L’importanza dell’elemento che ci permette di percepire la mutevolezza del mondo che ci circonda è stata perfettamente descritta da Andrew Niccol nel fantascientifico film “In Time” con protagonisti Justin Timberlake e Amanda Seyfried. Non solo il cinema ma anche la musica è stata ispirata dalla necessità dell’uomo di “avere tempo”: Carlo Innocenzi e le sue fatidiche mille lire al mese che lo avrebbe reso certo di trovare tutta la felicità; i Pink Floyd e la loro bellissima “Time”, inno alla sfuggevolezza del tempo; Youssou N’Dour e Neneh Cherry che nella multietnica Seven Seconds cantano dei  7 secondi positivi nella vita di un bimbo appena nato prima di conoscere i problemi e la violenza del mondo. Sette secondi: in effetti sette secondi sembrano pochi, ma possono essere sufficienti per generare una filosofia, un credo, un must dal quale far dipendere il proprio successo: sette secondi; o anche meno.

Quando nel 1968 si decise di inserire nella carta geografica della NBA il deserto dell’Arizona, molti storsero il naso; in primis l’allora Commissioner J. Walter Kennedy che riteneva Phoenix “troppo piccola, troppo lontana e troppo calda” per attecchire nel giardino più fiorito del basket mondiale. Nonostante ciò i cittadini di Phoenix ebbero la loro franchigia e, assieme ai Bucks, vennero inseriti per la prima volta nella lista delle squadre partecipanti al campionato 1968-1969.

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Fino ai primi anni del terzo millennio si sono alternati in maglia Suns giocatori di altissimo livello: Sir Charles Barkley e il suo politically incorrect; Connie “The Hawk” Hawkins, leggenda del Rucker Park ai tempi di Earl “The Goat” Manigault nonché Harlem Globtrotter, e la sua numero 42 ritirata dai Suns; Tom Chambers ( www.youtube.com/watch?v=UDyBSTQDwH8 ), e la schiacciata più folle mai vista in un parquet (chiedere a Mark Jackson) prima dell’avvento di Vince Carter; Kevin Johnson e il suo play making trasferitosi dal parquet alla politica; e ancora Dan Majerle, Jason Kidd e Stephon Marbury. Ma nonostante ciò la franchigia si fregia del poco invidiabile primato di essere la più vincente a non aver mai vinto un titolo; i Suns sono l’emblema del concetto di trovarsi al posto giusto nel momento sbagliato: nel 1969 persero il sorteggio con i Milwakee Bucks per poter avere la prima scelta al draft rinunciando così all’occasione di selezionare l’allora Lew Alcindor ora noto ai più con il nome di Kareem Abdul Jabbar; nel 1976 raggiunsero la loro prima Finale NBA a scapito degli allora campioni in carica Golden State Warriors, salvo perdere contro Boston nelle Finals passate alla storia per la memorabile Gara 5 al Garden e il suo triplo over time; nel 1993 persero contro  MJ e i Bulls le Finals dopo averle raggiunte con il miglior record della lega e i servigi dell’appena arrivato Charles Barkley.

Nonostante tutto, però, Phoenix è rimasta una piazza calda, non solo dal punto di vista climatico ma anche e soprattutto per la passione per il basket di cui si nutrono gli abitanti della città del deserto e il tempo, sempre lui, anche se a cicli più o meno lunghi, ha  messo a loro disposizione delle squadre in grado di esaltarli. Fra il 2002 e il 2007 nella terra arida dell’Arizona prende vita un fiore all’occhiello dell’ultima decade cestistica. Nel 2002 al Draft i riflettori sono tutti puntati sull’enorme centro cinese Yao Ming e d’altronde il Draft non è che offra un granchè. I Suns sono titolari della nona scelta e decidono di utilizzarla per un’ala grande dalle notevoli doti atletiche appena uscita dalla high school: Amar’e Stoudemire. Il numero 1 dei Suns disputa al fianco di Steph Murbury e Shawn Marion una stagione fenomenale tanto da essere eletto a fine anno Rookie of the year. La strada si interrompe ai playoff al cospetto di coloro che alla fine vinceranno il titolo, gli Spurs (teneteli a mente), ma sembra che i Suns stiano imboccando un sentiero che li riporti ai vertici. Nel 2003-2004 ci si aspetta l’esplosione che però non arriva: la stagione parte malissimo e la panchina viene affidata all’assistente, arcinoto alle nostre latitudini come giocatore dell’Olimpia e come allenatore della Benetton, Mike D’Antoni.

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La regular season finisce come era iniziata, un disastro dal punto di vista del record, ma la fine intelligenza di Mike lo porta a sfruttare il tempo a disposizione per instillare alla squadra piccole dosi della sua visione di basket innovativo basato sulla velocità di esecuzione e sull’esasperazione del tiro da tre. Mike si rende conto che per poter dar vita al suo progetto ha bisogno di un playmaker in grado di coinvolgere i compagni senza centralizzare il gioco e la scelta di scambiare Marbury a stagione in corso è pressoché obbligatoria. Ma a chi affidare la regia se non a Steve Nash, scelto nel ’96 non senza polemiche, dagli stessi Suns , salvo poi cederlo ai Mavs nel ’98 per Martin Muursepp, Buppa Wells, una scelta (che poi si rivelerà essere Shawn Marion) e i diritti su Pat Garrity? Il nativo di Johannesburg con passaporto canadese  è l’anello mancante della catena evolutiva del basket che per i Suns targati Mike D’Antoni sarà basato sul seven seconds  or less.

Le abilità tecniche di Nash in grado di innescare cecchini del calibro di Joe Johnson e Quentin Richardson ,Tim Thomas, Raja Bell e James Jones che si sono alternati negli anni, o di mandare ripetutamente sopra al ferro atleti come Marion e Stoudemire o di duettare con la mente finissima di Boris Diaw, fanno impazzire il pubblico di Phoenix: il concetto base è correre, sempre di più, sempre più forte. Da rimbalzo preso, da canestro subito, da palla recuperata, dal fondo o dalla linea laterale, l’obiettivo primario è arrivare al tiro in sette secondi o anche meno, impennando il numero di possessi per gara, in modo da rendere più produttive le percentuali dal campo, tentando molte più triple e sfruttando su un numero di possessi più alto uno dei giochi a due più devastanti della Lega, quello tra il canadese e Amar’e (www.youtube.com/watch?v=eLi57-1nEfo).

La periodizzazione è il concetto con il quale si tende a suddividere il passare del tempo in segmenti più o meno lunghi scanditi da avvenimenti ben precisi che ne testimoniano l’inizio e la fine. Ad esempio l’invenzione della scrittura può essere considerata come l’evento che sancisce il passaggio dalla preistoria alla storia, così come la rivoluzione francese è individuata come l’evento che definisce il transito dalla storia moderna alla storia contemporanea. Se ci cimentassimo nel tentativo di periodizzare la NBA potremmo sicuramente affermare che Steve Nash e i suoi Suns siano l’evento che segna il passaggio dal basket moderno al basket contemporaneo, come prototipo di quella MoreyBall estremizzata oggidì dal Barba a Houston. Il basket dei Suns nelle tre stagioni dal 2004 al 2007 è rivoluzionario, veloce, efficiente e ammaliante. Gli avversari sono storditi, sorpresi, increduli nel vedere una squadra che passa nel giro di un anno da 29 a 62 vittorie. I lunghi escono dietro l’arco a sparar triple, i piccoli attaccano il ferro in modo continuativo e chiunque, appena ne abbia l’occasione, tira, anche con 22 secondi sul cronometro dei 24. Il gioco dei Suns è un contropiede continuativo che non dà respiro alle difese avversarie e quando il contropiede viene arginato entra in azione il piano B, quel pick & roll gestito dal canadese nel quale la difesa deve solo scegliere come concedere il canestro. Nash vince il titolo di MVP per due anni consecutivi (2005 e 2006) con percentuali da capogiro: 50% dal campo, 40% dall’arco e 90% ai liberi e la strada verso il primo anello con il sigillo dei Suns sembra non avere ostacoli.

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Ma la storia si ripete e Phoenix, nonostante abbia trovato una squadra in grado di competere e di giocarsi le chance di titolo, si trova per l’ennesima volta di fronte l’ostacolo insormontabile. Dopo i Celtics del ’76 e i Bulls del ’93, questa volta a spezzare l’entusiasmo dei Suns sono le texane San Antonio e Dallas. Nel 2005 in finale di Conference e nel 2007 in semifinale, in una serie ricca di polemiche e di tensione, Nash e compagni devono arrendersi allo strapotere dei ragazzi di Coach Popovich,  mentre nel 2006, sempre in finale di Conference, lasciano il pass per le Finals ai Mavs di WunderDirk nonostante un basket spumeggiante. Nell’ambiente di Phoenix inizia a trapelare l’idea che il basket del seven seconds or less non sia in grado di portare la franchigia all’agognato Larry O’Brien Trophy e l’innesto di Shaq nel 2008, digerito dal sistema Suns come una bistecca dallo stomaco di un vegano, decreta la fine del processo evolutivo di una squadra  che, ancora sconfitta dagli Spurs ai playoff, viene sfaldata e resa orfana del suo ideatore Mike D’Antoni. Immaginate di dover pensare come una farfalla, che vive pochi attimi al massimo del suo splendore per morire poche ore dopo.  È quello che hanno fatto i Phoenix Suns targati Mike D’Antoni e Steve Nash. A Phoenix, dopo aver strisciato come bruchi per anni tra la polvere alzata dalle altre franchigie, i Suns si sono trasformati in una splendida farfalla e, consapevoli di avere un tempo limitato per convincere il mondo del basket di poter vincere con un sistema di gioco innovativo, hanno ottimizzato il tempo a loro disposizione, volando ai vertici della NBA mettendo in mostra le loro magnifiche ali colorate di blu e arancio a intervalli di sette secondi a possesso. Si sa, il destino della farfalla è triste, il tempo le manca, ma lo splendore del suo essere rimane intatto, nel tempo, nella mente di chi la osserva.

Articolo a cura di Checco Rivano

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