L’NBA dei nostri nonni – Bob Cousy, “Mr. Basketball”

Nel film “Blue Chips”, uscito nel 1994 per la regia di William Friedkin, c’è una scena magistrale nella quale l’anziano assistaint coach Vic Roker parla con il protagonista, Pete Bell (un ottimo Nick Nolte) in palestra. Il dialogo dura un buon minuto e mezzo, durante il quale Bell sfoga con il suo amico e vice tutte le sue frustrazioni per le vittorie che non arrivano più, mentre Vic tira a canestro dalla linea della carità.

Ci vogliono sei liberi consecutivi andati a segno prima che Bell chieda “Don’t you ever miss?” Per tutta risposta Vic ridacchia, dice che “it’s the idea of the game, put the ball into the hole” e infila un altro libero. Poi mette anche l’ottavo, spingendo Bell a chiedergli di sbagliarne almeno uno. Non c’è nulla da fare: Vic segna anche il nono, e tira il decimo con la sinistra. C’è bisogno di dirlo? Solo rete, e Bell che ridendo recupera la palla e prorompe in un “you can’t even miss left handed!”. Scena realizzata in un unico ciack, ovviamente. Vic era interpretato da un uomo canuto, con grossi occhiali. Un uomo che risponde al nome di Bob Cousy, e che in quei dieci liberi consecutivi ha disegnato il paradigma di tutta una carriera. Questa è la sua storia.

Isola di Manatthan, New York City, anno del Signore 1928. Joseph Cousy è nel suo yellow cab che tenta di guadagnarsi da vivere. Joseph è un immigrato francese da poco giunto negli Stati Uniti, dannatamente povero e con un bruttissimo passato alle spalle. Era nato in quelle regioni di frontiera che da secoli francesi e tedeschi si passavano di mano neanche stessero giocando a Risiko, e aveva servito nell’esercito tedesco durante la Prima Guerra Mondiale, che non era stata esattamente una scampagnata con gli amici nella valle della Loira. Poi, subito dopo la fine del conflitto, sua moglie era morta di polmonite. Nella sfortuna che lo aveva afflitto, però, Joseph aveva infine trovato un tesoro: si chiamava Julie Corlet ed era una maestra di francese originaria di Digione. I due erano presto convolati a giuste nozze, decidendo di andare a cercar fortuna nello sconfinato Nuovo Mondo. La fortuna però, tarda ad arrivare, e così Joseph fa nottata dentro al suo cab, scarrozzando americani ben vestiti e pettinati in giro per la Big Apple, prima di parcheggiare e andare a posare le stanche membra sul letto del suo appartamento di Yorkville, dalle parti dell’East Side, al fianco della moglie incinta. E del resto quello è l’unico barlume di speranza che rischiara la sua oscura esistenza, l’essere sul punto di diventare padre. Perché Joseph sa che quel bambino sarà un maschio, sa che quel bambino gli darà infinite soddisfazioni. Nell’inconscio ne è già orgoglioso.

Prima pagina del London Herald del 29 ottobre 1929; credits to: leonardo.it via Google

Il bambino nasce il 9 agosto e Joseph e Julie decidono di chiamarlo Robert. La vita però sta per farsi più difficile: nel 1929 crolla la Borsa di Wall Street, un sacco di americani ben vestiti e ben pettinati perdono ogni cosa, gli Stati Uniti si ritrovano sull’orlo del baratro. Inizia la Grande Depressione. È una crisi economica senza precedenti, che costringe Joseph a traslocare e ad andarsene nel Queens, ad Astoria, in un appartamento che gli costa 50 $ al mese d’affitto. Una vita dura, ma pur sempre vita, rischiarata da quel bambino che cresce sano, anche se fino a cinque anni sa parlare solo francese, la lingua di mamma e papà. Solo quando inizia ad andare a scuola Robert impara l’inglese e incontra tutti gli altri bambini del quartiere, tutti come lui, figli di famiglie in difficoltà, di immigrati e minoranze etniche.

Così cresce Robert, in arte Bob, con un manico di scopa in mano, a giocare a stickball (la versione homemade del baseball) con ragazzi afroamericani, ebrei, ispanici, insomma tutt’altro che i tipici WASP. Un’infanzia felice, nonostante tutte le difficoltà che, tra l’altro, stanno cominciando a diminuire. Nel 1940 Joseph versa un acconto di 500 $ per una casa a St. Albans, sempre nel Queens, e si trasferisce di nuovo, con la famiglia al seguito. Bob ha ormai 13 anni e comincia a essere un bambino irrequieto che vuole correre, muoversi, fare sport. E un giorno, alla St. Pascal’s Elementary, incontra lo sport perfetto. Se ne sta a gironzolare intorno a un canestro, durante l’intervallo di una partita di basket, e qualcuno gli mette una palla a spicchi in mano. È il primo incontro tra Robert “Bob” Cousy e il gioco d’invenzione di Mr. Naishmit, è un rombante colpo di fulmine.

I had never had a basketball in my hands. Once I did, I was hooked.

Con questa frase Bob Cousy descrive, anni dopo, quell’incontro. Hooked, “catturato” dal basket fin dal primo istante, fin dal primo momento. Cos’è questa se non la descrizione dell’Amore?

Articolo del Long Island Press su una prestazione di Cousy; credits to: apbr.com

Passato alla Andrew Jackson High School di St. Albans, Bob prova subito a consumare quella storia d’amore con il basket, ma i tempi non sono maturi. È troppo presto per lui, è troppo presto per il basket forse. Presentatosi ai tryouts per la squadra del liceo viene infatti tagliato in modo inclemente dal coach, ma non per questo Bob perde le speranze.

Entra infatti nei St. Albans Lindens, una squadra giovanile della Press League, lega di basket amatoriale sponsorizzata da un piccolo giornale, il Long Island Press. Ma nonostante l’esperienza, ai tryouts del suo secondo anno di liceo viene nuovamente tagliato dalla squadra. Ce n’è abbastanza per mollare, e forse uno spirito meno deciso di Bob lo farebbe, anche perché il Fato sembra mettersi di traverso e lui cade dal ramo di un albero sul quale si era arrampicato, fratturandosi il polso destro.

Un “evento fortunato” lo definisce lui. Perché l’Amore (si, la A è rigorosamente maiuscola) è troppo forte, e per tutta la durata della convalescenza Bob Cousy gioca a basket utilizzando la mano sinistra, divenendo infine praticamente ambidestro (ricordiamoci: “you can’t even miss left handed!”). E poi finalmente tanta testardaggine viene ripagata. Durante un match della Press League il coach del suo liceo lo vede e rimane impressionato: quel ragazzo sempre tagliato durante i provini è dotato, e soprattutto sa usare entrambe le mani. Il coach decide di offrirgli una chance, dopotutto, e lo invita ad unirsi, il giorno successivo, agli allenamenti del junior varsity team della scuola, una sorta di squadra ‘B’. Quello che Bob Cousy mette in mostra il giorno successivo in palestra, conferma tutte le ottime impressioni che il coach ha avuto, e così l’ingresso all’interno del JV diventa una mera formalità.

E dalla squadra ‘B’ alla squadra ‘A’ il passo è breve: all’inizio del suo anno da junior (il terzo anno di liceo) Cousy è ormai una certezza per il coach, e l’unico ostacolo che si può frapporre tra lui e il varsity team è il test di cittadinanza che deve sostenere in quanto figlio di immigrati. Bob lo fallisce clamorosamente. Così, tra tutte le altre conseguenze, è costretto a saltare un intero semestre di basket giocato e ad unirsi al resto della squadra nel bel mezzo della stagione. Il giorno del suo esordio nell’high school basketball, Bob Cousy decide di presentarsi mettendo a referto 28 pts: un biglietto da visita non male per uno che era stato tagliato due volte dalla squadra. Ma la gloria arriva, improvvisa, l’anno successivo. Bob gioca su livelli sublimi, si esprime in modo eccelso sul parquet e trascina la Andrew Jackson High alla vittoria del campionato divisionale del Queens.

Per farlo mette in cascina più punti di qualsiasi altro giocatore liceale dell’area di New York City, non proprio una cittadina sperduta. Anche se giocare a basket a livello professionistico non è mai stato tra i suoi piani, in questo momento diventa il piano. E il primo passo da compiere in questo senso è la scelta del college.

Bob Cousy con la maglia di Holy Cross; credits to: holycross.edu via Google

Joseph e Julie vorrebbero un’università cattolica, Bob vuole allontanarsi da New York perché non ha mai visto altro. Gli arriva un’offerta dal Boston College, una buonissima università, priva però, all’epoca, di dormitori. Bob non ne vuole sapere di fare la spola perciò declina gentilmente. Sembra tutto finito quando si fa avanti un’altra università, il College of the Holy Cross di Worcester, Massachusetts. Un istituto cattolico, lontano dalla Grande Mela, dotato di strutture all’avanguardia e pronto ad offrirgli una borsa di studio. Bob Cousy non ci pensa due volte e fa fagotto, diretto verso la sua nuova vita.

È il 1946, ha solo 18 anni, ed è uno dei sei freshman a disposizione del coach di Holy Cross, tal Alvin “Doggie” Julian, il convinto ideatore di un sistema di gestione del minutaggio che prevede che tutti i ragazzi del suo roster scendano in campo. Lo ha chiamato “two-teams system”. Bob, in qualità freshman, viene inserito nel second team, e nonostante risulti chiaramente più talentuoso di molti dei suoi compagni, deve sottostare anche lui al rigido sistema di Julian. Il coach del resto è un tradizionalista: gli piace far giocare il basket ragionato e lento (troppo lento) in voga all’epoca, e Bob, con tutto il suo repertorio di passaggi no-look e di palleggi behind-the-back sembra non adattarsi proprio a un tale sistema di gioco. Cousy entra così in aperto contrasto con Julian che, nonostante tutto, ligio al suo sistema dei two-teams, lo mette sempre in campo, permettendogli di diventare, in quella stagione 1946/47, il terzo giocatore di Holy Cross per punti segnati (226).

Più di lui segnano solo le due star George Kaftan e Joe Mullaney che trascinano la squadra ad un record di 24-3, che vale la seed #8 per partecipare al torneo NCAA. Nella prima sfida contro la Navy di Ben Carnevale, Holy Cross prevale (55-47) grazie ai 18 pts di Mullaney, mentre nella seconda contro CCNY di coach  Nat Holman sono i 30 pts di Kaftan a propiziare la vittoria (60-45). La finale del torneo si gioca di fronte a un Madison Square Garden gremito, tra Holy Cross e Oklahoma. Kaftan ne infila 18, ma è abbastanza per vincere 58-47. Anche se Cousy ha dato un apporto minimo a quella vittoria, riceve lo stesso trattamento da eroe al ritorno a Worcester, con diecimila tifosi vocianti ad accogliere la squadra alla Union Station.

Il roster di Holy Cross campione NCAA; credits to: fifteenminuteswith.com via Google

La stagione successiva però, la frustrazione di Cousy di fronte all’apparente disinteresse di Julian nei suoi confronti non fa che salire. Bob si sente le ali recise, brutalmente tarpate da quel coach che non gli dà i minuti che vorrebbe. Decide di scrivere una lettera a coach Joe Lapchick, che allena la squadra della St. John’s University, New York, dicendogli che sta considerando l’idea di trasferirsi nella sua università. Ma è lo stesso Lapchick a dissuaderlo, dicendogli che le regole NCAA prevedono un anno di stop dopo un trasferimento, e soprattutto convincendolo che Julian è uno dei migliori coach d’America con il quale lavorare (e l’Hall of Fame sta lì a dimostrarlo).

Così Bob Cousy rimane a Holy Cross, continuando a lavorare duro in allenamento e a passare poco tempo sul parquet. Fino al suo anno da senior. Durante una partita contro Loyola of Chicago infatti, con il risultato in bilico a cinque minuti dalla fine, la folla di tifosi comincia a intonare un concorde “We want Cousy” al quale, infine, anche Julian deve piegarsi, facendolo scendere in campo.

credits to: bleacherreport.com via Google

È l’Occasione, e Cousy non stecca. Segna 11 pts, tra i quali il canestro della vittoria sulla sirena, costruito dopo un palleggio dietro la schiena. Il palazzo esplode, Cousy sorride, Julian si illumina. Durante quella stagione Cousy conduce Holy Cross ad altre 26 vittorie, che significano seed #4 al torneo NCAA e tre titoli di All American per lui. Ma non gli riesce lo step successivo, e la sua avventura collegiale si chiude contro North Carolina State, al primo turno del torneo. Un vero peccato.

Ma è già ora di spiccare il volo, è ora di scegliere il proprio futuro. Cousy si rende eleggibile per il Draft NBA del 1950, dove la prima scelta appartiene ai Boston Celtics di Red Auerbach, detentori del mesto record di 22-46 nella stagione precedente. Sembra un matrimonio già scritto, quello tra l’idolo collegiale locale e la squadra biancoverde, ma Auerbach non è affatto convinto. Ritiene che Cousy sia un fuoco di paglia, pensa che la lega sia troppo grande, dura e cattiva per lui, crede che per risollevare i destini di Boston serva tonnellaggio e non palleggio. E così Red sceglie il centro Charlie Share, tra le critiche dei tifosi. Critiche che non lo scalfiscono minimamente, se il coach arriva anche a dire

Am I supposed to win or please the local yokels?

Dove yokels (bifolchi) non è esattamente un epiteto d’apprezzamento. E del resto Red non è nemmeno l’unico a pensare che Cousy sia inconsistente. Viene fuori la relazione di uno scout che lo considera inadatto alla NBA e che scrive:

The first time he tries that fancy Dan stuff in this league, they’ll cram the ball down his throat

Il risultato è che Bob Cousy scivola nel Draft alla scelta #3, in possesso dei Tri-Cities Blackhawks, non esattamente la squadra dei sogni di ogni bambino.

Logo dei Tri-Cities Blackhawks; credits to: sportsecyclopedia.com via Google

Cousy ha i suoi affari in corso, sta cercando di inaugurare una scuola guida in quel di Worcester, e il trasferimento dalle parti di Moline, Rock Island e Davenport (queste le “magnifiche” Tri-Cities, sparse tra l’Illinois e l’Iowa) gli causerebbe non pochi problemi. Così Cousy richiede un irraggiungibile stipendio di 10.000 $. Ben Kerner, proprietario dei Blackhawks gliene offre 6.000 $ e Cousy rifiuta di presentarsi al raduno della squadra. Vista la ghiotta possibilità di accaparrarselo, i Chicago Stags avanzano allora un’offerta che Cousy ritiene accettabile.

Logo dei Chicago Stags; credits to: geocities.ws via Google

Ma l’idillio dura poco. Perché gli Stags stanno vivendo una situazione finanziaria a dir poco drammatica, e in quella stessa estate 1950 sono infine costretti a dichiarare bancarotta. Così tutti i loro assets – ivi compresi il loro miglior realizzatore, Max Zaslofsky, la guardia Andy Phillip, e ovviamente Bob Cousy – finiscono in una bella asta fallimentare che la neonata NBA, nella persona del commissioner, Maurice Podoloff, ha la decenza di chiamare dispensal draft.

All’asta… pardon, draft, si presentano i presidenti delle franchigie NBA, tra cui quello dei Celtics, Walter A. Brown che rende chiara la sua predilezione per Zaslosfky. Che in alternativa si accontenterebbe di Phillip. Che alla fine, nonostante gli scout, nonostante Auerbach, nonostante tutto deve prendere Cousy. 9.000 $ di stipendio, e Bob è parte della franchigia biancoverde. Nessuno ha ancora capito che razza di colpo i Celtics abbiano appena messo a segno.

Ci vuole poco tempo, però, a rendersene conto. Brown e Auerbach sono costretti a guardare quel ragazzino che si prende sulle spalle la squadra e la trascina a un record di 39-30 nella stagione 1950/51, facendo registrare 15.6 pts, 6.9 rbd e 4.9 ass, prima di doversi arrendere ai New York Knicks durante i Playoffs. La stagione successiva, con l’arrivo di Bill Sharman ad affiancarsi a Cousy, Ed Macauley e Bones McKinney, i Celtics vanno ancora meglio, e così il loro leader: 21.7 pts, 6.4 rbd e 6.7 ass ad allacciata di scarpe parlano per Cousy che però, di nuovo, non riesce a sfatare la maledizione New York Knicks, con i bluarancio a sconfiggere i biancoverdi nei Playoffs del 1952. Nella stagione 1952/53 le cose migliorano ancora: Cousy mette insieme 7.7 ass a partita, in un epoca in cui ancora non esiste lo shot clock, Auerbach inventa il suo famoso quick fastbreak e i Celtics dominano, vincendo 46 partite.

Durante i Playoffs Cousy e i suoi si ritrovano di fronte i Syracuse Nationals, che vengono battuti per 2-0, con una prestazione epica in gara-2. 111-105, 4 overtime, e un Cousy che, praticamente su una gamba sola a causa di un infortunio, mette insieme cifre del tipo: 25 pts nei primi quattro quarti, altri 6 (su 9 di squadra) nel primo overtime – compreso un certo libero che rimette in parità la partita sulla sirena – 4 (su 4) nel secondo overtime e ancora 6 pts, tra cui un buzzer beater dall’astronomica (al tempo) distanza di 7 metri e 60, nel terzo. Altri 9 pts (su 12) Cousy li segna nel quarto e ultimo overtime, per un totale di 50 pts segnati in 66 minuti e il record (che se ne sta ancora lì) di 30/32 ai tiri liberi. Ma quella dei Knicks è una maledizione, e per il terzo anno di fila sono i newyorchesi a porre fine ai sogni di gloria biancoverdi.

Cousy contro i Knicks; credits to: buzzfed.com via Google

Nei tre anni successivi Cousy assurge al rango di stella assoluta, guidando la lega per assist ogni singola stagione, vincendo il titolo di MVP dell’All Star Game nel 1954 e soprattutto “creando” un nuovo stile di gioco, fatto di movimento, rapidità e passaggi illuminanti dal retrogusto di street basket, tanto che i tifosi cominciano a chiamarlo “Houdini of the Hardwood”, lo speaker dei Celtics invece lo presenta come “Mr. Basketball”. È un mondo nuovo per la NBA. I Celtics lo usano come pietra angolare per la costruzione di una squadra dalle grandi ambizioni, mettendogli intorno le pedine migliori per arrivare al successo, come Frank Ramsey o Jim Loscutoff, specialista difensivo che, con Bob Baumann, diverrà un po’ la sua guardia del corpo. Eppure ogni singolo anno qualcosa ferma i biancoverdi ai Playoffs: alla maledizione-Knicks si sostituisce la maledizione-Nationals e , per tre stagioni consecutive, è la squadra di Syracuse a fermare la corsa di Boston verso il bersaglio grosso.

Cousy sostiene che la squadra è costretta a lottare troppo sotto le plance e che ne soffra sul lungo periodo, stancandosi. Auerbach, per tutta risposta si mette in moto. Nell’estate 1956 i Celtics si portano a casa due giocatori: l’ala Tom Heinson e un grosso centro che difende come un demone e prende rimbalzi a ritmi impressionanti. Il suo nome? Bill Russell. È probabile che nell’intero universo del basket nessuno ancora capisca cosa si sia creato in Massachusetts.

Bill Russell che domina…; credits to: tiktiktoopen.com via Google

Con Russell al suo fianco, Cousy spicca il volo e raggiunge una produzione inimmaginabile: 20.6 pts, 4.8 rbd e 7.5 ass a partita nel 44-28 di record che mettono insieme i Celtics, quanto basta per iscriversi negli annali della lega alla voce “MVP della regular season”. I biancoverdi asfaltano ogni resistenza e, in una drammatica e bellissima gara-7 delle Finali sconfiggono gli Atlanta Hawks di Bob Pettit. È il primo titolo, è l’inizio di un’epopea.

Cousy tira in faccia agli Hawks; credits to: pinterest.com via Google

L’anno successivo la macchina perfetta di Auerbach non sembra volersi arrestare, e con Cousy sempre più al timone, a dispensare canestri e assist (8.6 ad allacciata di scarpe, manco a dirlo, leader NBA), le Finali NBA sono una formalità. Ma in gara-3 Russell si infortuna ed è costretto a rimanere fuori, e i vecchi dubbi tornano a galla. Alla fine Boston cede per 4-2. Una sconfitta sanguinosa. Una sconfitta che chiede vendetta. Nella stagione 1958/59 Cousy e i suoi danno la sensazione di essere i proprietari di una assurda onnipotenza, e sottomettono ogni avversario che si trovi sulla loro strada. In una partita contro i Minneapolis Lakers, sul finire della stagione, Cousy rasenta i limiti della leggenda sportiva, scodellando qualcosa come 28 ass, un record che rimarrà intatto per 19 anni.

Gli stessi Lakers non possono nulla quando incontrano quel rullo compressore nelle Finali, venendone spazzati via per 4-0. È il primo sweep della storia delle Finali NBA, propiziato anche dai 51 ass complessivi (nella serie) di Cousy. Che non ha la minima intenzione di fermarsi. Nel 1960 raggiunge l’assurda cifra di 9.5 ass a partita, che gli consegna per l’ottava volta consecutiva il titolo di miglior passatore della lega. I Celtics, sempre efficienti come un carro armato ben rodato, continuano a travolgere gli avversari, finendo per portarsi a casa anche quel titolo, con un 4-3 rifilato di nuovo agli Atlanta Hawks.

Nel 1961 un Cousy 32enne continua a spiegare basket al mondo e alla NBA, confezionando una stagione dalle cifre rispettabilissime (18.1 aa, 4.4 rbd e 7.7 ass) anche se manca il titolo di miglior passatore stagionale. Una preoccupazione da poco dal momento che i Celtics, macchina ormai oliata alla perfezione, si portano a casa un nuovo titolo, con un convincente 4-1 stampato in faccia agli Hawks, di nuovo. Ma Cousy sta invecchiando, e sta lentamente cedendo il testimone a quel monolite di Russell. Nella stagione 1961/62 Bob comincia a calare le sue statistiche, e fa fisicamente più fatica a stare in campo. I Celtics sudano più del dovuto a superare compagini giovani e rampanti come i Philadelphia Warriors di un tal Wilt Chamberlain o i Lakers, trasferitisi a Los Angeles, che li impegnano in una serie finale thrilling, dove, all’ansito conclusivo di gara-7, la guardia gialloviola Frank Selvy potrebbe anche causare la caduta degli dei, con un tiro sulla sirena che gli viene risputato dal ferro.

credits to: foxsports.com

La stagione 1962/63 deve essere l’ultima, e Bob Cousy lo sa. Decide di dare il meglio di sé per quei colori, il bianco e il verde di Boston, un’ultima volta. Il 17 marzo 1963 Cousy gioca la sua ultima partita di regular da Celtic. Il Garden è gremito, i tifosi lo adorano come un dio pagano bello e tremendo. La cerimonia di addio, che doveva durare 7 minuti ne dura 20, e passa alla storia come Boston Tea Party. Una versione 2.0, però. Ma c’è ancora un’ultima cosa che Bob vuole fare.

Vuole chiudere in bellezza. Nelle Finals del 1963 ci sono i Los Angeles Lakers, ma nulla sembra poter fermare i Celtics, che si portano in vantaggio per 3-2. Gara-6 è una infuocata resa dei conti di fronte al pubblico di L.A. Cousy si sloga la caviglia durante l’ultimo quarto, un infortunio tanto grave che i suoi compagni sono costretti ad accompagnarlo in panchina. Sarebbe facile arrendersi ora. Ma quello è Bob Cousy. Torna in campo a pochi minuti dalla fine del match, zoppica vistosamente, è eroico come un Achille in canotta e pantaloncini verdi. Tra Celtics e Lakers c’è un solo punto, in favore dei primi. Non segna più, ma dà la carica. I Celtics vincono 112-109, è il loro sesto titolo, il suo sesto titolo.

Cousy si ritira dal basket giocato, ma non può allontanarsi dallo sport che ama: viene ingaggiato come coach dal Boston College, e in sei stagioni di NCAA colleziona un record di 117-38. Follia. Il college basketball finisce addirittura per venirgli a noia, e i Cincinnati Royals sono pronti a cogliere l’occasione al volo. Si presentano da lui con quella che Cousy stesso definisce una “Godfather offer”, insomma, un sacco di soldi sul piatto. E Bob accetta.

credits to: gettyimages.com via Google

Forse, sicuramente lo fa per i soldi piuttosto che per il basket, ma in fondo cosa importa? Ormai 41enne si imbarca in una nuova avventura e torna addirittura in campo nella grandiosa trovata pubblicitaria che serve ai Royals per incrementare le vendite di biglietti: sono solo 7 partite, 34 minuti complessivi, 5 punti. Ma è Cousy. Cincinnati vende il 77% di biglietti in più. Allenerà i Royals, tra alterne vicende, fino al 1973/74, assommando 141 vittorie e 209 sconfitte. Nel 1971 viene eletto nella Naismith Memorial Basketball Hall of Fame, e i Celtics ritirano la sua maglia #14. Anche Holy Cross, nel 2008, ritirerà la #17 che aveva vestito al college.

Ma oltre a essere un grande sportivo, Bob Cousy è un grande uomo: cresciuto in un ambiente multiculturale e per questo estraneo a ogni forma di razzismo, nel 1950 Cousy aveva preteso di prendere uno scomodissimo treno notturno verso Charlotte con Chucky Cooper, il primo afro-americano ad essere scelto in un Draft, perché in North Carolina gli era stata negata una stanza d’albergo. Un viaggio difficile e umiliante, che Cousy aveva voluto condividere con il compagno, non per vanagloria, ma per lanciare un messaggio. Era già avanti, anche in questo. Nel 1954 era stato il principale propugnatore dell’Associazione del Giocatori, destinata a salvaguardare le carriere degli atleti della lega, primo organismo di questo genere in tutti i Major Sports americani.

Questo è Bob Cousy, un uomo partito da nulla che è riuscito a lasciare un segno indelebile sulla NBA, un uomo senza il quale, per dirla con le parole di Walter Brown “the Celtics wouldn’t be here”. Un uomo in grado di tracciare la propria storia in 10 tiri liberi, messi su pellicola circa 22 anni fa.

Cos’altro vi aspettavate da Mr. Basketball?

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Pubblicato da
Simone Simeoni

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