BASKET SOUND
Inizia oggi la nostra nuova rubrica Basket Sound, incentrata sul rapporto tra basket e musica e sugli scuotimenti vissuti da tale rapporto col passare dei decenni. Quanto la musica influenza il basket e quanto il basket la musica? Quanti punti di contatto ci sono tra due percorsi apparentemente così lontani? Nelle nostre analisi-racconti salteremo di tema in tema, più che seguire un rigido ordine cronologico. Dal rapporto tra Showtime-lakersiano negli anni ’80 e Showtime-musicale pop ottantiano (Michael Jackson e Madonna) allo show totalizzante che sono l’NBA e la musica oggi; le franchigie “indie” e la musica indie; il rap come paradigma di affermazione sociale e l’NBA come archetipo di business e di autorealizzazione 2.0; LeBron James e Beyoncé; Michael Jordan e Michael Jackson; Magic Johnson e i Guns N’Roses.
Si parte con Seattle, volutamente da un “posto lontano”. Si parte dai Seattle SuperSonics e dalla musica grunge, da Shawn Kemp e Kurt Cobain (con Michael Jordan e gli U2 sullo sfondo). Prendete la rincorsa e inforcate le chitarre: inizia un lungo viaggio sospeso tra alley-oop, amplificatori, Titoli NBA, dischi di platino, redenzione e dannazione.
SEATTLEITES
Curioso, no? Gli abitanti di Seattle si chiamano Seattleites. Lungi da noi tentare un temerario sforzo di traduzione in italiano (Seattleiani? Seattleiensi? Seattleosi?), ci limitiamo invece a constatare l’indubbia assonanza del termine con la parola “satellite”.
Ora, a qualcuno di voi potrà sembrare un caso che Seattle abbia dato i natali all’alieno della chitarra Jimi Hendrix, all’alieno dei caffè Starbucks e che, oltretutto, sia la città dello Space Needle, disco volante pronto a partire per l’infinito e oltre da un momento all’altro. Ma il caso non esiste, soprattutto quando si parla di alieni, satelliti e astralità consimili, amici miei.
NEL RING CON LA STORIA
Spostiamo il Telescopio Hubble su un periodo sociocestisticomusicale ben preciso. Anni ’90: a Seattle piove tanto come sempre, Seattle fa a pugni con la storia come mai era successo prima. Nel 1995 il “Seattleite” Bill Gates lancia il sistema operativo Windows 95, destinato a cambiare il mondo dell’informatica (e quindi il mondo); lo stesso anno, stagione NBA 1995-1996, i locali Seattle SuperSonics mettono in campo la propria edizione più forte di sempre, capitanata dal duo Gary Payton-Shawn Kemp. Pochi mesi prima, anno di disgrazia 1994, muore, suicida, Kurt Cobain, mente, cuore e anima dei “Seattleites” Nirvana. Tutto accade nel raggio di poche decine di chilometri. Storia con la S e le altre cinque lettere maiuscole, sport e musica s’intrecciano a un livello d’intensità che si direbbe impossibile per Seattle. In fondo Seattle è una piccola città (almeno in termini americani) sperduta sulla Costa Ovest degli Stati Uniti al confine col Canada. Un satellite di New York, di Los Angeles, di Chicago, no? Forse non questa volta. Questa volta Gary Payton, Shawn Kemp e Kurt Cobain sfidano la storia con la S e le altre cinque lettere maiuscole; pur rimanendo satelliti.
Un po’ del “Seattleite” Hendrix per settare il mood non guasta
SOSPESI
Gli anni ’90 NBA, anche se sono la decade di Michael Jordan, del pick and roll di Stockton e Malone, dello Shaq più dominante mai visto, dei primi Spurs, di Charles Barkley e di Reggie Miller, restano l’ultimo decennio di basket americano “sospeso nel tempo”. Internet agli albori, Youtube non esisteva, contatti con i movimenti cestistici extramericani ancora estremamente radi. Forse più di tutti, a subire questa sospensione spaziotemporale che manco il Marty McFly di Ritorno al Futuro, sono stati i Seattle SuperSonics di Gary Payton, Shawn Kemp e coach George Karl. Anticipatori – a modo loro – di linee narrative sviluppatesi all’inverosimile nel ventennio successivo – Payton l’egomaniaco, Kemp il reietto, Karl il perdente visionario. Satelliti, né più né meno.
Destino condiviso, intrecciato a tripla mandata e sviluppato in totale sincronia anticlimatica con quello del movimento musicale grunge (e il fatto che la squadra si chiamasse Seattle Sonics? Coincidenza sonica?). Anno di grazia 1989: Shawn Kemp viene draftato dai Sonics con la diciassettesima scelta (dietro a, per citarne qualcuno: Pervis Ellison, Danny Ferry, Pooh Richardson e Todd Lichti). Anno di grazia 1989: esce il primo disco (Bleach) di una certa, piuttosto famosa band dal nome sanscrito originaria dei dintorni di Seattle e capitanata da un frontman biondino, dall’occhio spiritato e dalla voce meravigliosamente fradicia. Tale Cobain, Kurt. Anno di grazia 1990: alle fila dei Sonics si unisce Gary Payton, proveniente da Oregon State. Anno di grazia 1990: debuttano pure gli Alice in Chains, (seattleiani doc) band ponte tra musica grunge e heavy metal pericolosamente sospesa tra edonismo acido a autoannichilimento (ricordano qualcuno?). Anno di grazia 1992: è la volta di coach Karl, ultimo pezzo del puzzle Sonics giunto a Seattle dopo un’esperienza nientepopodimeno che al Real Madrid. Anno di grazia 1992: i Pearl Jam (esatto, di Seattle pure loro), dopo un superunderground inizio carriera sotto il nome, attenzione, di Mookie Blaylock (ci torneremo) sono diventati una delle band più famose del globo terracqueo, prima schifati e poi attratti dal gigantismo à la Chicago Bulls di U2 e similia (storia, triste, dei Pearl Jam in tre brevissimi atti: nascono incazzati, s’incazzano ancora di più perché il business musicale è gargantuescamente più grosso di loro, invecchiano immalinconiti e straricchi, spremuti come limoni dal business di cui sopra; anche in questo caso ci torneremo).
Pearl Jam: Dissident (1993)
Non basta: il grunge finisce, canonicamente, nel 1994 con la morte di Cobain. In realtà, ampliando la narrazione alle band non solo di primissimissima fascia commerciale (cioè, sostanzialmente, Nirvana e Pearl Jam) e citando ad esempio i Soundgarden (25 milioni di dischi venduti, mica bruscolini), si nota come la morte fattiva, irrevocabile e incontrovertibile del grunge possa essere collocata, con maggiore precisione, attorno al 1996 (anno d’uscita di Down on the Upside, ultimo disco “storico” dei Soundgarden, prima della recente e fallimentare reunion; nonché dell’Unplugged degli Alice in Chains che ne segna l’autoannichilimento definitivo; nonché di ottimi album di band “minori” come Screaming Trees e Stone Temple Pilots).
1996 che è, guarda un po’, anno di apice e di istantaneo controdeclino anche dei nostri simpatici amici Seattle SuperSonics. Non c’è un business musicale gargantuesco, non ci sono gli U2 di quel buffo mattacchione di Bono Vox ad attenderli nelle Finals NBA 1996, dopo una stagione da 64 vittorie e 18 sconfitte in cui si sono letteralmente mangiati la Western Conference. No, molto peggio, peggio di Bono Vox, di Satana, del Leviatano. In Finale, ad attenderli, c’è Michael Jeffrey Jordan. E come può finire, secondo voi? Potrebbe essere la volta in cui il perdente cronico si riscatta, sconfigge il paladino alto, bello e robusto delle vittorie assicurate, hackera il sistema e si libera dalla Matrix che regola la dialettica servo-padrone/perdente-vincente nello sport, nello storytelling e nella vita dall’alba dei tempi. E invece, ovviamente, no. Trionfa, come sempre, il paladino alto, bello e robusto delle vittorie assicurate. Michael Jordan è il peso incarnato e fattosi ubermensch della storia, non solo cestistica, che fagocita le deviazioni laterali, le singolarità non previste; Michael Jordan, U2, George Washington, Giulio Cesare, Steven Spielberg. Tutte espressioni del medesimo pattern vincente primigenio. La storia ricorda solo i vincenti, i perdenti al massimo possono essere ricordati per contrappunto, nell’umiliante dinamica di un raffronto “per sottrazione” che distorce ulteriormente percezione e ricordi.
Cosa ci rimane, allora, di quei Seattle SuperSonics che hanno fatto a pugni con la storia? I voli di Shawn Kemp, come se Shawn Kemp in campo sapesse solo volare (23 punti, 10 rimbalzi, 2 assist, 1 rubata e 2 stoppate di media, col 55% al tiro, nelle Finals 1996), come se Shawn Kemp non fosse stato anticipatore di tutta una branca genetica di ali grandi/centri muscolari in grado di controllare il corpo come e meglio di tanti esterni di 1.90 (qualcuno ha detto Amar’e Stoudemire, Dwight Howard, Blake Griffin, DeAndre Jordan, Ben Simmons? Ehm, e LeBron James no?); il “guanto” Gary Payton, l’unico giocatore in grado di marcare Michael Jordan in 1 vs 1 senza andare sotto, come se non fosse stato pure uno dei principali pionieri della deriva dell’1 vs il mondo che tanto va forte nell’NBA di oggi (qualcuno ha detto Russell Westbrook, Carmelo Anthony, Draymond Green, Damian Lillard, Paul George, DeMarcus Cousins? Ehm, e LeBron James no?); gli alley-oop sull’asse Payton-Kemp, quelli sì se li ricordano tutti (basta guardare una top-10 su Youtube, furbacchioni); George Karl e il suo offensivismo spudorato ante litteram, anticipatore di tutti i D’Antoni e Kerr di questo mondo (come se i Sonics, nella regular season 1995-1996, non avessero chiuso secondi per defensive rating; indovinate dietro a chi?). E “vintage Nowitzki” Detlef Schrempf? Ed Ervin “No Magic” Johnson? E Sam Perkins (compagno di college a North Carolina di indovinate chi?)? E Hersey “mochicazzèquesto” Hawkins? Tutti perduti, come lacrime nella pioggia dello storytelling cestistico.
Non è forse la stessa, identica cosa, capitata alla musica grunge? Nata come ribellione nei confronti dello status quo, è diventata essa stessa lo status quo, senza che però quasi nessuno se ne accorgesse. In origine il grunge era un nuovo punk: ribellione giovanile, libertà di vestirsi tarlati, musica caracollante, insicura, basica, paurosamente potente. In origine i Nirvana potevano permettersi di farsi schifo senza arrivare al punto di farsi schifo da spararsi in bocca. Qualcuno potrebbe obiettare “i Nirvana, al contrario dei Sonics, hanno vinto: hanno venduto milioni di dischi”. Risposta: ma sono quasi diventati quegli U2 che promettevano di combattere, Kurt Cobain ci è arrivato, a spararsi in bocca. Shawn Kemp non sarebbe mai potuto essere Michael Jordan, sarebbe imploso per eccesso di contraddizioni interne (come Barkley, Iverson, Anthony; tutti giocatori/personaggi che funzionano molto meglio da perdenti che da vincenti. Inoltre, viene da dire, non è molto più facile, statisticamente parlando, riconoscersi in un perdente che in un vincente, dato che di perdenti, molto più che di vincenti, è pieno il mondo?). Il nuovo punk dei Seattle SuperSonics – il vecchio punk, per restare in metafora, potrebbe essere quello dei bellissimi ma inabili a vincere Houston Rockets anni ’80 di Sampson e Olajuwon – ha quasi fatto la rivoluzione, ma ha fallito perché non era destinato a farla, quella rivoluzione. Doveva rimanere satellite.
Uno non si poteva non mettere…
FUTURO
Due gli approcci possibili al futuro, date le condizioni di partenza, a parte l’autodistruzione sistematica in stile Nirvana: la disgregazione, quella intrapresa dai Sonics, la resa incondizionata, quella intrapresa dai Pearl Jam.
Che i Sonics non esistano più è una realtà dolorosa e che pare, però, inevitabile se la si analizza più in dettaglio. Seattle la storia l’ha già sfidata, è stata l’ombelico del mondo per un singolo respiro dell’Universo e poi è tornata a prendere calci da New York, Los Angeles e Chicago (soprattutto Chicago). È tornata quella piccola città marginale sulla Costa Ovest degli Stati Uniti, al confine col Canada. Oggi Seattle è la città degli hipster, della controcultura di tendenza, del radical chicchismo venduto a un tanto al chilo. Vive nell’ombra del proprio passato. E non farebbero forse lo stesso gli ipotetici Sonics 2016-2017? Marginalizzati, sperduti nel mare magnum delle franchigie NBA e destinati a essere perdenti ma non più “perdenti cool” come negli anni ’90. Oppure, peggio, il contrario: dei Sonics 2.0 costruiti ad arte, anche troppo cool, con una dirigenza impeccabile in stile Spurs, vincenti e perfettamente inseriti nel modello contemporaneo dell’NBA multimediale, social e egoriferita; l’NBA che, in un qualche involontario modo, anche loro hanno contribuito a plasmare. Degli AntiSonics completamente immemori del proprio passato.
I Pearl Jam, dicevamo. Appassionati di basket da sempre, i cinque (Eddie Vedder, Mike McCready, Stone Gossard, Jeff Ament, più diciassedicimila batteristi, cambiati con cadenza quasi annuale) non solo originariamente si chiamano Mookie Blaylock, in onore del playmaker dei Nets (poi anche Hawks e Warriors) scelto alla 12 nello stesso Draft di Kemp, ma intitolano pure il primo disco Ten, come tributo proprio al numero di jersey di Blaylock. Ecco, dal cambio di nome in poi, in favore del più epico Pearl Jam, i cinque, sempre meno ribelli, tarlati e caracollanti, hanno venduto quasi 100 milioni di dischi. Bene per loro, vedi sopra, direte. Benissimo per loro, ci mancherebbe, ma dov’è finita l’innocenza dei Mookie Blaylock, in mezzo a megatour, megadischi stroboscopici, colonne sonore mastodontiche e vite da star a tutti gli effetti (vedi: il cantante Eddie Vedder, che ormai è presente a ogni evento mondano possibile e immaginabile, manco fosse Beyoncé o il Jep Gambardella de La Grande Bellezza di Sorrentino)? Forse quell’innocenza non c’è mai stata.
L’epoca di Mookie Blaylock, di Shawn Kemp e di Gary Payton è finita da un pezzo. I Sonics non esistono più e per chi scrive è meglio che continuino a esistere solo nella memoria di chi li ha amati alla follia (va bene, lo ammetto, rivedere Sonics scritto su una jersey NBA mi darebbe un doppio infarto carpiato istantaneo simultaneo, uno di gioia e uno di sofferenza). Nell’NBA, nella musica, nel mondo come entità concreta e astratta, non c’è più posto per i satelliti. Solo le certezze, i LeBron James, le Beyoncé, gli oggetti perfettamente sferici e levigati hanno diritto di cittadinanza. Seattleites are gone. Era scritto nelle stelle; la palla da basket non è forse un oggetto, pur se non del tutto levigato, perfettamente sferico? Come un sole o un pianeta. Il resto, quando non finisce nel canestro, non può che gravitare intorno.
Nirvana, in versione Unplugged, che coverizzano David Bowie. Il mondo è già stato venduto.
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