DeMarcus Cousins, win or go home

Quante volte in ambito sportivo si è sentito parlare di legacy? È un termine talmente vasto che ognuno cerca di dargli un significato inerente al contesto, che non può fermarsi alla semplice traduzione di “eredità”.

Nel panorama NBA ci sono tantissimi giocatori che sono spinti dalla brama di lasciare un marchio indelebile che i posteri possano ricondurre alle loro gesta. L’unico modo per mettere d’accordo tutti, o quantomeno per legittimare una legacy in una lega spietata e avida di novità come l’NBA, è vincere.

If KG was always losing and was the same person, they would think he was the worst guy ever.

A parlare in questi termini di uno dei giocatori più innovativi degli anni Duemila, secondo i più colui che ha cambiato il modo di giocare da 4, è DeMarcus Cousins. Un giocatore tanto forte quanto poco apprezzato dalla stampa e dagli addetti ai lavori, crocifisso più volte a causa della cronica incapacità di focus, di un carattere “lunatico” e per i continui screzi (veri o presunti) con l’allenatore di turno. La citazione sopra riportata è sono tratta da un’intervista rilasciata dal centro dei Kings a SLAM, nella quale compare la parola “win” la bellezza di tredici volte. Sembra di sentir parlare Kobe Bryant; chi lo avrebbe mai detto che DeMarcus Cousins ha un’ossessione che lo perseguita e che assume i caratteri spigolosi di una doppia vu.

Forse su Garnett si sbaglia, probabilmente i tifosi dei T’Wolves lo ricorderanno sempre come uno dei giocatori più forti che abbiano mai vestito quella casacca, ma a Boston? Senza i Big Three, senza Doc Rivers, senza quella rivalità contro i Lakers che li ha accompagnati nella storia del gioco, ma soprattutto senza quell’anello vinto nel 2008, sarebbe comunque un’icona?

Forse sì, forse no, l’attrazione mistica che l’essere umano ha per i what if  (a proposito) risiede soprattutto nell’insondabilità del “come sarebbero andate le cose se…”, ma di certo per essere arrivati a dubitare della legacy di Lebron James fino a quel Cleveland is for you dello scorso giugno, nella memoria collettiva vincere qualcosa dovrà pur contare.

I don’t see a difference between me and Joakim [Noah]. If anything, I feel Joakim has more crazy moments than I do—but his is passion, mine are an attitude or anger problems.

Gioca molto sul concetto di vittoria. Da quando è stato scelto al draft del 2010 con la quinta scelta dai Sacramento Kings la squadra ha cambiato proprietà, General Manager, arena, staff, giocatori, divise, ma non si è mai avvicinata ai playoff. Il fatto che la colpa di un fallimento spesso ricada sul giocatore più rappresentativo non è una novità, tuttavia bisognerebbe analizzare quanto quel giocatore ha veramente inciso nelle sconfitte e quanto invece tutto il resto.

Cousins è stato eletto per due anni di fila nell’All-NBA second team, ha rappresentato per due volte consecutive l’Ovest alla partita delle Stelle, ha vinto l’oro ai mondiali nel 2014 con Team USA, mentre quest’estate a Rio si è portato a casa quello olimpico. Durante la sua carriera in NBA ha sempre migliorato le sue statistiche e quest’anno sta viaggiando a 26,6 punti e 8,6 rimbalzi a partita. Vero, così come è altrettanto vero che il suo apporto non si limita al lavoro sotto le plance ma anche ad una dimensione più perimetrale, tentando 3,2 tiri da 3 a partita convertiti con il 31%. Non è Steph Curry ma insomma per un ragazzo di 122 chili ci può stare.

Quello del gioco perimetrale è un aspetto su cui ha lavorato molto durante l’estate 2015, quando le sue quotazioni erano un po’ in ribasso per la tendenza a spaziare male il campo e ad essere un giocatore troppo abituato ad avere la palla in mano. Oggi prende soltanto il 5,5% dei suoi tiri dopo aver tenuto il pallone per più di sei secondi, dato inferiore a gente come Brook Lopez, Drummond, Valanciunas, Pau Gasol. Ha cercato di rendere moderno il suo gioco in relazione anche alla corrente che soffia nella Lega, sempre più orientata ad aprire il campo.

Non bisogna dimenticare però che sulla panchina dei Kings siede il profeta del Grit and Grind. Dave Joerger ha lasciato Memphis per portare in California la sua pallacanestro, che prevede ritmi molto compassati (i Kings hanno il terz’ultimo Pace della lega), grande applicazione difensiva e un uso moderato del tiro pesante.

Cousins è il giocatore che in squadra si prende più triple a partita dopo Farmar e Barnes. Il 44,3% dei punti segnati dalla squadra provengono dal pitturato e il 91,3% dei tiri da tre sono tentati beneficiando di un’assistenza. Insomma la conclusione da oltre l’arco si prova soltanto se conseguente ad una buona circolazione di palla. Anche in un contesto così strutturato Cousins riesce ad emergere come il miglior centro al mondo nella metà campo offensiva, o comunque uno dei primi due.

In effetti Anthony Davis segna di più, ma dalla sua ha una situazione anarchica in quel di New Orleans che lo porta a tentare 21,1 tiri a partita (solo DeRozan e Westbrook tirano di più) contro i 18,2 di Cousins. Inoltre l’affidabilità che Boogie si sta costruendo dal perimetro è migliore di quella del monociglio, che pur tentando meno conclusioni da 3 le converte con un misero 18%. Anche i 2,9 assist per game rendono Boogie più completo di AD, e nell’attesa che i KAT e gli Embiid si prendano la scena definitivamente, si può affermare che attualmente sono loro due a prendersi la scena, e non si tratta di fenomeni passeggeri ma dei due migliori interpreti del ruolo di 5 nella metà campo offensiva. 

Lo scorso anno DMC ha chiuso  la stagione con 24,1 punti 11,5 rimbalzi 3,3 assist 1,6 rubate e 1,4 stoppate a partita, cifre alle quali Davis (anche a causa degli infortuni) ha dovuto pagare dazio (ha fatto meglio soltanto nei recuperi e nelle stoppate). Negli ultimi quarant’anni questi numeri li hanno messi insieme soltanto degli Hall of Famer come McAdoo, Robinson, Olajuwon, Abdul-Jabbar e Garnett (in questo caso futuro HoF). Non stiamo parlando di un buon giocatore, ma di un atleta di primissimo livello incapace di portare la sua squadra al successo.

In campo sono in un modo, fuori da esso sono totalmente diverso.[…] Avete il ragazzo in campo, che cerca di staccarti la tua maledetta testa, provando a fare qualsiasi cosa per vincere. Fuori dal campo sono freddo. Questo fondamentalmente è l’unico modo: sono freddo, rilassato.

Qui già cominceremmo a pensare ad un falso qualora sull’intervista ci fosse l’autografo del Mamba. Cousins è pronto a fare di tutto per vincere ma alla sirena cambia mentalità. È come se l’applicazione mentale necessaria al raggiungimento dell’obiettivo sia alimentata da un carburante limitato. È necessario staccare la spina ogni volta che il contesto lo permetta, ma quello che realmente cambia la prospettiva di un giocatore è quando questa necessità di ricarburare non si nota più. Il giornalista gli chiede anche come si riesca a mantenere l’amore del gioco quando si continua a perdere.

I love doing this. I eat, sleep and shit basketball.

No, direi che Bryant non è. Tuttavia è come se all’interno della psiche di Cousins alberghino due anime, in continua lotta tra loro. Certo questa dicotomia è presente in ognuno di noi, ma in base alle situazioni tendiamo a far prevalere l’una o l’altra, l’apollineo o il dionisiaco. Ecco lui no. Segna 56 punti (career high) e il giorno dopo dichiara ingiusto il fatto che i quintetti dell’All-Star Game fossero decisi dai tifosi. Nella seconda partita della nuova stagione scrive 37+16 contro gli Spurs e due giorni dopo contro i T’Wolves lancia il paradenti sugli spalti rimediando una multa da 25.000$. Una fonte anonima racconta che qualora dovesse affidare un buzzer-beater a qualcuno lo affiderebbe sicuramente a Cousins, definendolo un ragazzo che odia perdere. Se poi però mangia, dorme e shit basketball, allora qualcosa non torna.

“I’m not going to change myself—I am who I am. I’m very comfortable in my skin. Like I said, everything changes with winning.”.

Ancora una volta adduce la vittoria come unico ostacolo alla piena realizzazione delle sue qualità per chi guarda. Forse cerca anche di convincere sé stesso, magari nel prendere una decisione più drastica che lo porterebbe a lasciare i Kings. Il suo contratto andrà in scadenza quest’estate ma la sua famiglia vive a Sacramento, lui vorrebbe vedere la sua divisa penzolante dai gonfaloni del Golden 1 Center, e sembrerebbe che il rapporto con Joerger sia costruttivo e limitato alle questioni cestistiche. Anche quest’anno però l’obiettivo playoff sembra un risultato fuori portata e se questa assonanza tra vittoria e reputazione è veramente così intensa forse è il momento di guardarsi un po’ intorno.

Le notizie su una sua possibile trade rimbalzano tra i media, il vero problema risiede nel capire ciò che lasci e ciò che prendi. E attualmente non c’è la fila per prendere DMC. L’antagonista della storia è un ruolo scomodo, specialmente se questo non vuole essere dipinto come tale ma viene penalizzato da una moltitudine di fattori che lo condizionano anche quando si scende nel discorso tecnico. Dove obiettivamente la spiega.

Cousins non è il miglior lungo al mondo per distacco (come afferma lui), ce ne sono diversi più bravi, ma la maggior parte pagano dazio. Il fatto che nessuna franchigia abbia mai formalmente richiesto informazioni ai Kings per imbastire uno scambio non fa che avvalorare la tesi che nell’ambiente non è un giocatore apprezzato.

Che sia tutta una maschera? La fama da bad boy, il conflitto con George Karl, i rapporti mai del tutto sereni con i compagni. Forse Cousins cerca di palesare indifferenza verso l’attuale situazione dei Kings ma dentro di sé ribolle per una squadra incapace di raggiungere standard accettabili. La verità la sa soltanto lui. Su una cosa però ha sicuramente ragione. Parlare di legacy senza essere mai andato ai playoff non è possibile; ogni anno nuovi giocatori entrano nella lega e ogni anno si migliorano per spodestare i vertici stabiliti. Arrivato a 26 anni Boogie ha iniziato a fare i conti con il proprio corpo: ha dovuto cambiare le abitudini alimentari e passa molto più tempo in palestra.

È difficile accettare che un elegante interprete del gioco come Cousins possa finire nel dimenticatoio non appena appenderà gli scarpini al chiodo. Devono ancora capitare tante cose nella vita di DMC, talmente tante che dare un giudizio adesso rischia di compromettere la valutazione di uno dei centri più moderni del XXI secolo, un ragazzo a cui il basket inizialmente non piaceva per niente. Poi ha iniziato ad amarlo e forse il punto sta tutto lì: non ha ancora raggiunto quell’estasi catartica che spinge un giocatore a cambiare il proprio sistema nervoso tanto da renderlo maledettamente simile ad una palla da basket. A quel punto forse si potrà parlare di legacy.

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Pubblicato da
Paolo Stradaioli

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