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The Dark Side of the Game 3/8: Micheal Ray Richardson

25 febbraio, anno di grazia neanche troppo 1986. All’aeroporto JFK di Nuova York sono appena sbarcati i New Jersey Nets, di ritorno da una serie di partite on the road. Ad attenderli, o meglio, ad attendere uno di loro in particolare, c’è Horace Balner, il Senior Vice President della Security NBA. La faccia non è quella delle grandi occasioni e l’atteso sa già che qualcosa è andato storto. In contemporanea, l’allora Commissario David Stern tiene all’Olympic Tower una conferenza stampa d’eccezione, in cui contrito comunica la triste notizia che il 4 volte All-Star Micheal Richardson è ufficialmente il primo giocatore espulso a vita dalla Lega.

Siamo di fronte ad uno dei momenti più bassi ed oscuri nella storia della NBA. Un evento capovolgente che comporta l’inevitabile riscrittura del regolamento, con relativa aggiunta della norma secondo cui: qualora un atleta sia trovato positivo al test antidroga per tre volte, sarà soggetto allo stesso trattamento di cui sopra.

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Il protagonista, l’anti-eroe di questa vicenda, si chiama Micheal Ray Richardson e vede la luce in un giorno d’aprile del 1955 a Lubbock, nello Stato della Stella Solitaria; dove nonostante da qualche anno fossero avvezzi ad avvistamenti extraterresti, uno come Ray non era ancora arrivato. E’ il primo di una nidiata da sei elementi, alla fine della quale il padre decide che sia sufficiente così e scappa da casa. Di conseguenza, Richardson a 8 anni è già un uomo dal carattere forte, temprato dalla povertà e tende a rassicurare i propri familiari dicendo che penserà a tutto lui, che farà i soldi con la pallacanestro, così da garantire a madre e sorelle un futuro migliore. L’assenza di una figura paterna non avrà però solo risvolti positivi sul carattere del buon Ray, ma gli instillerà anche quel viscerale bisogno di avere al proprio fianco una figura su cui poter contare sempre ed una scomoda incapacità di giudicare la bontà delle compagnie. Ma a questo ci arriveremo con calma…

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Sugar Ray, perché se eri nato negli anni ’50 e di nome facevi Ray, il tuo nickname non poteva essere che Sugar, come il pugile attore della versione boxata del Massacro di San Valentino contro Raging Bull LaMotta, andò a finire nell’Università del Montana. A Lubbock Richardson era poco più che uno sconosciuto, ma al college, Sugar Ray diventa ben presto una celebrità, alla quale basta schioccare le dita per ottenere ciò che vuole. Ad indirizzarlo attraverso questo nuovo mondo, Richardson trova coach Jud Heathcote, il primo di una serie di “padri fittizi” a cui Micheal si legherà morbosamente. Al secondo anno di college però, coach Jud accetta di trasferirsi nel Michigan per allenare gli Spartans, dove si vocifera giochi un playmaker alto 2,06 con il quale si possa vincere qualcosina di più che in Montana e con cui effettivamente Jud vincerà la NCAA nel 1979. Ray è ferito profondamente dalla scelta del proprio allenatore, tanto da irrompere nel suo ufficio per domandare spiegazioni, a lui che era stato come un padre per Micheal. La risposta di Heathcote è lapidaria, ma se possibile quella di Richardson lo è ancora di più:

«Ray, non sono tuo padre. Ti ho allenato e portato in classe, ma questo non è quello che fa un padre»

«Coach, io non ho mai avuto un padre»

Nonostante tutto, il Montana è un luogo dove i più audaci si giocano l’ultima fetta d’apple pie in una mano a ruba mazzo il Giorno del Ringraziamento. Sugar Ray riesce facilmente a tenersi lontano dai guai, per concentrarsi esclusivamente sulla pallacanestro. Alto, fisico scolpito nel bronzo e con doti naturali da point guard di razza, Richardson viene scelto al Draft del 1978 dai New York Knickerbockers, con la quarta scelta assoluta. Due posizioni più in basso i Celtics sceglieranno un giovane biondino dell’Indiana, certo Larry Bird…

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I Knicks di quegli anni sono in mano ad Earl Monroe (che forse vi dirà qualcosa per essere soprannominato “Black Jesus”) guidati dal pino da Willis Reed, uno degli eroi protagonisti del titolo 1970 e 1973 e figura che più di tutti ha spinto per avere Richardson nella Mela. Il coach stravede per Ray ed in una manciata di partite il giovane sconosciuto dal Texas diventa una celebrità anche nella metropoli più vivace del mondo. Tanto che al Garden non tarda ad innalzarsi il coro:

Walt is back! The New Walt!

Walt sta per Walter Frazier, che nella New York di quegli anni è la seconda entità più venerata della città, secondo solo a Frank Sinatra, reduce dall’appena edito “Start spreadin’ the news, I’m leavin’ today…” e vabbè il resto lo conoscete.

Dopo appena 14 partite però, Willis Reed viene licenziato con gli encomi della dirigenza per i servizi resi in patria. A rimpiazzarlo arriva Red Holzman, quello che ha allenato il vero Frazier. Ad un coach vecchio stampo come Holzman non va a genio che un rookie disponga di troppi minuti in campo e così relega Ray all’ultimo posto della panchina, dichiarando che:

questa cosa lo aiuterà

Effettivamente, il coach 2 volte campione NBA ci ha visto giusto. In estate Ray presta anima e corpo alla pallacanestro, durante un ritiro quasi spirituale nel suo Texas. Ritorna al Garden per la stagione 1979-80 ed adesso i Knickerbockers sono i suoi. Al secondo anno guida la classifica di assist (10.3 per allacciata) e palle rubate (3.2). Diventa All-Star e non è più solo la Grande Mela ad osannarlo, ma l’intera NBA.

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Ray è entusiasta di dare spettacolo e, con quell’esuberanza genuina tipica dei giovani afroamericani dagli Stati del Sud, conquista le folle anche fuori dal campo. E’ il Re di New York. Ed il sovrano di 24 anni non ha alcuna intenzione di lasciarsi sfuggire l’opportunità di godere del suo regno. Ma New York non è il Montana, né tanto meno Lubbock e questa volta Sugar Ray non ha il paziente coach Heathcote a fargli da mentore. In un’atmosfera da romanzo alla F.S.Fitzgerald, Richardson comincia a non perdersi neanche uno degli appuntamenti notturni offerti dalla Mela.

”Mike! Mike! Non riesco a dormire, andiamo in città. Conosco un posto dove c’è una festa pazzesca.” Telefonate nel cuore della notte come questa erano frequenti da parte sua.

Ha dichiarato l’ex compagno di squadra Mike Glenn.

Nel 1981, Richardson comincia la sua terza stagione NBA e riesce a portare i Knicks ai Playoffs. Tutti lo voglio. Pensate che riesce a firmare un contratto con due marche differenti di scarpe e a farsi pagare da entrambe prima che si scopra il conflitto d’interessi. Ma quando i suoi migliori amici vengono scambiati, per Sugar Ray ricomincia la ricerca di nuove figure a cui appoggiarsi. Prima i viveur della nightlife, poi le belle donne ed infine La bella donna per eccellenza, quella vestita di bianco, quella che se provi una volta non puoi più farne a meno.

Sugar Ray si approccia alla cocaina con il tipico atteggiamento: lo faccio tanto per fare, poi smetto quando voglio. Come spesso invece accade, Richardson non smette, anzi aumenta, fino a che il suo fisico inizia ad accusare il colpo ed il nuovo coach Hubie Brown sollecita la dirigenza a scambiarlo.

Richardson fa le valigie diretto dall’altra parte della Stato, in California, dove i Golden State Warriors dimostrano di credere ancora in questo talento cristallino che ha subito solo una lieve sbandata. Ma di nuovo solo e senza guida, Richardson non ci mette molto a conoscere le persone sbagliate anche nella Baia ed il suo problema con la droga diventa un affare molto serio. Dopo soli 3 mesi, i Golden State sono pronti a cederlo di nuovo e a qualsiasi prezzo, ma gli acquirenti sulla piazza per Ray sembrano essersi assottigliati e non di poco.

E’ in momenti come questi però che il Destino sceglie di dare il meglio di sé. Sugar finisce nell’unico posto sulla terra in cui non immaginava avrebbe rimesso piede: New York City, sponda Nets.

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Nei New Jersey di quegli anni si gioca “the right way” ai comandi di coach Larry Brown. Brown, il quale nel tempo mostrerà una sadica predilezione per quei giocatori dal passato difficile, con cui sempre instaurerà un rapporto di amore-odio che culminerà con Iverson, vuole credere ancora in Richardson; nonostante sia ormai un giocatore eroso dalla droga e protagonista di vicende inammissibili per una stella NBA. Il compagno Tim Bassett ha raccontato infatti di avere incontrato una mattina Ray per le strade di New York, solo ed ondivago. Alla sollecitazione del compagno di seguirlo in palestra, Micheal avrebbe risposto di preferire un’altra freebase rispetto all’arancia. In quell’occasione, Bassett riuscì a persuadere l’amico ad andare all’allenamento, ma senza estirpare il problema alla radice.

A questo punto della storia coach Brown, che è l’altra grande figura paterna nella vita di Richardson, decide di mandarlo in una clinica del New Jersey per disintossicarsi. Sugar Ray torna in campo, ma il solito Destino beffardo ha deciso di non dare tregua ai suoi travagli. Coach Larry Brown è da poco tornato ad allenare al college e Micheal si ritrova per la terza volta abbandonato da quello che sarebbe dovuto essere il suo agognato genitore.

Sugar Ray ci ricasca prestissimo e comincia un andirivieni continuo per tutte le cliniche intensive dello Stato di New York, fino a quando arriva a toccare il fondo della propria vita. Chiuso in una stanza di hotel, in compagnia della sola donna che non lo ha mai lasciato solo e a cui lui per primo avrebbe dovuto dire addio, sta con gli occhi fissi sulle insegne luminose dell’edificio di fronte: il Madison Square Garden.

Siamo negli anni in cui muore il compianto membro dei Blues Brothers John Belushi, quando tutto il mondo Americano è più sensibile ai problemi correlati alla droga. I Nets perciò non possono più tollerare la sua condotta. Lo tagliano, anche se con modalità considerate illegali dalla NBA di quel tempo e perciò formalmente Sugar Ray rimane un giocatore della Lega. Faccia a faccia con il punto di non ritorno, Richardson fa quello sforzo di volontà troppo a lungo evitato e torna in clinica di sua spontanea iniziativa. Si ripulisce completamente, questa volta per davvero, ed in una conferenza stampa si scusa con tutti coloro a cui, negli ultimi anni, ha mancato di rispetto con la sua esistenza sopra le righe, in tutti i sensi.

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Nella stagione 1983, Sugar Ray sembra essere tornato il giocatore di 5 anni prima. La via crucis percorsa attraverso gli istituti di recupero porta con sé i Playoffs ed una poster-dunk  sul futuro campione di quell’anno Julius Erving. Nel 1984-85, Micheal torna ad essere un All-Star e riceve il premio di Comeback Player of the Year (più tardi rinominato come lo conosciamo oggi: Most Improved Player Award). Sembra finalmente giunta a compimento quella parabola ascendente che voleva Richardson fra le stelle più fulgide della Lega. Isahia Thomas, che nel tempo sfrutterà qualsiasi occasione per denigrare Jordan e Bird, dirà che l’unico giocatore che lo abbia mai impensierito veramente fosse proprio Sugar Ray.

Ma i demoni del passato non si sono estinti. Stanno solo nascosti, acquattati in attesa che si presenti l’occasione giusta per tornare all’assalto. Quell’occasione effettivamente si presenta ed è il giorno del party di Natale in casa Nets. Tutti non hanno occhi che per Ray, di nuovo un leader, di nuovo un campione, di nuovo l’eroe di New York anche se dall’altra sponda. Vuole festeggiare con lui anche il compagno Darryl Dawkins, il quale lo coinvolge in un’avventura morosa con qualche cheerleaders Nets. Dawkins va a colpo sicuro ed abborda una biondina piacente, poi strizza l’occhio a Sugar dicendogli:

ci si vede domani all’allenamento

A quell’allenamento Richardson non andrà mai. Perché in compagnia delle cheerleaders, Ray ha ritrovato anche una vecchia conoscenza, alle cui avance non riesce proprio a tirarsi indietro. Sparisce per giorni interi, sollevando un polverone mediatico intorno a sé tale da smobilitare anche la FBI. Tutti sanno e non vogliono sapere che fine abbia fatto Ray ed è con questi preamboli che giungiamo al fatto con cui abbiamo aperto la nostra storia.

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Richardson nella Lega effettivamente non giocherà mai più. Ma in una giornata del 1997, Sugar Ray rientra in un palazzetto NBA, precisamente allo United Center di Chicago, per assistere ad una partita dei Bulls di Jordan. Sugli spalti quel giorno c’è anche David Stern e Richardson lo avvicina, non per minacciarlo o che altro, ma per dirgli grazie. Sì, grazie.

Quell’uomo aveva salvato la mia vita

Dirà in futuro Micheal, il quale siederà al fianco del Commissario per godersi quella gara, congedandosi per sempre dal mondo NBA come un uomo che ha pagato caro i propri errori e che, in un modo o nell’altro, ha cambiato per sempre le regole del Gioco.

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Pubblicato da
Francesco Zuppiroli

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