“Why not?”. In un pezzo dal tono evocativo, retorico ma ben bilanciato, uscito sul Toronto Sun prima dell’inizio delle finali della Eastern Conference, emerge tutto il sentimento che una nazione intera riponeva nei Toronto Raptors. Detto che gli altri avevano il miglior giocatore al mondo, che erano più forti e certamente più esperti, ma arrivati fino a diventa doveroso almeno provarci. E quelle due parole tipicamente riconducibili all’American Dream, sono pronunciate da uno che il sogno l’ha vissuto e che adesso si gode il rispetto di chi mai avrebbe immaginato che il miglior general anager della lega potesse provenire da tanto lontano. Gli hanno appena chiesto se la sua squadra ha delle possibilità di battere i Cavs. Uno così come volete che risponda?
La sua storia inizia in un college britannico, dove una keniana di nome Paula Grace sta studiando medicina, e nel suo stesso corso nota un altro africano di nome Michael Ujiri. I due si innamorano, convolano a nozze e iniziano a mettere su famiglia. Nascono Nthenya e Masai, ma alla nascita di questo secondo figlio il richiamo del continente nero è troppo forte. La famiglia Ujiri si trasferisce nel nord della Nigeria, in una città chiamata Zaria, dove il piccolo Masai comincia ad appassionarsi allo sport. Inizialmente prova con il calcio ma a tredici anni viene folgorato dalle videocassette di Hakeem Olajuwon. “The Dream” diventa un esempio per qualsiasi bambino africano con velleità sportive e infatti Masai inizia a giocare a basket dimostrando discreto talento.
In Nigeria però il background sociale non permette di esaltare le eccellenze sportive. La famiglia Ujiri è benestante, la signora Paula è un medico e il marito è nel reparto amministrativo dell’ospedale e ogni settimana organizza una distribuzione del riso, perché i vicini spesso fanno fatica a mettere insieme un pasto. Il momento di partire è vicino, gli Stati Uniti diffondono anche a migliaia di chilometri di distanza quella fragranza inconfondibile che profuma di successo e a cui Masai non può resistere.
Il luogo prescelto è il Bismarck State College, un piccolo junior college in North Dakota che per due anni vedrà esibirsi Masai e un suo collega nigeriano di nome Godwin Owinje. Secondo i racconti dell’epoca (metà anni ’90) Owinje era quello forte e infatti riceverà una borsa di studio da Georgetown, ma anche Ujiri non se la cavava così male. Eppure fu costretto ad accettare la corte di un’università nel Montana. Poca roba, anche perché lui racconta che fu un periodo difficile.
Quando andavo in palestra non mi divertivo. Volevo giocare da professionista e chiamai un agente in Francia per giocare in Europa.
Verrà a giocare da questa parte dell’oceano, ma non era abbastanza bravo per le classiche Italia, Spagna, Grecia. Per questo firmò un contratto con il Derby Country. Ora, a meno che non ricordiate le radici narrative della storia di Brian Clough, siete esentati dal sapere dove si trovi questa città. Dista una cinquantina di chilometri dalla più gettonata Leicester e non è che il livello del basket sia particolarmente alto.
Eppure Masai rimase in Inghilterra per sei anni, al termine dei quali capì che forse sul parquet aveva fatto il possibile. Uno così però non si arrende, è partito convinto di emergere negli States ed è lì che vuole andare. Prende l’agenda dove aveva segnato i contatti che si era creato quei tre anni in America (implementati da sporadici viaggi negli USA durante la sua carriera professionistica), alza la cornetta e comincia a tartassare di telefonate chiunque avesse avuto la malsana idea di lasciargli il suo biglietto da visita. Le risposte sono quasi sempre negative, delle volte all’altro capo del telefono non hanno idea di chi questo Masai Ujiri sia. Finché non arriva al nome di David Thorpe.
Lo aveva conosciuto qualche anno prima ad una partita di Summer League a Boston. Thorpe è un allenatore privato che lavora specialmente con profili liceali e collegiali ma delle volte aiutava anche i pro, specialmente quelli stranieri. Aveva lavorato anche con un nigeriano, tale Olumide Oyedeji, e Masai quando vede Thorpe gli corre in contro e lo ringrazia per l’aiuto fornito ad un fratello. Thorpe rimane colpito dalla spontaneità di quel ragazzo e decide di lasciargli il suo biglietto. Quando due anni dopo Ujiri lo chiama ci mette un po’ a collegare, ma poi lo invita alle Final Four del torneo di NCAA, dove sicuramente qualcuno da presentargli c’è.
Eravamo a cena con Leonard Hamilton e Stan Jones (coaches di Florida State) e dopo pochi minuti Masai e Leonard parlavano come vecchi amici. In tre giorni avrà parlato con tutti, spesso con persone che io non conoscevo minimamente.
La testimonianza è ovviamente di David Thorpe, stupito dalla capacità relazionale di Ujiri. Dopo quella kermesse diversi coach di college o di high school, interessati a qualche giocatore international, mandano il nome a Ujiri il quale gli risponde con un fascicolo ultra dettagliato sulle capacità del ragazzo, se vale la pena prenderlo o no, e in alternativa chi potrebbe essere un profilo adatto. Abbinando una presentazione d’impatto ad una conoscenza estesa della materia si crea uno scout NBA di buon livello.
Il primo ad accorgersene è Gary Brokaw, direttore degli scout agli Orlando Magic. Ujiri aveva portato in Florida un giocatore nigeriano per fare un workout con i Magic, Brokaw rimase colpito dalla conoscenza dei giocatori internazionali presente nel database di Ujiri e lo portò davanti alle alte sfere orlandine: Doc Rivers e il GM John Gabriel. Entrambi votarono sì, ma di soldi per lo staff non ce n’erano, quindi Masai accettò il suo primo lavoro per una franchigia NBA da stagista. Uno così però si nota, ha troppa voglia di arrivare. Divide le stanze con giocatori, allenatori, scout di altre squadre. Trascorre due mesi a Belgrado con un giocatore di nome Ekezie, nigeriano e suo amico. Una volta passa addirittura la notte sull’uscio di casa Ekezie, perché il ragazzone dopo una seduta doppia era tornato a casa e si era buttato a dormire, dimenticandosi di avere un temporaneo coinquilino. Uno così di solito arriva. Durante il suo contratto da “stagista” incontra Jeff Weltman, un degli assistenti di Kiki Vandeweghe ai Nuggets.
Weltman apprezza molto il lavoro di Ujiri e infatti lo porta davanti al suo capo. Come al solito il tempo di un frappuccino e il general manager dei Denver Nuggets è stregato dall’onestà e dalla competenza racchiuse in quell’accento tipicamente britannico. Diventerà un international scout regolarmente stipendiato e da quel momento non fermerà la sua ascesa. Nel 2007 è Bryan Colangelo a portarlo ai Raptors come Director of Global Scouting. Ci mette un annetto scarso a diventare il braccio destro di Colangelo e nel 2010 prende finalmente il controllo di una franchigia NBA.
Lo richiamano i Denver Nuggets per ricoprire la carica di executive vice president of basketball operations, diventando de facto il GM della franchigia. Secondo Thorpe i motivi che hanno portato Ujiri a diventare il primo non americano a ricoprire una carica di quel livello in una franchigia NBA sono semplici: “Conosceva tutti e non aveva nemici. Non faceva tardi la sera, era elegante e con dei valori”. Non c’è mai una seconda occasione per fare una prima buona impressione, e non credo che questo concetto sia stato mai incarnato così bene da un’altra persona su questo pianeta.
Neanche il tempo di approdare in Colorado, che subito deve metter mano all’annosa vicenda Carmelo Anthony. Il giocatore vuole andare via, vuole giocare per la sua gente e Ujiri capisce che l’unico modo per uscirne è ricavare dalla sua cessione quanto più possibile. Per gli altri questo scambio sarà ricordato come il Melo Drama. Ancora una volta però, ha avuto ragione Ujiri, perché ai Nuggets arrivano asset interessanti come Wilson Chandler, Mozgov, e il nostro Danilo Gallinari. Senza più la stella di Anthony ad illuminare il Pepsi Center gli addetti ai lavori sono convinti che un periodo di transizione è l’alternativa meno dolorosa per i Nuggets. Ujiri però non sbaglia niente, mette insieme una squadra di comprimari guidata a meraviglia da coach Karl e nel 2013 vincono la bellezza di 57 partite. Non succedeva dal 1976 e ovviamente Karl è l’allenatore dell’anno e Ujiri è l’Executive dell’anno.
Non fa in tempo a goderselo che i Raptors lo vogliono per risollevare le sorti di una franchigia che si barcamena nei bassifondi della Eastern Conference. La prima cosa che fa appena arrivato in Canada è chiamare chiunque sia alla ricerca di un 5 con punti nelle mani perché lui sugli international non si sbaglia ed evidentemente Bargnani non lo aveva ben impressionato. Ha ragione lui, ma non è finita. A dicembre, con la squadra uscita vincente in appena 7 partite (a fronte di 12 sconfitte), scambia l’altra stella della franchigia. Rudy Gay, accompagnato da Quincy Acy e Aaron Gray, sale su un volo diretto per Sacramento, a compiere il percorso inverso sono Salmons, Vasquez, Patterson e Hayes. A roster ci sono già una serie di giovani di ottime speranze e insieme a questi ultimi arrivi i Raptors torneranno ai playoff. Che la ruota stesse per girare era chiaro; Lowry e DeRozan erano pronti a prendere le redini della squadra e Ujiri aveva assemblato un supporting cast perfetto. Però che una squadra parta ad inizio stagione senza speranze di andare ai playoff e arrivi ad aprile con 48 vittorie, stabilendo il record di franchigia durante una stagione di transizione, era obiettivamente non pronosticabile.
Quel record durerà appena un anno, e l’asticella viene ulteriormente alzata nel 2016 quando le vittorie in RS sono 56, impensabili al momento in cui Ujiri si è impossessato della scrivania. I Raptors gli devono tutto, così come la lega è rimasta affascinata dalla sua figura, tanto da metterlo a capo di Basketball Without Borders, il progetto (patrocinato dall’NBA) di sviluppo sociale e sportivo in Africa. Ha raggiunto l’apice dei suoi sogni, lo zenit professionale di qualsiasi bambino africano non sufficientemente bravo per calcare i parquet NBA.
A sentire Ujiri però la percentuale di giocatori africani continuerà ad aumentare, la natura gli ha fornito delle caratteristiche fisiche che alla lunga andranno a generare un vantaggio strutturale sugli occidentali. Peccato manchi tutto ciò che non riguarda il talento del singolo, a partire dall’istruzione fino ad arrivare alle infrastrutture, soprassedendo alla povertà dilagante dal momento che il basket può arrivare fino a un certo punto. Masai però è convinto che l’Africa possa realmente diventare il futuro del basket e non solo, e a chi gli chiede se il suo contributo risulterà importante lui non ha dubbi. “Morirò provandoci”. Finora non ha mai sbagliato, non penserete cominci adesso, vero?