La NBA è da sempre una realtà in continuo mutamento che si evolve di fronte agli occhi degli appassionati in modi sempre nuovi ed emozionanti. Al giorno d’oggi la lega di basket più bella del mondo è una macchina mediatica che fattura, annualmente, l’impressionante cifra di 37.660 miliardi di dollari, milione più, milione meno; che si è estesa su tre continenti grazie ai Global Games e che ha aperto le sue porte a giocatori di 75 nazionalità diverse (compresa ovviamente quella statunitense). I giocatori simbolo di questa generazione sono atleti al limite tra l’umano e il bionico, tiratori di una precisione imbarazzante, monoliti di massa magra le cui imprese in campo vanno a costruire quella che si potrebbe definire come una nuova epica tutta U.S.A.-made.
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È facile perciò, date queste premesse, dimenticare i passaggi che hanno portato la NBA al livello al quale è adesso, glissare sulla storia della lega e sugli uomini che l’hanno resa grande. Non tanto sui semidéi dei Nineties o gli eroi degli anni ’80, quanto sui veri pionieri di questo sport, quelli che costruirono la NBA mattone su mattone, giocata su giocata, a cavallo tra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’50, quando le riprese televisive, se e quando c’erano, erano in bianco e nero, la linea da tre punti non esisteva e l’azione poteva andare avanti ben oltre i 24. Quando canotte e pantaloncini avevano qualcosa di vagamente antiestetico e i giocatori non percepivano stipendi equiparabili al PIL del Nepal. Un’epoca remota, che sta lentamente sbiadendo nella memoria, ma che bisogna evitare di perdere. Per questo nasce la rubrica “The NBA of Our Fathers’s Grandfathers”, un titolo lungo, sì, ma programmatico: per tornare a seguire i passi mossi da quegli inizi pionieristici, quando giocare nella NBA era forse un po’ più romantico, anche se meno remunerativo, per conoscere di nuovo quegli eroi che incantavano gli spettatori di tre generazioni fa. E il nostro viaggio comincia dai veri albori, talmente indietro nella storia della lega che la lega stessa non era ancora nata. Il nostro viaggio comincia dal primo uomo in grado di prendere possesso, di dominare la NBA. Il nostro viaggio comincia dal signor George Mikan.
Stati Uniti, anni Quaranta. L’America, e il mondo intero, sono appena usciti da un conflitto sanguinosissimo, che ha causato milioni di vittime ed un pauroso spargimento di sangue. La ripresa del normale flusso della quotidianità, dopo una prima incertezza, era stata costante e graduale, già dall’ultimo anno di guerra. Anche lo sport a stelle e strisce aveva ricominciato l’attività, con il baseball a farla da padrone, come accadeva già da qualche decennio. La pallacanestro professionistica, viceversa, era ancora nei suoi anni pionieristici, impegnata più a sopravvivere che a diffondersi in tutto il paese. Eppure, proprio in quegli anni di primi vagiti della odierna NBA, il panorama cestistico venne subito monopolizzato da uno squadrone apparentemente invincibile ed imbattibile, che costituì, di fatto, la prima dinastia nella storia della Lega ed una delle più vincenti in assoluto. Molto prima degli Spurs, di Coach Zen versione Chicago e Los Angeles, prima ancora dei Celtics di Russell, l’unica e sola squadra per antonomasia furono i Minneapolis Lakers.
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Gli esordi di una delle franchigie storiche della NBA furono, come prevedibile dati i tempi, abbastanza umili e confusi. La squadra nacque dalle ceneri dei Detroit Gems, andando a prenderne il posto nella NBL grazie all’acquisto nel 1947 di due personaggi di spicco del Minnesota, Ben Berger e Morris Chalfen. Date le caratteristiche geografiche dello stato, costellato da migliaia di laghi di varie dimensioni, il nomignolo “Lakers” venne presto affibbiato alla nuova formazione. Mai avrebbero potuto immaginare che sarebbe diventato uno dei nickname più conosciuti e riconoscibili dell’intero pianeta.
Fatta la franchigia bisognava ora fare staff e giocatori. Nel primo caso, tramite la mediazione di Sid Hartman, giornalista sportivo che aveva avuto un ruolo chiave nell’arrivo dei Lakers in città, si decise di affidare la squadra all’ex coach di DeLaSalle High School, ovviamente di Minneapolis, e della sempre vicina University of St. Thomas. Nonostante la relativamente scarsa esperienza, venne stabilito che John Kundla sarebbe diventato il primo allenatore nella storia della franchigia. Sul parquet, invece, c’era assoluto bisogno di un catalizzatore dei palloni in attacco, una presenza costante e punto di riferimento per i compagni. A dare una mano venne in soccorso la fortuna.
John Kundla; credits to: latimes.com via Google
Nel 1947 Maurice White, proprietario dei Chicago American Gears, decise di creare un proprio campionato, la Professional Basketball League of America. Le sorti della competizione non furono proprio felicissime, tanto è vero che dovette chiudere i battenti in appena un mese. I giocatori delle varie formazioni vennero assegnati tramite sorteggio alle rimanenti franchigie della NBL, che avevano quindi le stesse probabilità, circa il 10%, di assicurarsi il talento principale a disposizione, militante proprio nei Gears. Era un ragazzone alto, imponente se andiamo a considerare gli standard dell’epoca. Era stato sgraziato al college ma centinaia e centinaia di drill in allenamento ne avevano affinato la tecnica. Il coraggio, la voglia di lottare e di sacrificarsi per il bene della squadra erano tutti concetti che questo curioso centrone, che giocava con degli ancor più buffi occhiali, aveva ben scolpiti in mente. Fu tramite un colpo di fortuna quindi che i Lakers si assicurarono la prima superstar che non solo Minneapolis, ma la Lega intera avesse mai conosciuto. Era iniziata l’epoca di George Mikan.
Mikan ai tempi della De Paul University; credits to: sbnation.com via Google
Quando Ray Meyer se l’era visto spuntare per la prima volta nella palestra della DePaul University, Mikan era solo un ragazzone alto, goffo ed impacciato, per di più in un’epoca che tendeva a considerare i lunghi come del tutto periferici alle sorti del gioco. Inventando specifici esercizi di coordinazione e tecnica, George gradualmente riuscì a costruirsi un temibilissimo arsenale nei pressi del canestro, da abbinarsi ad una durezza senza pari. In difesa, poi, ogni pallone era suo, fin troppi se NCAA prima ed NBA poi decisero di istituire una nuova regola, il goaltending, altrimenti detto “interferenza a canestro”.
Mikan con la maglia dei Gears; credits to: wikipedia.com via Google
Dopo aver fatto incetta di premi, Mikan firmò un contratto con i già citati Chicago American Gears nella NBL. In breve la squadra fu sua. George si mise i Gears sulle spalle, trascinandoli alla vittoria del titolo e rimpinguando ulteriormente il proprio palmarés. Poi, 12 mesi dopo, ecco l’azzardata mossa di White, il consecutivo falliento, il dispensal draft e l’arrivo nella regione dei Grandi Laghi. Il matrimonio tra Minneapolis e Mikan sarebbe diventato indissolubile, sin dal primo giorno in città.
L’impatto del numero 99 fu devastante. Divenne l’unico giocatore della storia NBL a terminare una stagione con almeno 1000 punti realizzati, da accoppiare all’ovvio titolo di MVP del campionato. In finale i Lakers non ebbero problemi a sbarazzarsi dei Rochester Royals, conquistando così il titolo NBL, guidati dal proprio centrone.
Nella stagione 1948-49 i Lakers spedirono le proprie labbra ad indirizzo nuovo, segnatamente quello della BAA. Il livello si era alzato rispetto al campionato precedente, con giocatori di ben altro calibro e consistenza. Nondimeno, Mikan fu assolutamente straripante. Guidò la Lega per punti segnati, 28,3 a gara, una cifra folle per l’epoca, spaventando a morte i proprio avversari all’interno dell’area pitturata. Minneapolis si fece largo tra le altre contendenti, arrivando sino alla Finale contro i Washington Capitols, allenati da un certo Red Auerbach. I ragazzi di Kundla si dimostrarono assolutamente superiori rispetto agli avversari, andando rapidamente sul 3-0 per poi chiudere la serie in 6 partite, assicurandosi così l’ultimo titolo della storia BAA. Le fondamenta per la creazione di una dinastia erano state ormai consolidate.
George Mikan in maglia Lakers; credits to: pinterest.com via Google
Dall’annata successiva una nuova, ed importante novità interessava la pallacanestro americana. Nasceva ufficialmente, infatti, la NBA, che di fatto si proponeva come unica possibilità di basket professionistico a stelle e strisce. Il primo campionato, tuttavia, non ebbe particolari scossoni o sorprese. Mikan rivinse la classifica marcatori, questa volta con 27,4 di media, i Lakers disputarono un’altra ottima regular season per poi fare strada nei Playoffs. Nelle Finals 1950 gli avversari erano i Syracuse Nationals del formidabile Dolph Schayes. In gara-1, a New York, con una vera e propria preghiera, la riserva di Minneapolis Bob Harrison realizzò il primo buzzer-beater nella storia delle Finali. Da lì in poi la squadra di casa difese sempre il proprio campo, fattore che quindi permise ai Lakers di vincere il primo titolo nella storia della NBA, con un Mikan da 31 punti di media per tutti la postseason.
Era chiaro a tutti che Kundla aveva plasmato una creatura inarrestabile, favorita dai pronostici ad ogni inizio di stagione. Dopo il terzo titolo consecutivo, contando anche quello NBL, i Lakers si apprestavano ad un’altra stagione da trionfatori. Mikan terminò l’annata con un curioso 28,4 (massimo mai più eguagliato) + 14,1, nella prima stagione in cui venivano registrati i rimbalzi. Nella postseason, però, ecco l’evento inatteso. Alla vigilia delle Western Division Finals contro i Royals, il numero 99 si fratturò la gamba. George giocò lo stesso, ma, nonostante gli sforzi immani, non riuscì ad evitare la sconfitta che poneva fine a quella cavalcata. Sarebbe stata l’ultima della sua carriera.
Nonostante l’inaspettata battuta d’arresto, la Lega intervenne per porre un freno allo strapotere del centro dei Lakers. Con un plebiscito venne approvata e attuata la Mikan Rule, che raddoppiava le dimensioni dell’area costringendo così George agli straordinari in vernice. Altro stratagemma ideato dalle squadre dell’epoca fu quello di congelare il pallone, tenendo immobile la circolazione per svariati minuti in cui non accadeva letteralmente nulla, pur di non far arrivare la palla allo scatenato 99. Epocale fu la partita tra Minneapolis ed i Fort Wayne Pistons, terminata con un entusiasmante punteggio di 19-18, il più basso di sempre nella storia NBA. Mikan, col fondamentale contributo di Danny Biasone, sarebbe stato l’artefice dell’introduzione del cronometro dei 24 secondi.
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La ieratica ed imponente presenza di George non deve però far passare in secondo piano l’effettiva consistenza e forza del roster di quei Lakers. Gente come Jim Pollard, Slater Martin, Clyde Lovellette o Vern Mikkelsen erano titolari di assoluto valore, alcuni dei quali hanno trovato spazio anche nella Hall of Fame. Non deve sorprendere quindi né il dominio di Minneapolis né la clamorosa reazione ad un conosciutissimo episodio del tempo. Il 14 Dicembre 1949 i Lakers erano di scena a New York. Nel cartellone all’ingresso del Madison Square Garden la gara venne presentata, ufficialmente, come “George Mikan vs the New York Knickerbockers”. Gli altri componenti della squadra non la presero benissimo, minacciando di non giocare ed invitando il proprio compagno a vedersela da solo contro i padroni di casa. La situazione venne risolta diplomaticamente a poche ore dall’inizio, ma lo stesso George era il primo a riconoscere l’enorme importanza dell’intero roster della formazione.
Mikan in azione contro i Knicks; credits to: nba.com via Google
La corsa dei Lakers, frenata dagli infortuni dell’anno precedente, riprese inesorabile. Nessuno si sarebbe mai potuto frapporre al loro percorso da trionfatori. Con un Mikan capace anche di segnare 61 punti in una gara, Minneapolis si presentò motivata all’appuntamento con le Finals 1952 contro i New York Knicks, i principali eversori dell’epoca. La serie fu molto strana, in quanto i parquet casalinghi non erano disponibili per altri impegni con circhi o manifestazioni sui generis. Potere degli anni Cinquanta. Le Finali furono molto combattute, con Mikan spesso e volentieri raddoppiato o triplicato ma ben supportato dai compagni. In gara-7 i Lakers riuscirono a scavare un prezioso solco che mantennero sino alla fine, chiudendo la serie sul 4-3 e vincendo così il terzo titolo BAA/NBA. In pochi ormai non si erano accorti della dinastia che stava monopolizzando la pallacanestro.
Anche la stagione seguente non ci fu molta storia. Mikan chiuse col massimo in carriera alla voce rimbalzi (14,4) e conquistando il trofeo di MVP dell’All Star Game. Nelle Finals 1953 furono di nuovo i Knicks i principali antagonisti, questa volta con ancor meno fortuna. 4-1 Minneapolis e quarto trionfo per i Lakers.
I Minneapolis Lakers stretti intorno a Mikan; credits to: lakerholicz.com via Google
Qualche avvisaglia di temporale si stava già sentendo in casa dei campioni. Dopo tante botte e sacrifici, Mikan era in evidente calo, nonostante l’età ed il continuo dominio sugli avversari. Il gigante con gli occhiali decise di fare un ultimo sforzo per Kundla, compagni e tifosi. Le sue cifre calarono, pur rimanendo su standard non facilmente eguagliabili. I Lakers in postseason ebbero qualche patema in più rispetto alle previsioni. Nelle Finals 1954 ecco gli agguerriti Syracuse Nationals, desiderosi di rivincita dopo la sconfitta di 4 anni prima. Le squadre si scambiarono colpi da KO come due pugili nell’incontro per il titolo dei pesi massimi. Ancora una volta sarebbe stata gara-7 a decidere il titolo. Pollard fu il top scorer dell’incontro, aiutando un Mikan allo stremo delle proprie forze. Sul filo di lana, col serbatoio in evidente riserva, i Lakers fecero un ultimo regalo ai propri tifosi. 87-80 il punteggio finale, serie chiusa sul 4-3 e quinto titolo in sei anni, nonché terzo consecutivo, un three-peat ante litteram destinato a proiettarli verso la gloria.
La gioia per l’ennesimo trionfo durò poco. George Mikan decise di ritirarsi a soli 29 anni, dopo aver subito in carriera 10 fratture e 16 punti di sutura, bottino più che discreto, che testimonia anche cosa volesse dire giocare a quei tempi. Tentò un ritorno due anni dopo, ma durò solamente una quarantina di gare. Escludendo questo improbabile comeback, e considerando anche il periodo NBL, con due titoli in altrettanti anni con i Chicago Gears e gli stessi Lakers, Mikan chiuse la sua carriera con una statistica notevole: aveva vinto in ogni stagione giocata, eccezion fatta quella in cui si ruppe una gamba. Davvero impressionante.
Da sinistra verso destra: Vern Mikkelsen, George Mikan, Jim Pollard e Slater Martin, protagonisti della prima dinastia dei Lakers; credits to: espn.com via Google
In breve la dinastia si sfaldò. Ad uno ad uno i vari componenti del roster appesero le scarpe al chiodo, compreso coach Kundla. Appena 4 anni dopo l’ultimo titolo, Minneapolis non si qualificò alla postseason, tra l’altro con Mikan prima e Kundla di ritorno, assisi sul pino. Nel 1960 si verificò il clamoroso trasferimento della franchigia in quel di Los Angeles. Il Minnesota dovette aspettare 30 anni prima di poter rivedere in città una franchigia NBA. Anche ai Lakers non andò tanto meglio; solo nel 1972, quindi 18 anni dopo le gesta della dinastia, tornarono a vincere un titolo.
Col passare degli anni il ricordo di quello squadrone si fece più sbiadito. Colpa dei Celtics di Russell, creatori di una dinastia immortale, colpa anche della diffidenza verso un periodo comunque di basket pionieristico. A poco a poco ci si dimenticò delle gesta di quei Lakers, caduti in un oblio comunque immeritato. Lo stesso Mikan, dopo esser diventato commissioner ABA, ebbe innumerevoli problemi, tanto di salute quanto finanziari, sino alla morte che lo colse nel Giugno 2005.
Da dominatore a dominatore…; credits to: pinterest.com via Google
Negli ultimi anni però, la Lega aveva fatto di tutto per riportare in auge i Minneapolis Lakers. Venne consegnato un anello di campione NBA a tutti i superstiti del team e le stesse star contemporanee, a partire da Shaquille O’Neal, iniziarono a tributare i doverosi omaggi al primo grande big man che la pallacanestro ricordi, quel Mikan eletto quasi all’unanimità miglior giocatore dei primi 50 anni della storia della pallacanestro.
E’ giusto celebrare e ricordare una squadra che, nei fatti, ha vinto quasi quanto i Bulls di Jordan, lo stesso numero di titoli degli Spurs e più di L.A. di inizio millennio pur, ovviamente, con un diverso tipo di avversari, sia quantitativamente che qualitativamente. La durezza di quegli anni, testimoniata dal fisico martoriato di Mikan, è comunque un certificato di validità di quanto fatto dai ragazzi di Kundla, in un’epoca in cui certamente i giocatori non ricevevano stipendi faraonici e non c’era la copertura mediatica odierna.
Quei 5 successi, più uno nella NBL, nessuno comunque potrà mai toglierli ad una squadra che è stata la prima vera dinastia NBA con la prima vera superstar della Lega, che metteva in soggezione gli avversari vincendo ancor prima della palla a due, per poi completare l’opera sul parquet. Perché il Pollard&Mikan, molto tempo prima di Shaq&Kobe, aveva associato, probabilmente per sempre, il termine “Lakers” a quello di “vincente”.
Alessandro Scuto e Simone Simeoni