Il basket è un gioco giusto.
Dover tirare 100 volte in una partita ti costringe a fare i conti con la buona sorte. Non può sempre andare dentro “perché era destino”. No. Un tiro in ritmo e ben costruito tenderà a gonfiare la retina più spesso di quello preso allo scadere cadendo indietro con la mano in faccia.
Ecco, Steph Curry sta semplicemente demolendo quello che la statistica e l’esperienza di decenni di basket (e di vita) ci hanno insegnato. E non è questione di essere particolarmente abili a fare i conti con la fortuna: ciò che fa la differenza è il potenziale.
Mi spiego. Il tiro nel video preso contro i Pacers durante la passata stagione va dentro perché per lui è più facile di quanto sembri trovare il bersaglio da quella distanza (aveva fatto lo stesso identico canestro 12 minuti prima, vedendoselo non convalidare perché arrivato pochi decimi di secondo dopo la sirena).
Il punto della questione su cui focalizzare l’attenzione è uno: “per lui”.
Allenamento. Dedizione. Amore per il gioco. Uno che passa una volta sola nella Storia.
Chiamatelo come volete, ma Steph Curry sta cambiando la concezione di quanto è “lecito aspettarsi” in NBA. Così come i super atleti ti costringono a dover ripensare la tua difesa su di loro, così come la versatilità dei Magic e dei LeBron ti obbliga a fare una scelta, Curry ha spalancato le porte di una nuova frontiera del basket, che però ad oggi è l’unico a poter valicare.
Non essendo mai esistito, mai, uno più bravo di lui a tirare a canestro, le difese devono fare i conti con qualcosa che non solo non sono abituate a fronteggiare, ma con cui non sembrava possibile dover avere mai a che fare.
E’ un concetto molto semplice e allo stesso tempo molto affascinante, da ripescare direttamente dai libri di Macroeconomia. Steph Curry è un’economia a rendimenti di scala costanti. All’aumentare dell’input, aumenta in maniera proporzionale l’output: il Nirvana per gli economisti di mezzo mondo.
Il playmaker di Golden State tira una vagonata di triple, realizzandole sempre con la stessa percentuale. Potrebbe andare avanti per 48 minuti, ogni santissima sera, senza che il risultato cambi. La gara contro Washington da 51 punti dello scorso 3 febbraio è un esempio calzante: se non metti in atto contromisure d’eccezione, lui può continuare così in eterno.
Per rendere l’idea Tom Haberstroh, giornalista di riferimento riguardo tutto ciò che ruota attorno all’NBA, lanciò una provocazione molto affascinante via Twitter durante quel match:
A Washington, in quel primo tempo da 35 punti, Curry ha messo a referto 2.3 punti ogni volta che alzava la mano: sarebbe dunque convenuto fare fallo intenzionale per 15 volte su un tiratore di liberi che li converte col 91%, piuttosto che lasciargli prendere quelle conclusioni. Un hack-a-Curry dalla logica tanto contorta quanto efficace. Un paradosso, dal fascino talmente magnetico da portare in dote con sé inevitabili derive e convinzioni.
Tutti (o almeno parecchi) sono convinti che questo sia diventato IL modo di giocare a basket. Che tirare da 10 metri sia cosa buona e giusta. Che allargare il campo, far fuori i lunghi e tenere 5 uomini dietro la linea dei 7 metri e 25 sia l’unica strada per il successo.
Per un’unica dannata ragione: tutti sognano, vogliono e soprattutto credono di essere Steph Curry.
Un errore di valutazione madornale, che ti costringe a pagare dazio sempre e comunque. D’altronde, l’arte non è un fenomeno replicabile, per definizione.
Un po’ come quanto sta accadendo al mondo del giornalismo sportivo, travolto da qualche anno a questa parte da un ciclone che ne ha in parte ridisegnato i connotati. Il fenomeno in questo caso non porta sulla schiena il 30, ma quelli sono al massimo il numero di anni da cui vive con un passaporto in mano, vagabondando, conoscendo ed annusando il mondo.
Federico Buffa ha (fortunatamente per noi) sperimentato con successo una nuova forma di racconto, facendo dello storytelling un vero e proprio filone narrativo e alzando in maniera considerevole l’asticella per chi vuol fare quel tipo di mestiere.
L’aggettivo dimostrativo non è casuale: “quel” e non “questo”. Già, perché il particolare che a molti sfugge è che quello di Buffa è un mestiere bellissimo che soltanto in maniera parziale però ha dei punti di contatto con il mondo del giornalismo. L’Avvocato parla al cuore, mette i brividi. Ci incanta trascinandoci in posti che non abbiamo mai visto, facendoci socchiudere gli occhi. Il giornalista invece deve escogitare qualsiasi stratagemma pur di farceli tenere bene aperti. Deve darci gli strumenti per capire, puntare dritto al cuore sì, ma della questione seguendo un filo logico.
Non ha senso diventare la caricatura malriuscita di chi è in maniera così spiccata cerca di essere volutamente diverso da chiunque altro. Raccontare le storie è arte nobile, ma solo se fatto con parole proprie, le quali perdono di senso se messe in bocca a qualcun’altro. Proprio come una palla da basket tirata da centrocampo.
Di Steph Curry, come di Federico Buffa, ce n’è uno solo. Per fortuna. Lasciamogli fare il loro mestiere e godiamoci lo spettacolo.
In fondo, poteva andarci decisamente peggio.