Houston, avevamo un problema
Nella città della NASA quest’anno si respira aria sia vecchia che nuova. L’estate dei come back ha portato Superman, al secolo Dwight Howard, nella nativa Atlanta alla ricerca, non di suo figlio, come un novello Rick Grimes, ma di una rinascita cestistica in un contesto completamente diverso da quelli che lo hanno visto naufragare con le canotte dei Lakers prima e dei Rockets poi. In contemporanea alla partenza di DH12 a Houston è atterrato una vecchia conoscenza del basket italiano e americano, quel Mike D’Antoni che aveva fatto innamorare parecchi cuori con il suo “7 seconds or less” a Phoenix ma che non era mai riuscito ad arrivare al successo, fermandosi sempre ad un passo dal traguardo.
Arsenio Lupin, soprannome ottenuto durante gli anni milanesi, a Houston, ha il difficile compito di coniugare la sua filosofia di attacco veloce ad una squadra che ha vissuto di isolamenti nel regno McHale; iso per la sua stella polare, James Harden Jr. Di difesa, fino all’anno scorso, neanche a parlarne. Fin dal primo giorno l’ex Milano ha reso chiara la sua idea, mettere completamente in mano ad Harden la squadra, come se i ripetuti pick&roll e gli isolamenti del Barba non fossero sufficienti, facendolo diventare la point guard.
Questa folle, pazza, idea di far fare, sportivamente parlando, l’amore a James Harden con il ruolo di giocatore al servizio dei compagni sta dando dei risultati che definire inaspettati é un eufemismo. 30,6 punti, 7,8 rimbalzi, 13 assist A PARTITA e Houston al 4° posto della Western Conference con lo stesso record degli Spurs, battuti nell’ultimo confronto grazie ad una tripla doppia servita dallo chef.
I dubbi sulla tenuta del sistema d’antoniano sono legittimi, è dura pensare che Harden possa tenere una qualità del gioco così alta per 82 partite, altrimenti non ci sarebbe nemmeno da aprire il discorso sulla stella Michelin, pardon, sull’MVP di quest’anno.
Grazie al nuovo coach uno dei maggiori giocatori di culto dell’NBA attuale sembra avere raggiunto una maturazione totale, raggiungendo livelli che in pochi avrebbero prospettato.
Harden (credit: Cary Edmondson-USA TODAY Sports)
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Asma
Come tanti giocatori NBA James Harden Jr. cresce in un contesto difficile, non tra i più difficili, ma caratterizzato da problemi che avrebbero potuto impedire ai nostri palati di guastare le ricette che somministra agli avversari tutte le sere. Nasce il 26 agosto 1989 a Los Angeles e vivendo la propria adolescenza da fan sfegatato della UCLA nel sobborgo di Rancho Dominguez, con la mamma Monja Willis e il fratellastro Akili Roberson. Probabilmente venite a conoscenza ora che James porta l’appellativo Jr. visto che il padre, omonimo, lo ha frequentato poco o nulla, dato che ebbe problemi con l’alcool dopo un periodo di servizio militare e finì in cella, abbandonando la madre e il piccolo Harden e lui non porta con piacere l’appellativo che gli ricorda il padre. Inoltre James soffre fin da piccolo di forti attacchi d’asma, che gli impediscono di sviluppare appieno il proprio potenziale cestistico fino a quando viene spedito da mamma Monja all’Artesia High School di Lakewood, a 15 minuti di autobus dal Rancho, per evitargli un futuro di furtarelli per sopravvivere.
All’Artesia, come detto, supera i problemi respiratori e, letteralmente, domina, vincendo per due anni consecutivi il titolo statale e mostrando un QI cestistico di molto superiore alla media, ispirandosi ad un altro mancino che in NBA stava facendo cose discrete, il buon Manu Ginobili.
Crescita
Nel 2007 accetta la chiamata di Arizona State dove disputa due anni in costante miglioramento sia dal punto di vista delle statistiche sia dal punto di vista delle scelte e delle responsabilità prese. I risultati della squadra sono però deludenti e il rischio per il giovane Barba di venire sottovalutato al draft 2009 non é basso, anche se sicuro di finire in Lotteria.
Ma dicevamo dei due anni di crescita. E’ proprio nel secondo anno di Arizona che inizia a nascere il culto del Barba con la comparsa della stessa, come segno distintivo e di identificazione per i tifosi di una squadra che non è proprio UCLA e che come ultima apparizione al Torneo è ferma al secondo anno della guardia losangelina, e di quasi 20 punti per allacciata di scarpa.
Il nostro eroe si afferma come un prospetto interessantissimo anche per personalità e carisma e riesce, a sorpresa, a strappare un triennale garantito come terza scelta assoluta dalla neonata OKC, dietro a Blake Griffin e Hasheem Thabeet (sic!), dopo un colloquio con il gm Sam Presti, che si rivela particolarmente colpito dalle capacità del giovane Harden.
James Harden, credits to Houston Chronicle
Decollo
I primi due anni di OKC li vive come un periodo di ambientamento con una costante crescita, segno distintivo a quanto pare, da sesto uomo sempre piu’ di lusso, fino all’annata 2011-2012, dove esplode definitivamente il talento mancino. Sixth Man of the Year, miglior tiratore della lega dai 7,25m, devastante per tutta la stagione tanto da causare un raptus a Metta World Peace, aka Ron Artest, che gli rifila una gomitata incomprensibile dopo una schiacciata e lo costringe ad uno stop forzato. Nelle finali di Conference vince un duello strepitoso contro la musa Ginobili regalando le prime Finals della loro storia ai Thunder. Non riesce a raggiungere l’anello perché sulla sua strada si mette il Re ma ormai é diventato a tutti gli effetti una superstar e il ruolo da comprimario gli va stretto. Presti decide che tra lui e Ibaka é il piu’ sacrificabile, vista la presenza di Russel e KD, e non riesce ad offrirgli il massimo salariale visti i recenti rinnovi delle altre stelle. Nel 2012 JH13 firma un quinquiennale da 80 milioni di dollari volando a Houston e iniziando quel percorso che lo porta oggi ad essere uno degli uomini copertina dell’intera lega.
In questo primo scorcio di stagione abbiamo visto come a 27 anni Harden sia ancora in grado di stupirci con una crescita che, forse, non terminerà mai. Se fosse così a Houston sarebbero pronti ad affidarsi alle magie dello chef per decollare e raggiungere lo spazio.
Are you ready? Three, two, one, ….. Fear the Beard.
Alberto Mapelli