L’NBA dei nostri nonni – Hank Luisetti, “Revolutionary Man”

Who made these rules anyway?” sussurra April a Frank in “Revolutionary Road”, film del 2008 firmato Sam Mendes, tratto dal romanzo omonimo del 1961 di Richard Yates. Un capolavoro drammatico che racconta la vana lotta contro gli stereotipi sociali e la mediocrità del sogno americano di una coppia di giovani sposi nella New York degli anni Cinquanta. In quella frase iconica di April (una straordinaria Kate Winslet) c’è un profondo, ribollente senso di ribellione verso la standardizzazione che imbrigliava la vita del ceto medio di quell’America e che suo marito Frank (Leonardo Di Caprio) sembra voler inseguire, a scapito di ogni sogno, ogni aspettativa, ogni desiderio.

Perché seguire regole dettate da altri, perché mettere limiti alla propria vita, alla propria stessa voglia di vivere? Un interrogativo sottile, eppure fondamentale quello di April. Un interrogativo che ha dovuto interessare tutti coloro che, in un momento o l’altro della storia, in un campo o nell’altro della vita, si sono trovati a dover spezzare gioghi e pastoie, ad andare al di là, a spostare i limiti, a cambiare le regole perché “chi diavolo le ha fatte le regole?”

Una scena del film “Revolutionary Road“; credits to: filmforlife.lbx.ir

Anche nel basket c’è stato qualcuno che si è chiesto “who made these rules?”, che ha guardato lo svolgersi di una partita e ha pensato di poter cambiare qualcosa, di poterlo rendere più efficace, più letale, migliore, anche se qualcuno prima di lui (Mr. Naismith e il suo First Team, nel nostro caso) aveva detto che era così che si faceva. Questo qualcuno è stato Hank Luisetti, l’uomo che ha plasmato il basket nel modo in cui lo conosciamo oggi. Questa è la storia della sua Rivoluzione.

San Francisco, 1906. Era placida la notte del 18 aprile. Le onde dell’oceano si infrangevano gentili sulle coste della Baia, come fossero state il lieve russare della città addormentata. Nulla lasciava presagire ciò che stava per accadere. Alle 5 del mattino la faglia di Sant’Andrea si mosse, scatenando un sisma di inimmaginabile violenza. San Francisco venne colpita, devastata, rasa al suolo. E prima ancora che la polvere degli edifici sbriciolati si posasse a terra, il fuoco cominciò a divorare ciò che rimaneva. Fu un’ecatombe, un piccolo spicchio d’Apocalisse in terra. Quasi tremila persone persero la vita, i danni furono incalcolabili. L’alba portò con sé l’immagine di una metropoli in ginocchio.

Veduta di San Francisco dopo il sisma; credits to: wikimedia.org via Google

Una metropoli che però, nonostante tutto, voleva ritornare subito a vivere. Ben presto gru e operai tornarono a popolare le strade di San Francisco, impegnati in una delle più grandiose opere di ricostruzione che la storia umana avesse mai visto fino a quel momento. C’era talmente tanto lavoro da fare che la manodopera non bastava mai, e si finì addirittura per importarla dall’estero, attingendo a quella fonte inesauribile che erano gli emigranti, gente che, da ogni lato del globo, si costringeva ad attraversare mari e monti pur di giungere sull’isolotto di Ellis Island, sperando in una nuova vita.

A quella massa apparteneva anche Stefano Luisetti, italiano verace, giunto via piroscafo con la sua valigia di cartone legata con lo spago, come cliché vuole, e subito mandato sulla costa californiana a guadagnarsi il pane nel campo dell’edilizia. Ben presto Stefano cominciò a piantare radici in quella città in ricostruzione, che offriva mille sbocchi e possibilità. Lavorò duro, mise da parte qualcosa, e alla fine, di nuovo come cliché vuole, riuscì ad aprire un bel ristorante italiano. La vita di Stefano Luisetti andava a posto pezzo dopo pezzo, e nel 1916, precisamente il 16 giugno, sua moglie diede alla luce un bel maschietto italoamericano che Stefano chiamò Angelo Enrico. Tutto come da copione.

Veduta del quartiere di Telegraph Hill; credits to: brianhannan.com via Google

Angelo Enrico Luisetti crebbe in una San Francisco in rinascita, ma dalle marcatissime delimitazioni sociali: c’era il quartiere italiano, Telegraph Hill, dove c’era il ristorante di papà Stefano e dove viveva lui con tutta la sua famiglia. Lo stesso quartiere dal quale sarebbero emersi personaggi del calibro di Joe Di Maggio, Frank Crosetti, Tony Lezzeri, che in comune avranno l’origine evidentissimamente italiana del cognome e la carriera da leggende che avrebbero avuto nei New York Yankees della Major League Baseball. Ma a San Francisco c’era anche il quartiere russo, pieno zeppo di playground in cemento dove Angelo poteva andare a giocare a quello sport che un professore canadese di educazione fisica aveva inventato in un giorno di pioggia nella palestra dello Springfield College, Massachusetts, appena un paio di decenni prima.

Era uno sport per il quale Angelo, che ben presto aveva scelto di anglicizzare il suo secondo nome in Hank – “because Angelo was so goody-goody” (parola sua) – era particolarmente portato: era un ragazzone di un metro e novanta, anche se forse un po’ magrolino e con le gambe sottili. Una caratteristica che sui campetti di Frisco gli era valsa il soprannome di Spiderlegs. Giocava a basket Hank Luisetti, dando e ricevendo colpi proibiti, consumando le suole delle scarpe sui playground della periferia di San Francisco. Ai tempi il basket stava vivendo un’espansione a macchia d’olio in giro per gli Stati Uniti, ma esistevano già personaggi con l’occhio lungo per il talento, e uno di questi era il preside della Galileo High School, il liceo che Hank frequentò per quattro anni a partire dal 1930 e dove giocò con risultati più che incoraggianti, tenendo la media fantasmagorica di 7 punti a partita (ai tempi, un vero patrimonio).

Luisetti ai tempi dell’high school; credits to: ebay.com via Google

Il preside della Galileo era un vero appassionato di basket, e si prese a cuore Hank come pochi altri studenti della sua scuola. Era un ex alunno di Stanford e aveva un sacco di contatti con le associazioni che popolavano l’università. Alla fine del percorso scolastico di Hank, poco prima che il ragazzo decidesse di lasciar perdere con lo studio (e con il basket) trovò un modo per fargli ottenere una borsa di studio sportiva per frequentare Stanford. Hank tornò a casa raggiante annunciando che lui se ne andava al college, e alla madre che affermava che loro non se lo potevano certo permettere, rispose che lo avrebbe fatto grazie al basket. Tutti quei colpi proibiti e quelle scarpe consumate erano servite a qualcosa.

Così nel 1934 Hank Luisetti si presentò a Stanford, all’epoca corte di coach John Bunn, che si rese subito conto che si trovava di fronte a materiale di rarissima qualità. Luisetti era diverso da qualsiasi altro giocatore Bunn avesse mai visto, il suo stile, mutuato dall’esperienza sui playground, era frenetico e ipnotico, il suo tiro era… impossibile! O almeno lo era all’epoca. Perché la grande differenza tra Hank Luisetti e tutti i suoi compagni a Stanford, tutti i giocatori collegiali, o forse tutti i giocatori di basket, eccettuato un certo John Miller Cooper, era che Hank tirava con una sola mano. Di più: tirava in corsa, tirava saltando, tirava contro ogni regola non scritta del gioco del basket. Hank Luisetti aveva appena aperto una nuova via. Hank Luisetti aveva inventato il jump shot.

All’inizio era stato semplicemente un adattamento necessario per non estinguersi come giocatore di basket, una modifica al suo stile di gioco dovuta alla sola necessità di sopravvivere. Nessun piazzato a due mani per Spiderlegs, niente piedi piantati a terra, nessuna lentezza o macchinosità, pena essere stoppato da avversari più “fisicati“. Così Hank si adattò darwinianamente, inventando il suo modo di giocare. Correva al triplo della velocità rispetto agli avversari, lanciava contropiedi, eseguiva palleggi behind-the-back, attraversava il campo come un fulmine per slanciarsi in un salto, in un rilascio anticipato del pallone. Tutto per insaccarla nel cesto.

Hank Luisetti mentre esegue un layup; credits to: sfchronicle.com via Google

Bunn provò a insegnargli che non era così che si giocava nel college basketball. Hank gli chiese di poter continuare col suo stile, e per dimostrargli che sarebbe stato efficace anche così cominciò a mettere un tiro dopo l’altro, con una precisione imbarazzante. Coach John Bunn non poté far altro che guardare attonito e annuire il suo benestare. Stanford cominciò a volare, con un gioco così rapido e intraprendente da risultare disorientante per gli avversari. I ragazzi correvano, pressavano, tiravano in modo febbrile. Un gioco che alla fine sarebbe venuto a noia persino ad Hank Luisetti, che ne era il principale catalizzatore, ma che disdegnava un partita fatta solo di corsa e tiri veloci. Ma se una strategia porta alla vittoria, perché abbandonarla? Stanford non era mai stata esattamente quella che si definirebbe una superpotenza del basket, ma con Luisetti nel roster cominciò a vincere in modo regolare. La squadra vinse la Pacific Coast Conference nel 1935 e nel 1936. Poi accadde l’imponderabile.

Il 30 dicembre 1936 Stanford raggiunse il Madison Square Garden per giocare una partita contro la strafavoritissima Long Island University che all’epoca aveva una striscia aperta di 43 vittorie (non è un errore di battitura: 43 vittorie consecutive, negli anni ‘30). Il Garden era gremito: 17.623 spettatori paganti si erano assiepati sulle tribune per vedere la squadra numero 1 della nazione che giocava contro quella strana formazione guidata da quell’ancor più strano italoamericano. Inutile dire quanto LIU fosse favorita.

Poco dopo il fischio d’inizio Hank prese palla sulla linea di fondo. Fece una finta, girò sul perno, e segnò in faccia a uno dei lunghi di Long Island, un veterano di quelle 43 vittorie consecutive. “Tutta fortuna” gli gridò quello. Hank sorrise. Alla fine della partita il punteggio recitava 45-31 per Stanford. La striscia di imbattibilità di LIU era finita. Il lungo non parlava più. Il pubblico era pietrificato ed elettrizzato allo stesso tempo. Quando Bunn fece accomodare Hank Luisetti in panchina gli tributarono una standing ovation, che è qualcosa che fa sempre un certo effetto, soprattutto dentro al Madison Square Garden. Clair Bee, coach di Long Island dichiarò candidamente:

Non oso pensare come ci avrebbe battuti se avesse usato entrambe le mani

Fu un upset bello e glorioso, qualcosa degno di entrare nella storia come una delle più belle partite di college basketball mai viste. Stanford era ormai completamente lanciata:

Ricordo un giro di trasferte in cui non perdemmo nemmeno una partita.

Così affermava Luisetti di quel 1936. Lo stesso anno nel quale ebbe la possibilità di conoscere niente meno che Mr. James Naismith, in person himself, durante una cena a Kansas City, nuova patria d’elezione dell’inventore del Gioco che all’Università del Kansas era andato a fare il coach. Luisetti lo ricordava con un sorriso come un vecchio un po’ scorbutico che rimpiangeva ancora il fatto che si fosse deciso di annullare la palla a due dopo ogni singolo canestro. Chissà cosa pensava del suo tiro a una mano. Ma il 1936 fu anche l’anno delle Olimpiadi di Berlino, le prime che contemplavano anche un torneo di basket.

Gli Stati Uniti avevano deciso di partecipare con una rappresentativa collegiale che venne scelta attraverso un breve torneo. Fu University of Washington a guadagnarsi l’onore, battendo proprio la Stanford di Luisetti all’atto finale. Ma assolutamente determinato a non perdersi l’appuntamento olimpico, Hank con un suo compagno di squadra, si imbarcò per la Spagna. Da lì era intenzionato a raggiungere Berlino a piedi, sennonché la Spagna era preda di una feroce guerra civile. Un giorno, mentre stavano camminando in strada, i due vennero prelevati e spinti contro un muro. Li stavano per fucilare prima che riuscissero a gridare in qualche modo di essere americani. Rientrato a Stanford, Hank Luisetti continuò a macinare gioco e canestri, ma raggiunse l’apice il 1 gennario del 1938.

credits to: alchetron.com via Google

Stanford giocava in trasferta, in una anonima palestra dell’Ohio dalle parti di Cleveland. Gli avversari erano gli uomini di Duquesne. Luisetti e i suoi avevano giocato tre partite in quattro giorni alla fine di dicembre, perché il promoter di eventi newyorchese Ned Irish si era reso conto che la squadra californiana era in grado di riempire come nessun’altra il Madison Square Garden, e aveva fatto in modo  che Stanford giocasse due match consecutivi in quel tempio laico nel cuore della Big Apple. Provati dal duplice impegno, gli uomini di Bunn erano poi caduti sotto i colpi di Temple a Philadelphia.

Era evidentemente un’altra epoca, con ritmi diversi. Ma Stanford decise di dimostrare che quella defaillance era stata, più che un caso isolato, una vera rarità. Duquesne era una squadra competitiva, ma quel giorno non c’era nulla che avrebbe potuto fermare Hank Luisetti e i suoi compagni. Il risultato finale fu un fragoroso, irreale e irrazionale 92-27 per Stanford, roba da far stropicciare gli occhi per essere sicuri di aver letto bene. Hank Luisetti segnò 50 di quei punti con 23 tentativi dal campo e 4 liberi.

Pura e completa follia. Fu lui stesso, sul finire del match, a chiedere a Bunn di chiamare timeout e a catechizzare i compagni perché gli sembrava che non stessero partecipando attivamente allo sforzo, limitandosi ad innescarlo in una serata che non si poteva far altro che definire “di grazia”. Philip Zonne, compagno di squadra di Luisetti, ricordava l’efficacia devastante della tattica di pressing a metà campo che attuavano:

Luisetti e io scendevamo a metà campo per contrastare le guardie avversarie che portavano su palla. Erano così confusi che a un certo punto uno di loro consegnò palla ad Hank!

Hank Luisetti divenne il primo giocatore di sempre nel basket collegiale a mettere a segno 50 punti in una singola partita, in un’epoca in cui (dati di Ivy League alla mano) la media a partita per squadra era di 30/40 punti segnati. Numeri da capogiro. La sua fama era a un livello tale che venne ingaggiato per una parte nel film “Campus Confessions”, dove interpretava un giocatore di basket al college: un “film orribile” come lo definì lui stesso, per il quale ricevette però la somma di 10.000 dollari sonanti, un signor cachet, vista l’epoca. Ma nel 1938 finì anche la sua esperienza collegiale. In quei quattro anni Stanford aveva giocato 51 partite, vincendone 46.

Il roster di Stanford nel 1936/37; credits to: gostanford.com via Google

Però non esisteva ancora una NBA nella quale approdare. Hank Luisetti andò a giocare nella AAU, la lega amatoriale, prima con i San Francisco Olympic Club, poi con i Phillips 66ers, quindi con i St. Mary’s Pre-Flight. E proprio con questi ultimi, nel 1942 fece ritorno a Stanford, da avversario, per quello che si candidava a essere uno dei match più belli mai giocati. Stanford aveva trovato l’erede di Luisetti in Jim Pollard, uno spilungone di più di 2 metri che non faceva passare un singolo pallone. Era famoso per la capacità di stoppare ogni singola parabola diretta verso il proprio cesto, e dal momento che l’interferenza a canestro era una regola che ancora non esisteva, Pollard aveva vita facile nel difendere il canestro, anche grazie alla sua preponderanza fisica e atletica sugli avversari.

Che ci si credesse o no, Luisetti partiva di nuovo svantaggiato. Possibile che qualche anno di assenza dai parquet di Stanford fosse bastato a far dimenticare al pubblico la sua versatilità? Hank Luisetti decise di ricordare a tutti chi era e chi era stato ridicolizzando apertamente Stanford e Jim Pollard: perché forse nel 1942 si potevano stoppare anche tutte le parabole discendenti di questo mondo, ma quello che di certo non si poteva stoppare erano i tiri che avessero già colpito la tabella. E fu così che Hank Luisetti tirò per tutta la partita. Mise 24 punti a fronte dei 9 di Pollard. Ovviamente vinse.

Luisetti con Jimmy McNatt in maglia Phillips; credits to: wikipedia.com via Google

Poi la Seconda Guerra Mondiale – come sono solite fare le guerre – gettò la sua ombra sulla vita di Hank Luisetti. Servì in Marina, ma nel 1944 contrasse una gravissima meningite spinale, che oltre a tutti i rischi legati a una simile malattia, portò anche alla fine della sua carriera sportiva. Conobbe in questo modo una brusca fine anche il progetto di Ned Irish che, nel 1946, voleva fare di Hank Luisetti la pietra angolare per la costruzione di una franchigia della Big Apple, una franchigia dai colori blu-arancio che rispondeva al nome di New York Knickerbockers.

Ma il rapporto tra Hank Luisetti, e il basket, lo sport su cui aveva così fortemente influito, non era destinato a finire. Nel 1950 una giuria di giornalisti, la maggior parte dei quali non avevano mai potuto assistere alle sue gesta sul parquet, lo votò come secondo nella lista dei migliori giocatori del primo mezzo secolo di basket, dietro soltanto a un certo George Mikan. Nel 1951 invece si sedette sul pino degli Stewart Chevrolets di AAU. Ci rimase un solo anno, quello che bastò per vincere il titolo, allenando nel frattempo un certo George Yardley che sarebbe entrato nella Hall of Fame. La stessa Hall of Fame che, come atto fondativo, nel 1959, accolse proprio Hank Luisetti (insieme a Mikan, Chuck Hyatt e John Schommer).

Se Hank Luisetti ebbe mai un rimpianto fu, probabilmente, quello di non aver mai potuto giocare nella NBA, che fu fondata nel 1946, anche perché in una intervista ebbe a dire:

Penso che potrei giocare in una partita al giorno d’oggi. Anche se con tutti questi 2.10 non farei molti canestri!”

E noi non stentiamo a credere che fosse vero. Perché in fondo, Hank Luisetti, Spiderlegs o Frisco Italian che lo si voglia chiamare, è stato il giocatore dall’impatto più devastante nella storia del basket, come e forse più di un certo #23 in maglia Bulls. Non è un caso che il suo ex compagno di squadra a Stanford Don Williams dicesse di lui:

Hank poteva prendere possesso di una partita come Michael Jordan se doveva. Era un artista assoluto sul campo da basket.

Hank Luisetti si spense nel 2002 a San Mateo, California, dalle parti di Stanford, dove aveva deciso di vivere la sua vecchiaia. Ma forse non è mai morto davvero. Forse vive di nuovo ogni volta che Stephen Curry si alza per una tripla, ogni volta che James Harden si ferma per un jumper, ogni volta che un qualsiasi giocatore di basket in giro per il mondo inventa qualcosa di nuovo, esce dagli schemi, rivoluziona. Quale modo migliore per ricordare un uomo rivoluzionario che continuare a far rivoluzione?

credits to: sfgate.com via Google

Del resto “who made these rules, anyway?

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Pubblicato da
Simone Simeoni

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