vìncere v. tr. [lat. vĭncĕre] (pres. io vinco, tu vinci, ecc.; pass. rem. vinsi, vincésti, ecc.; part. Pass.vinto).
Sopraffare l’avversario in armi, in guerra o in uno scontro qualsiasi, costringendolo a cedere;Risultare superiore in un concorso, in una gara di abilità, in una competizione sportiva.
Nella storia dello sport professionistico, americano e non, si è spesso abusato di un termine ben preciso, dai connotati netti e definiti. Sovrautilizzato, attribuito magari ad atleti non proprio meritevoli in tal senso o, per converso, impiegato forse con una certa frettolosità. Eppure, tale parolina, “vincente”, se andiamo ad analizzarla con più attenzione, potrebbe essere associata solo ad una ristretta cerchia di campioni, consci che anche con quest’ultimo vocabolo gli equivoci abbondano non di rado.
Banalmente, per non dire erroneamente, troppe volte si suole definire vincente chi abbia superato l’ultimo ostacolo stagionale, aggiudicandosi il titolo NBA. Limitativo, dovendo escludere dei pezzi da 90 quali Stockton, Malone, Barkley e diversi altri. Su alcuni nomi vige un plebiscito. Michael, Magic, Kareem o Larry sono diventati pietre di paragone con cui misurare ogni giovane leva che calca i parquet statunitensi. Tuttavia, a ben vedere, ci sarebbe qualcuno in grado di farli impallidire. Qualcuno che è stato più abituato alle vittorie, sia a livello meramente numerico sia, ben più importante, dal punto di vista squisitamente tecnico. Qualcuno che è possibile definire come il vincente per antonomasia, forte di 11 anelli in 13 stagioni da giocatore. Qualcuno come Bill Russell.
Giusto qualche titolo sul soffitto del Garden; credits to: nba.com via Google
La storia di William Felton Russell, non può che essere associata al vocabolo di cui abbiamo disquisito. Non potrebbe essere altrimenti, con un palmares del genere. Non solo per la quantità di affermazioni guadagnate in una carriera leggendaria, ma anche per la qualità con cui il centro dei Celtics sapeva stare in campo: mai accentratore, passatore, sempre pronto ad aiutare, anima della difesa ed epitome del gioco di squadra. Russell non ha mai segnato 20 punti di media in una stagione, tirava anche maluccio dal campo, anche ai liberi il meteo segnava brutto tempo. Solo 3 volte è stato primo quintetto NBA, decisamente meno rispetto ai 5 MVP, un’anomalia statistica che serve a spiegare cosa abbia significato Bill Russell, per Boston e per il basket in generale.
Uomo dalla risata contagiosa, in campo si trasformava in un leone indomabile. Fa specie pensare come Bill avesse un carattere spigoloso, non solo con giocatori delle altre squadre, ma anche con qualche compagno e gli stessi tifosi. Facilmente comprensibile date le origini di Russell, che visse un personalissimo scontro con il razzismo. Nato nel profondo Sud, a Monroe in Louisiana, William si trovò bloccato da quella tanto immaginaria quanto ben percepibile barriera che divideva le persone di colore dai bianchi. Nota è la storia di Russell senior che, fermo ad una stazione di rifornimento, nonostante la precedenza, fu costretto ad aspettare che prima fossero serviti i “non neri”, venendo anche minacciato con un fucile.
Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, la famiglia decise di trasferirsi ad Oakland. A 12 anni Bill perse l’amata madre, Katie. Fu in questo periodo che Russell ebbe l’incontro galeotto con la pallacanestro, con la quale all’inizio non sembrava aver intrapreso un rapporto di amore ricambiato. Bill era una ragazzino alto, magro ma sgraziato. Ciononostante, riuscì ad evitare il taglio alla McClymonds High School, dove fece intravedere qualche sprazzo del giocatore che sarebbe stato. Nonostante un generale disinteresse dei principali college, Russell riuscì a guadagnarsi la borsa di studio dalla University of San Francisco.
Bill all’epoca del college; credits to: pinterest.com via Google
I Dons erano stati un’ottima squadra. Ma analizzando l’albo d’oro notiamo la presenza di due titoli NCAA, negli anni di grazia 1955 e 1956. Il principale indiziato non poteva che essere Bill Russell, spalleggiato da tal K. C. Jones. Sotto la guida di coach Phil Woolpert, San Francisco si trasformò in una superpotenza del basket collegiale, vincendo anche 55 partite di fila. Russell rivoluzionò il concetto di difesa. Gli avversari rimasero paralizzati, impreparati. In tanti rimasero all’asciutto contro i Dons. Bill chiuse l’esperienza universitaria con una media di 20 punti ed altrettanti rimbalzi. Ma quando non gli venne attribuito un riconoscimento individuale al suo anno da junior, si ripromise che avrebbe sempre anteposto gli allori di squadra.
Dopo aver rifiutato gli Harlem Globetrotters, decise di dichiararsi per il Draft 1956. Un uomo, nello stesso periodo, si scervellava all’interno di un ufficio nel Massachusetts. Faceva l’allenatore. Aveva tante idee meravigliose. Non aveva ottenuto grandi vittorie, ma sapeva che i trionfi erano a portata di mano, mancava solo un ultimo tassello. Quando vide lo smilzo dalla California, capì subito che l’Occasione aveva bussato. Quell’uomo, Red Auerbach, credeva fortissimamente nella propria pallacanestro. Voleva un gioco basato su difesa e contropiede, velocità e movimento di palla. Si era convinto che Bill Russell potesse essere il giocatore giusto. Il proprietario dei Celtics diede il via a complicate operazioni di mercato che finirono col diventare la trade più sbilanciata di tutti i tempi. Ai St. Louis Hawks vennero spediti Ed Macauley e Cliff Hagan, in cambio della possibilità di scegliere, alla posizione numero 2, proprio Russell. Nello stesso Draft Boston riuscì ad assicurarsi anche K.C. Jones, e Tom Heinsohn, che andavano ad aggiungersi a Bob Cousy. La leggenda stava per avere inizio.
Bill, però, aveva prima un altro appuntamento: le Olimpiadi di Melbourne 1956. Team USA demolì ogni resistenza, consegnando a Russell la medaglia d’oro. Il 22 Dicembre dello stesso anno il #6 scendeva per la prima volta sul parquet incrociato del Boston Garden. L’impatto fu immediato. Mai nessuno aveva visto quella ferocia difensiva unita a tanto altruismo. Auerbach sorrise sornione, i Celtics esplosero: chiusero la regular season col miglior record. Russell guidò la Lega in rimbalzi (19,6), ma non vinse il Rookie of the Year, andato a Heinson. L’esordio ai Playoffs contro Syracuse fu da ricordare: 16 pts e 31 carambole, oltre alle stoppate che, per tutta la sua carriera, non furono mai registrate. Boston arrivò alle NBA Finals 1957, opposta proprio agli Hawks di Hagan, Macauley e la stella Bob Pettit. La serie fu combattutissima. In una drammatica gara-7, al secondo overtime, Pettit sbagliò il tiro del possibile terzo supplementare. Punteggio finale 125-123 e, per la prima volta, Celtics campioni del mondo. Bill diventò uno dei soli 4 giocatori di sempre ad aggiudicarsi, in anni consecutivi, titolo NCAA ed NBA.
Russell con coach Auerbach; credits to: boston.sportsthenandnow.com via Google
L’annata seguente i Celtics partirono a razzo. I meccanismi stavano iniziando a diventare automatici. Per Bill arrivarono sia la prima convocazione per l’All Star Game, quanto, il primo MVP. Boston si addentrò fiduciosa nella postseason. Avversari, alle NBA Finals 1958, i soliti St. Louis Hawk. Dopo l’1-1 delle prime due gare, ecco il colpo di scena: Russell si infortuna gravemente alla caviglia e non può più battagliare con Pettit. Prova a stringere i denti e giocare in gara-6 sul dolore, Boston lotta su ogni possesso ma si deve arrendere agli avversari. Bill Russell decise che avrebbe dato ancora di più per i Celtics. Anche perché all’orizzonte, si stagliava minacciosa una figura imponente. Portava un elastico al polso, sembrava letteralmente volare ed indossava un sinistro numero 13. Nella vita di William Felton Russell stava per entrare il più grande amico e avversario della propria esistenza. Stava per arrivare Wilton Norman, per tutti Wilt. Stava per iniziare il Russell vs Chamberlain.
L’anno che segnò la svolta fu il 1959. Russell voleva una rivincita dopo la sconfitta alle Finals dell’anno precedente. Bill migliorò ulteriormente le statistiche e aumentò il suo impatto. Boston volò alle Finals dove c’era la squadra dell’idolo del #6, George Mikan. Per la prima volta, all’ultimo atto della stagione, i bianco-verdi ebbero come avversari i Minneapolis Lakers. La serie non ebbe storia, 4-0 e secondo titolo per Russell e compagni. Quel giorno era iniziata ufficialmente la grande dinastia di e, nel contempo, la rivalità con i Lakers. Nell’autunno dello stesso anno, l’evento che cambiò il panorama NBA. Il 7 novembre al Boston Garden giunsero in visita i Philadelphia Warriors che potevano contare su un centro rookie che aveva già fatto strabuzzare gli occhi in giro per l’America. In quella data avvenne il primo scontro tra Bill Russell e Wilt Chamberlain.
Scontro tra Titani; credits to: si.com via Google
Sarebbe stata un delle più grandi rivalità della storia. Il leitmotiv, tuttavia, era sempre lo stesso: vinceva Bill. Anche sovrastato a livello statistico, a volte per il rotto della cuffia era (quasi) sempre Russell a tornare a casa con la parte buona del referto. I Celtics dominarono la decade, vincendo 8 titoli consecutivi. I Lakers facevano la parte dell’agnello sacrificale all’altezza delle Finals, con i vari Baylor e West a rimandare l’appuntamento con il meritato e agognato anello. Russell e Chamberlain lottavano come due pugili su di un ring. Wilt segnava molto di più dell’avversario, ma Bill era circondato da compagni migliori, e aveva imparato a contenere il diretto avversario, sfiancandolo in difesa. Nacque la Celtics’ Mistyque, con gli avversari che partivano sconfitti, intimoriti dal Garden e convinti della presenza di certe entità che spingevano fuori dal canestro i loro tiri. Il sigaro di Red Auerbach, acceso quando la partita era in ghiaccio, divenne uno dei simboli di quegli anni leggendari, al pari dei conati di vomito di Russell nel prepartita, causati dalla sua estrema tensione agonistica.
Nel 1959-60 i Celtics vinsero, ad un certo punto, anche 17 partite consecutive, una striscia tra le più longeve di sempre. Dopo aver battuto i Warriors di Chamberlain arrivarono alle Finali contro i St. Louis Hawks. Russell fu straordinario, catturò 40 rimbalzi in gara-2 e 35 in gara-7. 4-3 per Boston, terzo anello agli uomini di Auerbach. Nell’annata seguente il capitano dei Celtics vinse il secondo MVP, guidando la squadra al quarto titolo NBA. La squadra non sembrava più arrestabile.
“La partita è finita, andate in pace”; credits to: gettyimages.com via Google
L’annata 1961-62 fu denominata la stagione dei record. Un uomo, tale Oscar Robertson, fu capace di concludere in tripla doppia di media. Un altro, tale Wilt, fece registrare una media di 50 punti, ivi compresi i 100 in una sola notte contro i Knicks. Un altro ancora, soffiò ad entrambi il titolo di MVP. Russell ebbe il definitivo attestato di stima dai colleghi, che riconoscevano in lui l’emblema del giocatore al servizio della squadra. Il cammino nella postseason fu più impervio. Nelle Finali dell’Est, Bill si superò nel contenere Chamberlain, che iniziò a manifestare qualche complesso. In gara-7 solo un tiro di Sam Jones consegnò ai Celtics l’accesso alle Finali, contro gli agguerriti Lakers. Russell prese ancora 40 carambole, 189 nell’intera serie, un record anche oggi. Los Angeles ebbe anche l’opportunità di vincere, ma sbagliò il tiro che avrebbe cambiato i destini delle due franchigie. All’overtime fu Boston a spuntarla per 110 a 107. Per Bill, Red e tutti gli altri si trattava del quinto titolo. Storia.
La stagione seguente il #6 rivinse l’MVP. La supremazia dei Celtics era quasi imbarazzante, anche grazie alle consuete trovate di Auerbach. Sesto titolo, sempre alle spese dei Lakers, andando a vincere la decisiva gara-6 in California. Alla fine della stagione si ritirò Bob Cousy. Dal Draft, però arrivò un rinforzo che avrebbe avuto modo di dare il proprio contributo alla causa, quel John Havlicek che ancora oggi è leader all-time di franchigia per punti e gare giocate.
“It’s mine!”; credits to: bostonglobe.com via Google
Nel 1963-64 Bill fece registrare il proprio record per rimbalzi (24,7). La macchina era diventata perfetta, inappuntabile. Sbarazzatisi delle concorrenti, in Finale ad attendere Boston c’era la Grande Nemesi: Wilt ed i suoi San Francisco Warriors. I due duellarono, dando vita ad una vera e propria battaglia dei giganti, ma Chamberlain era troppo solo, e i bianco-verdi trionfarono in appena 5 gare, per il settimo anello. Nell’annata seguente Bill vinse il suo ultimo MVP, guidando i Celtics a ben 62 vittorie. Nella Finale dell’Est si trovarono innanzi i Philadelphia 76ers, che avevano appena riportato in città Wilt. In gara-7 i Sixers erano sotto di un punto ma col possesso della sfera. In un’azione passata direttamente all’Olimpo della pallacanestro NBA, immortalata dall’epico commento di Johnny Most, Havlicek rubò la rimessa preservando la vittoria. L’ottavo titolo arrivò in sole 5 gare.
Prima dell’inizio della stagione ’65-66, la Lega fu scossa da un annuncio clamoroso. Red Auerbach si sarebbe ritirato al termine di quell’annata. I Celtics decisero che non avrebbero fatto uscire da sconfitto il proprio leggendario coach. Wilt ed i 76ers uscirono nuovamente di scena in postseason. Alle Finali furono i Los Angeles Lakers a cercare la tanto agognata vittoria. Dopo gara-2, Auerbach annunciò che il futuro allenatore sarebbe stato proprio Russell. Una decisione inaspettata, che lo avrebbe reso il primo coach afroamericano della Lega. Boston si portò sul 3-1, ma L.A. rimontò rimandando il tutto all’ennesima gara-7. Bill fu straordinario, con 25 punti e 32 rimbalzi nell’ultimo incontro. I Lakers cercarono una rimonta, ma i Celtics riuscirono a mantenere un vantaggio di due lunghezze, vincendo la partita per 95 a 93. Si trattava del nono titolo, l’ottavo consecutivo, un Everest da scalare a mani nude.
credits to: si.com via Google
Andata in archivio l’epoca Auerbach, c’era molta curiosità sull’esperimento di Russell come allenatore-giocatore. In molti avevano dubbi sull’effettiva capacità del #6 di sdoppiarsi in questa nuova veste. Bill però ci riuscì. In più, era conscio dell’importanza sociale della sua nomina a head coach. uno specchio del cambiamento dei tempi. Un giorno venne da ospite durante una gara il nonno di Russell, che venne introdotto negli spogliatoi. A vedere bianchi e neri che facevano la doccia nello stesso posto, parlando e convivendo senza problemi di sorta, l’uomo scoppiò in lacrime. Sul campo, però le cose non andarono per il verso giusto. Philadelphia riuscì a battere Boston, ponendo fine all’egemonia bianco-verde. I Celtics, senza Auerbach, avevano fallito. Sarebbe riuscito Russell a far ricredere tutti quanti riguardo alle possibilità di un gruppo che lottava anche contro il Tempo?
Boston appariva sul viale del tramonto. Normale, considerando che era passato ormai un decennio dalla prima apparizione alle Finali, con diversi giocatori che si erano ritirati. Lo stesso Bill, aveva superato la trentina e mostrava qualche timido segnale di declino. I Sixers speravano di poter prendere il testimone dalle mani dei Celtics ed instaurare una dinastia fondata sulle possenti braccia di Wilt Chamberlain.
Philadelphia chiuse col miglior record nella stagione 1967-68, garantendosi il vantaggio del fattore campo nella postseason. Ancora una volta, in Finale ad Est, i due grandi rivali si trovarono opposti per l’ennesimo confronto. Boston vinse gara-1, in un ambiente shockato dalla notizia del”assassinio di Martin Luther King. I 76ers reagirono, vincendo le successive 3 partite. Incredibilmente, il vento girò. I Celtics con le unghie e con i denti rimandarono l’esito a gara-7. Russell fu grandissimo nel contenere Chamberlain. Boston riuscì a conservare un vantaggio minimo, diventando la prima squadra di sempre a ribaltare un 1-3 nei Playoffs. Nelle Finali ecco i soliti Los Angeles Lakers di West e Baylor a fare da sparring partner ai Celtics. Dopo una memorabile gara-5, i bianco-verdi chiusero la serie nel successivo incontro, vincendo il decimo anello NBA in assoluto e consegnando, di fatto, il primo da allenatore a Bill Russell. Tutti i dubbi erano stati spazzati via, per sempre.
Scontro tra Titani… ancora!; credits to: nobodytouchesjordan.blogspot.com via Google
L’annata 1968-69 fu quella della “Last Dance”. Boston era sfinita e sembrava vuoto anche il serbatoio delle motivazioni. Lo stesso Russell appariva diverso più acciaccato e meno affamato anche se fu comunque capace di conquistare 19,3 rimbalzi ad incontro. I Celtics chiusero col peggior record da quando Bill era tra le loro fila. Ma ancora una volta nei Playoffs la squadra si trasformò, superando le proprie avversarie e garantendosi un improbabile viaggio alle Finals contro i Lakers. Los Angeles, da quell’anno, poteva contare su Wilt, acquisito in estate dai 76ers. Il pronostico sembrava davvero a senso unico, a maggior ragione dopo il doppio vantaggio dei californiani. Un buzzer beater di Sam Jones consentì a Boston di far venire qualche dubbio in più agli avversari, permettendo alla propria squadra di rimanere viva. Per l’ennesima volta si giunse a gara-7. Il proprietario dei Lakers, Jack Kent Cooke, fece distribuire un volantino con il programma che si sarebbe tenuto dopo la premiazione della propria squadra, facendo appendere dei palloncini al soffitto del palazzetto. Era la suprema motivazione, un invito a battersi alla morte contro tutto e tutti. I Celtics partirono a razzo, ma Los Angeles, guidata da un mostruoso Jerry West, recuperò. Chamberlain fu costretto ad uscire per un problema al ginocchio e quando chiese al proprio allenatore di rientrare, si vide opposto un secco no. Don Nelson infilò il tiro più importante, che consegnò a Bill ed a Boston l’undicesimo anello in tredici anni. In più Russell chiudeva una carriera leggendaria con un record altrettanto difficile da dimenticare: dieci gare-7 in carriera ed altrettante vittorie.
Bill era quasi incredulo, stava iniziando a realizzare cosa aveva significato quella splendida e quasi immacolata cavalcata. Aveva stoppato una cifra quasi folle di tiri avversari, catturato oltre 21mila rimbalzi ed inciso il proprio nome nel pantheon di questo sport, alzando in maniera irraggiungibile l’asticella della definizione del termine “vincente”. Quasi in silenzio ma tra le polemiche, Russell si ritirò e dimise da allenatore, senza preavviso o conferenze stampa. Boston l’anno dopo fallì l’accesso ai Playoffs.
Negli anni che seguenti i rapporti con stampa e tifosi si inasprirono. Russell non volle presenziare né alla cerimonia di ritiro della propria maglia, né a quella dell’introduzione nella Hall of Fame. Non riusciva a farseli andare a genio. Anche con Chamberlain ci furono momenti di tensione. Bill ci era rimasto male per quell’uscita dal campo nella Finale del’69, voleva sul parquet il giusto epilogo di quella sfida che aveva contribuito a salvare la NBA. I due non si parlarono per anni. Ma venne anche a galla la verità sull’effettivo rapporto tra i due. Quella che sembrava essere una rivalità era una grandissima amicizia, alimentata da tante cene e telefonate, che sarebbe terminata solo con la morte di Chamberlain nel 1999, quando Bill fu la seconda persona ad essere informata della scomparsa. Era stato Wilt a spingerlo sempre verso il massimo, a tirare fuori il meglio di sé gara dopo gara, serie dopo serie, anno dopo anno. Fu proprio la presenza di Chamberlain a creare e consolidare l’epoca leggendaria di Russell e dei Celtics plurivincitori.
Sulla panchina dei SuperSonics; credits to: pinterest.com via Google
Bill si cimentò ancora col mestiere del capo allenatore. Lo stint più importante fu con i Seattle Supersonics, dal ’73 al ’77, guidati ai primi Playoffs della propria storia. Meno memorabile l’esperienza con i Sacramento Kings nella stagione 87-88, ma Russell mostrò una certa sofferenza in tali vesti. Non poteva sopportare o tollerare certi atteggiamenti dei propri giocatori, non dediti ad ogni sacrificio verso la vittoria finale. Anche da commentatore tecnico in televisione non ebbe fortuna, poco adatto ai ritmi veloci imposti dalle telecronache. Bill scomparì per un pezzo dai radar NBA. Non certo la fine gloriosa per una leggenda vivente.
All’inizio del nuovo millennio, l’immagine di Bill Russell è stata completamente rilanciata, frutto anche dell’intermediazione di David Stern, amico personale del grande centro dei Celtics. La riconciliazione con i media, i tifosi della sua squadra del cuore e con tutto l’ambiente NBA, venne da lì a poco. Dapprima venne eletto, in maniera del tutto scontata, tra i 50 migliori giocatori della storia, ricevendo un caloroso saluto dalla folla che assisteva all’All Star Game di Cleveland. Poi, il 6 Maggio 1999 Boston riorganizzò una cerimonia per il ritiro della maglia del giocatore. Questa volta Bill era presente, si commosse per l’ovazione e l’affetto dimostrato dai tifosi, sancendo la pace con quella città a cui resterà per sempre legato. Di recente, inoltre, è stata realizzata una statua raffigurante Russell in azione ed esposta in una piazza della città del Massachusetts.
L’NBA non si è certo fermata qui, facendo di Russell un apprezzato ambasciatore dell’intera organizzazione, una presenza costante nei grandi appuntamenti, anche internazionali. Dal 2009, inoltre, il premio di MVP delle Finals è stato rinominato proprio “Bill Russell NBA Finals Most Valuable Player Award”, l’ennesimo attestato di stima nei confronti del giocatore più titolato nella storia della Lega. Nel 2010 il Presidente Barack Obama ha insignito Bill della Presidential Medal of Freedom.
Giusto un po’ di gioielleria; credits to: nbapassion.com via Google
Le grandi star della nostra generazione, ma anche quelle dell’epoca immediatamente precedente, hanno mostrato grandissimo rispetto verso quest’uomo, emblema tanto della NBA quanto, soprattutto, del riscatto sociale della comunità afro-americana, di cui divenne uno dei primi simboli e uomini chiave. Ordinaria amministrazione, per colui che ha ridefinito, probabilmente per sempre, il concetto di “vincente”.
Alessandro Scuto