Il sistema franchise o sistema delle franchigie è il termine con cui si identificano le organizzazioni sportive tipicamente nordamericane. La parola franchise o franchigia indica la società sportiva operante in una determinata città o area geografica, che partecipa a un campionato professionistico.
Per il Vocabolario NBA di NBAReligion cercheremo di comprendere il significato della parola franchise, la sua origine e le differenze del sistema nordamericano rispetto a quello europeo.
In termini economici, il franchising è un modello di business per il quale ad alcuni soggetti viene permesso di operare vendendo beni o servizi di una certa azienda in una determinata zona, con un legame tra franchisee e franchisor che può essere più o meno forte. Tale concetto non può essere applicato in questo senso alle leghe che adottano il sistema a franchigia, ma può essere utile partire da qui per affrontare la questione.
FRANCHISE O CLUB? – Il termine franchise, per indicare una squadra sportiva e il sistema che le gira attorno, si contrappone a quello europeo di club. Sebbene i club europei al giorno d’oggi possano vantare settori marketing particolarmente sviluppati, le franchise americane hanno un DNA molto più orientato al business. Senza dubbio i risultati sportivi non sono secondari e concorrono al successo economico dell’organizzazione. Non a caso la NBA porta a casa profitti stratosferici, in costante crescita. Il sistema nasce sul calco di quello della MLB (Major League Baseball), la lega più antica fra quelle oggi al top e la prima in grado di raggiungere grandi risultati. Dai migliori si impara.
CAMPIONATI “CHIUSI” – Le leghe nordamericane non prevedono un sistema di retrocessioni e promozioni. Il campionato NBA, come la già citata MLB, la NHL (National Hockey League) e la NFL (National Football League), è “chiuso”. Pur mancando retrocessione e promozione, la composizione dei campionati nel corso del tempo è cambiata più volte. In tre modi. Le squadre possono foldare, ovvero chiudere i battenti e uscire dal campionato. Questa è l’eventualità meno probabile al giorno d’oggi. Negli ultimi decenni le squadre in difficoltà hanno seguito la strada del trasferimento, in cerca di mercati accoglienti e danarosi. Fra gli ultimi esempi c’è la ricollocazione dei Seattle Supersonics, che si sono trasformati negli Oklahoma City Thunder e i New Jersey Nets che si sono spostati a Brooklyn mantenendo il nickname. Altro caso è quello dell’expansion team, ovvero l’entrata nella lega di una squadra completamente nuova, nata dal nulla [o meglio: nata da un cospicuo investimento economico]. L’ultimo caso è quello dei Charlotte Bobcats nel 2004 [che poi sono diventati Hornets, perché in precedenza a Charlotte c’erano degli altri Hornets che però si erano trasferiti a New Orleans, dove poi hanno cambiato nome in Pelicans permettendo ai Bobcats di… vabbè].
Il logo dei Charlotte Bobcats… Ehm… Hornets? Credits to: www.sportsgrid.com, via Google.
ALTRE DIFFERENZE – Al posto di campionati cadetti, esistono delle leghe professionistiche minori, che possono essere collegate in qualche modo a quella maggiore. Nel caso della NBA esiste la NBA Development League, più comunemente detta D-League. Si tratta di un campionato di sviluppo e crescita per giocatori, allenatori e arbitri, oltre che teatro di sperimentazioni per la NBA. Altri aspetti tipici del sistema a franchigia nordamericano è la divisione in zone territoriali, le Division e le Conference, e l’assegnazione del titolo tramite Playoffs. Le squadre non giocano lo stesso numero di partite contro quelle degli altri raggruppamenti: la classifica della regular season non sarebbe veritiera nel riportare gli equilibri di forza. Ecco quindi un sistema a eliminazione diretta per riequilibrare il merito.
DERBY? NO, GRAZIE – Un’ulteriore differenza fra le organizzazioni europea e nordamericana è il rapporto con il territorio di interesse della squadra. In Europa è normale la divisione di una città fra più club: pensiamo ai casi calcistici di Madrid, divisa fra Real e Atletico, di Milano, con il derby della Madonnina, e di tutte le altre stracittadine d’Italia e d’Europa. Emblematico il caso di Londra, con una decina di squadre nelle prime due-tre leghe nazionali: Arsenal, Chelsea, Tottenham, West Ham, Crystal Palace, Fulham, Queens Park… Anche nel disastrato panorama cestistico italiano esiste una rivalità accesa come quella fra Virtus e Fortitudo a Bologna. Per non parlare di Partizan e Stella Rossa a Belgrado. Il caso di due squadre nella stessa città nelle leghe nordamericane è invece un’eccezione. Al di fuori delle metropoli di New York, Chicago e Los Angeles, quasi mai nella storia una città ha potuto vantare due squadre nel massimo campionato dello stesso sport. In NBA attualmente gli unici casi sono quello di New York (con i Knicks “poco distanti” dai Brooklyn Nets) e quello di Los Angeles, con Lakers e Clippers a condividere addirittura la stessa arena.
Atmosfere rilassate in un normale derby di Belgrado fra Stella Rossa e Partizan. Credits to: www.ultras-tifo.net
EQUILIBRIO – Il rapporto fra franchise e direzione della lega è diverso da quello dei club europei. Nei sistemi nordamericani si pone particolare attenzione a un certo equilibrio, per evitare che le piazze con maggiori disponibilità economiche (inevitabilmente le città più popolose) possano monopolizzare la vittoria. Ogni proprietario di franchigia ha voce in capitolo sulle scelte dalla lega. Storica fu la decisione del Commissioner David Stern che, in qualità di amministratore dei New Orleans Hornets (all’epoca senza proprietario), impedì lo scambio che avrebbe portato Chris Paul ai Lakers nel 2011. Basketball reasons. Un esempio più recente? La cacciata di Donald Sterling. Un complesso sistema di tassazione e redistribuzione dei proventi garantisce la stabilità finanziaria di ogni franchigia. Se un imprenditore poco affidabile e senza copertura economica volesse entrare in NBA, probabilmente gli altri proprietari gli sbarrerebbero la strada: troppo pericoloso andare a intaccare l’equilibrio della lega, che conviene a tutti. Il salary cap è il mezzo più evidente per il bilanciamento delle forze economiche, con una luxury tax ridistribuita fra le altre squadre. [La storia recente – vedi Prokhorov e Brooklyn Nets – insegna che i soldi in NBA sono sì al centro del business, ma è meglio usarli bene che averne una valanga.] I ricavi locali delle squadre (arena, merchandising) rimangono alla franchigia e vengono gestiti direttamente. La lega si occupa anche di aspetti esterni al gioco, come il dress code imposto agli atleti. Le squadre e i proprietari cedono poteri alla lega e al Commissioner, in cambio della competitività generale della NBA. È un costante gioco di equilibri fra autonomia della singola squadra, bilanciamento della competitività e rivendicazioni dell’associazione dei giocatori.
Il dress code di Russell Westbrook. Già. Credits to: www.vladtv.com, via Google.
FRANCHISE PLAYER – Chi è il franchise player? Così viene chiamato in genere il giocatore più rappresentativo di una squadra, quello su cui si fondano le speranze e si investe economicamente. Spesso, ma non necessariamente, è il giocatore più pagato del roster. Tim Duncan è stato il franchise player dei San Antonio Spurs per quasi due decenni, Kobe Bryant lo è stato dei Lakers [con/contro Shaquille O’Neal per un periodo…], Russell Westbrook lo è oggi senza ombra di dubbio per gli Oklahoma City Thunder. Steve Francis era chiamato Franchise quando era la stella degli Houston Rockets, prima di cedere lo scettro a Tracy McGrady… Ma questa è tutta un’altra storia.
Tracy McGrady e Steve Francis in bianco. Quanto talento in una foto? It’s over 9000! [cit.] Credits to www.yaomingmania.com
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