I pionieri, da sempre, hanno un posto speciale all’interno del cuore delle persone. Gente che ha sperimentato nuove realtà da lì in poi usuali all’interno dell’esistenza quotidiana. Nella pallacanestro tale categoria è collocabile tra la fine del 1800 e gli anni’60 del Novecento. Rileggendo e studiando i tabellini dell’epoca, vedendo i pochi filmati esistenti, è facile interrogarsi sull’effettivo impatto che avrebbero avuto oggi le stelle di ieri, proiettati in un contesto così distante da quelle immagini in bianco e nero. Ci sono alcune certezze però su determinati giocatori che hanno segnato le loro epoche. È possibile affermare che Wilton Norman Chamberlain, per tutti Wilt, ancora oggi raggiungerebbe le elevatissime vette che uno dei suoi soprannomi, “La guglia”, suggeriva già mezzo fa.
Il 21 agosto 1936 Chamberlain nasceva a Philadelphia, in una famiglia che raggiungeva la doppia cifra in quanto a componenti. Dato che i casi della vita sono sempre strani, il piccolo Wilt fu un bambino fragile, che rischiò pure di morire di malattia. Ancora più curioso il fatto che non fosse particolarmente interessato al basket, nonostante uno sviluppo precoce ed un ambiente cittadino che ha sempre avuto un cuore palpitante per la palla a spicchi. Dopo aver fatto stropicciare gli occhi con le proprie performance nell’atletica leggera, il ragazzo(ne) si decise a giocare a pallacanestro, iscrivendosi alla Overbrook High School. Niente sarebbe più stato come prima.
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Al liceo Chamberlain fece intravedere i primi sprazzi di grandezza abbagliante. La Overbrook divenne una contendente al titolo cittadino, un torneo serratissimo e molto sentito. Nei 3 anni di militanza di Wilt la scuola se lo aggiudicò per 2 volte, trascinata dalla propria stella. D’estate Chamberlain lavorava come fattorino in un albergo, i cui proprietari divennero una sorta di seconda famiglia. Un giorno fu notato da Red Auerbach, che lo invitò ad un provino contro B. H. Born, MVP delle Final Four NCAA del 1953. L’esito fu così umiliante e che Born decise di abbandonare ogni velleità di NBA. Conteso da college di 50 stati, Wilt alla fine optò per Kansas, per respirare un’aria nuova.
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Lawrence non era molto diversa da tante città del Sud degli Stati Uniti dell’epoca, segnati da razzismo e intolleranza. Dopo il disorientamento iniziale, Chamberlain si disinteressò delle restrizioni razziali, mangiando e bevendo in qualsiasi locale ed infischiandosene “alla Clark Gable”. Sul campo le cose non si misero per niente bene, con l’abbandono dello storico allenatore Phog Allen. I numeri furono da subito strabilianti, con raffiche di punti, rimbalzi e stoppate. I Jayhawks fecero strada lungo la stagione, arrivando da favoriti assoluti sino alla Finale NCAA 1957 contro North Carolina. Fu lì che qualcosa si inceppò, un sinistro presagio che si sarebbe rivelato appieno qualche anno dopo. I Tar Heels di Frank McGuire cercarono di innervosire Chamberlain sin dalla palla due, quando venne mandato a saltare il giocatore più basso della squadra. Con Wilt costantemente triplicato e la palla congelata nei momenti chiave, in una gara che si trascinò per tre supplementari fu North Carolina a tagliare l’ultima retina della stagione, nonostante il premio di Most Outstanding Player andasse proprio al centro di Kansas. L’annata successiva non andò meglio. Le squadre avversarie adottarono tutte una tattica ostruzionista, e i Jayhawks non si qualificarono per il Torneo. Stanco e deluso Wilt lasciò in anticipo l’università: giocò per un anno con gli Harlem Globetrotters, arrivando ad esibirsi davanti a Nikita Krusciov, al tempo non certo compagno di merende degli Stati Uniti.
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Poi giunse l’esordio NBA. Gli scarni tabellini dell’epoca ci mostrano, con un imbarazzo che traspare, le cifre della prima partita nella Lega di The Big Dipper, nell’autunno del 1959. 43 punti e 28 rimbalzi contro dei malcapitati New York Knicks. Il numero 13 era stato scelto, tramite selezione territoriale dai Philadelphia Warriors. Ed entrò subito in scena l’antagonista principale, la nemesi di Wilt. Nella quarta partita stagionale Phila giocò contro i Boston Celtics di Bill Russell, campioni NBA. L’incontro/scontro segnava l’inizio di una nuova epoca nel mondo del basket, il primo, metaforico round di una battaglia infinita tra due pesi super-massimi. Chamberlain segnò di più, ma furono i bianco-verdi a prevalere. Quella sera la NBA, che non navigava in acque sicure, trovava la propria ancora di salvezza. Wilt e Bill, due nemici che poi si scoprirono, nei fatti, grandi amici. Senza di loro la Lega non sarebbe diventata quella che è.
La stagione d’esordio del #13 è stata un qualcosa di umanamente inconcepibile. 37,6 punti, 27 rimbalzi, MVP NBA, MVP dell’All Star Game, Rookie dell’anno. Numeri e titoli da mal di testa e vertigini. Nonostante un cinquantello, frenato da un infortunio alla mano, Wilt e Phila ai Playoffs dovettero soccombere contro Boston per 4-2. Frustrato dalla sconfitta, Chamberlain meditò il clamoroso ritiro, adducendo la famosa frase “nessuno fa il tifo per Golia”. L’intervento del proprietario un nutrito aumento di stipendio lo convinsero a rientrare nei ranghi. Nella stagione successiva le statistiche migliorarono nuovamente. I punti diventarono 38,4, i rimbalzi 27,2 (career high), con la chicca dei 55 catturati in una sola partita, contro Boston. Una cifra che mette la pelle d’oca, una barriera invalicabile. Ciò che peggiorò fu l’esito della stagione. Sweep subìto, Wilt a casa, allenatore licenziato.
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La stagione 1961-62 fu quella in cui leggenda, mito e realtà si fusero assieme per garantire l’immortalità a Wilt Chamberlain. C’è una data ben precisa: 2 Marzo 1962, Hershey, Pennsylvania. In campo neutro, con un pubblico non certo d’eccezione, i Warriors ospitavano i New York Knicks in una gara dai contorni tipici del finale di stagione. Wilt era in un momento di forma eccezionale, avendo scollinato con regolarità oltre i 60 ed i 70, anche se con qualche problema ai tiri liberi. La sera prima della partita, come da routine, Chamberlain si intrattenne per tutta la notte con qualcuna delle sue conquiste femminili. Senza aver dormito, andò direttamente all’arena, non prima di aver battuto ogni record possibile in una sala giochi nelle vicinanze. Così, sveglio da 48 ore, iniziò la partita. Il primo tempo fu ordinaria amministrazione, 40ello senza patemi e solita, quasi noiosa dimostrazione di superiorità sugli avversari. A far intuire la novità nell’aria però la precisione ai liberi, del tutto inconsueta. Dopo un terzo quarto molto prolifico, chiuso a quota 69, la Storia si consumò. Tutti avevano intuito cosa stava per accadere. I giornalisti vennero chiamati d’urgenza. Il pubblico in visibilio chiedeva che ogni pallone fosse destinato a Wilt. I Knicks, capita l’antifona, cercarono di non entrare nei record dalla parte sbagliata. Fu tutto inutile. A pochi secondi dal termine, Wilt si erse imperioso e depositò a canestro i punti 99 e 100. Tutto il resto è noia.L’Everest era stato scalato, la soglia impossibile superata dall’alieno in mezzo agli uomini. È realistico pensare che il record resterà imbattutoa lungo, se non per l’eternità. Due giorni dopo, Darrell Imhoff, sparring partner di quella sera, uscì tra le ovazioni del Madison Square Garden. Aveva limitato Wilt a “soli” 58.
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Con un po’ di paura vi ricordiamo che Chamberlain chiuse con 50,4 punti di media e oltre 4,000 totali, 25,7 rimbalzi e 48,5 minuti per gara. Wilt giocò tutti i minuti della stagione, compresi supplementari, eccezion fatta per gli ultimi otto di una gara dove ricevette un doppio tecnico. Cosa più incredibile ancora, non fu l’MVP della stagione. Neanche dopo aver segnato all’All Star Game 42 punti. Poco importa se nei Playoffs furono i Celtics ad avere la meglio dopo 7 gare. Poco importa se un tiro allo scadere di Sam Jones negò ai Warriors l’accesso alla Finale. Pazienza se l’MVP andò al nemico Russell. Quell’anno, quella sera, Wilt ci conquistò tutti. Per sempre.
Gli alti e i bassi sono stati un denominatore comune nella vita di Wilt Chamberlain. A grandi trionfi sono seguiti repentini fallimenti. Se fuori dal campo Wilt era visto come un’icona assoluta di una comunità nera che stava raggiungendo le prime forme di emancipazione, sul parquet le cose continuavano a non mettersi per il verso giusto.
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Così si può provare a spiegare come, la stagione dopo l’annata dei record, i Warriors non disputarono i Playoffs, chiudendo con un mesto 31-49. Chamberlain fu nuovamente un iradiddio, chiudendo con quasi 45 punti di media, più i canonici 24 rimbalzi catturati ad incontro. Ma per problemi finanziari la franchigia dovette trasferirsi a San Francisco, perdendo molti pezzi-chiave che rifiutarono la nuova destinazione. Nella stagione 1963-64 entrò in scena coach Alex Hannum. Ex-militare, il tipico sergente di ferro, Hannum era stato l’allenatore dei St. Louis Hawks capaci di vincere il titolo nel 1958 alle spese dei Celtics. Con una forte guida dalla panchina, Chamberlain si accontentò di qualche tiro in meno, avendo come ricompensa l’arrivo alle NBA Finals. Il copione però fu lo stesso: Wilt sconfitto e Bill a vincere l’ennesimo titolo. Nell’annata successiva San Francisco partì malissimo e fu costretta a vendere Chamberlain ai Philadelphia 76ers nel bel mezzo della regular season.
L’ennesimo ritorno fu circondato da grandi speranze. I Sixers avevano un bel nucleo, capitanato da Hal Greer. Nonostante qualche iniziale problema ed un allenatore, Dolph Schayes, non particolarmente rispettato da Wilt, Philadelphia riuscì ad arrivare alle Finali dell’Est contro i soliti Boston Celtics. La serie arrivò a gara-7, una delle più famose dei playoffs NBA. In un vero scontro tra Titani, Wilt fece registrare un doppio 30, Bill una quasi-tripla doppia. Col punteggio in parità negli ultimi possessi, il centro di Philadelphia fece tornare sotto i suoi. Russell commise un errore regalando la palla della vittoria ai 76ers. Nelle concitate fasi successive, con la paura di un fallo intenzionale su Chamberlain, Greer battè la rimessa ma Havlicek capì tutto, intercettando il pallone. Ancora una volta aveva vinto lui, Bill.
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Gli atteggiamenti di Wilt iniziarono a peggiorare. Nell’Aprile del 1965 uscì una sua intervista pepata, “My Life in a Bush League“, in cui sparava a zero sul resto della Lega. Amante della bella vita, delle ore piccole e delle donne, Chamberlain decise di trasferirsi a New York andando a Phila solo per le partite. Nella stagione 1965-66 la corsa di Philadelphia si fermò nella postseason contro Boston. Wilt fu sempre straordinario, vincendo il suo secondo MVP. In un’occasione stoppò con tale violenza una schiacciata di Gus Johnson da provocargli una slogatura alla spalla. Una figura dai contorni così mitici, che incuteva timore agli avversari ancor prima di scendere in campo, si perdeva però quando il gioco si faceva duro. L’ennesima sconfitta contro Russell fu la goccia che fece traboccare un vaso già stracolmo. C’era bisogno di un cambiamento.
All’inizio della stagione 1966-67 a guidare i Sixers venne chiamato Alex Hannum. Il coach disse in faccia a Wilt come stavano le cose. Ci fu tensione iniziale, si sfiorò la crisi diplomatica e le mani addosso, ma Chamberlain alla fine capì. Era giunto il momento di tirare di meno, di coinvolgere i compagni, di mettere da parte l’ego. Era giunto il momento di vincere. Per la prima volta non si aggiudicò la classifica marcatori, i rimbalzi, tanti, rimasero immutati, aumentarono gli assist, la percentuale di realizzazione e gli apprezzamenti verso gli altri Sixers. Risultato dell’equazione fu il terzo MVP nel personale albo d’oro. E, cosa ben più importante, nei Playoffs questa volta non fallì. I Celtics furono finalmente sconfitti per 4-1, la loro prima serie persa dopo 8 titoli consecutivi. Chamberlain fu semplicemente devastante, a suon di triple e (probabilmente) quadruple doppie. Russell, così come diversi compagni, gli fecero sentiti complimenti.
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In Finale, Wilt incontrò i Warriors, trascinati dal giovane Rick Barry. Prendendosi cura di difesa e rimbalzi, chiudendo con meno di 20 punti di media, Chamberlain vinse il suo primo titolo NBA, chiudendo una stagione trionfale con i Sixers che compilarono uno dei migliori record della storia, 68-13. Quell’anello era finalmente suo.
L’anno dopo Wilt continuò a strabiliare; il suo carisma, la sua figura e, cosa non da poco, la sua prima vittoria lo avevano elevato a simbolo di uno sport che raccoglieva sempre più seguaci. Chamberlain vinse il suo quarto MVP, raggiunse la soglia dei 25,000 punti e fece registrare il più alto numero totale di assist. Nella postseason però gli infortuni complicarono la vita a Philadelphia. Prima di gara-1 della finale dell’Est ci fu l’assassinio di Martin Luther King. In una gara che rischiava la cancellazione e dai toni chiaramente annacquati, a prevalere fu Boston; i 76ers vinsero le 3 gare successive. Mai nessuno aveva rimontato sotto 1-3 in una serie. Mai nessuno fino ad allora. Philadelphia dilapidò il vantaggio accumulato, soccombendo in casa nella decisiva ultima sfida. Wilt prese sì una trentina di rimbalzi, ma segnò solo 14 punti, senza tirare nella ripresa. Gara-7 del 1968 fu l’ultima partita in maglia Sixers di Wilt Chamberlain. In estate una combinazione di beghe contrattuali unita al sempre crescente desiderio di godersi la vita fuori dal campo, lo spinse a chiedere una trade. Per lui si aprirono quindi le porte di Los Angeles, sponda Lakers.
I giallo-viola avevano assemblato uno squadrone, con la speranza di vincere il primo titolo dai tempi di Minneapolis. Chamberlain, ormai 32enne, aveva realizzato che c’era bisogno di sacrifici personali, vedi voce punti segnati, pur di rimpinguare un palmares che non rendeva degna giustizia ad un giocatore del suo calibro. Mentre fuori dal campo le conquiste amorose aumentavano a dismisura, sul parquet le cose non giravano alla perfezione. Il rapporto col coach, William Van Breda Kolff, fu tutt’altro che idilliaco. Wilt subì l’onta della panchina proprio lui che aveva giocato più di 48 minuti di media in una stagione. Le medie finali si attestarono sempre sul 20+20, ma era chiaro che qualcosa non poteva funzionare. L.A. arrivò all’ennesima Finale, dove ad attenderla c’era la nemesi bianco-verde, giunta all’ultimo giro di giostra dell’epoca Russell. Vecchi, malandati, logori: la serie non sembrava esistere. Eppure il vecchio cuore Celtics trascinò i Lakers fino a gara-7. Prima dell’ultimo atto il proprietario dei giallo-viola, sicuro della vittoria, fece predisporre una serie di palloncini che dovevano servire al momento della celebrazione per il titolo. Chamberlain scomparve. Fu tenuto fuori gli ultimi sei minuti della contesa: aveva infatti chiesto di uscire per un lieve infortunio. E così, mentre Boston compiva l’ennesimo capolavoro, l’ultima gara della rivalità tra Bill e Wilt non ebbe il suo giusto e appropriato epilogo. Russell la prese malissimo, e criticò apertamente Chamberlain. Calava così il sipario sullo scontro leggendario tra i grandissimi protagonisti degli anni’60. Restavano poche occasioni a Wilt per provare a bissare il titolo del 1967.
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L’annata 1969-70 fu contraddistinta da un grave infortunio al ginocchio. Costretto a giocare solo 12 partite, Chamberlain si presentò ai Playoffs in non perfette condizioni fisiche. I Lakers, forti del loro squadrone che comprendeva, tra gli altri, Jerry West ed Elgin Baylor, raggiunsero l’ennesima Finale NBA. Ad attenderli i New York Knicks di Red Holzman. Stella della squadra, MVP della stagione era Willis Reed, il capitano della formazione della Grande Mela. Dopo il 2-2 nelle prime 4 gare, nel quinto atto della sfida le cose sembrarono volgere al meglio per LA. Reed, infatti, si accasciò al suolo infortunato. Chamberlain era libero di dominare. Inspiegabilmente, i giallo-viola implosero, fino a perdere la partita. Il #13 ne mise 45 in gara-6, rimandando il tutto alla decisiva gara-7. È qui che Reed riapparve pur zoppicante. Chamberlain avrebbe potuto dominarlo, ma non infierì. Fu un massacro. New York stravinse. Wilt riceve parecchie critiche dalla stampa.
La stagione successiva fu ancora avara di successi. I Lakers furono martoriati dagli infortuni. Nei Playoffs trovarono di fronte l’ostica Milwaukee condotta dal nuovo super-centro della Lega, Lew Alcindor. Mai amatisi fino in fondo, Wilt e Lew si trovavano così faccia a faccia nella postseason. Chamberlain tenne degnamente botta al più fresco rivale, cercando di tenere a galla una squadra falcidiata dalle assenze. Applaudito ed apprezzato, il #13 dovette arrendersi ai Bucks, che ebbero strada spianata verso il titolo NBA. Si vociferò poi di un possibile incontro di boxe tra Wilt e Muhammad Alì. Era tutto pronto per la storica sfida ma Chamberlain si tirò indietro, sotto consiglio del padre.
“Vieni, ti aspetto”; credits to: ciuff.it via Google
Nell’annata 1971-72 ai Lakers arrivò un nuovo allenatore, Bill Sharman che convinse Chamberlain a diventare ancora più concentrato su difesa e rimbalzi, alimentando il contropiede dei giallo-viola. Wilt accettò, diventando nel contempo il capitano dei Lakers. La risposta fu una stagione esaltante. 33 vittorie consecutive in regular season, la più lunga striscia nella storia della Lega. Nella Finale dell’Ovest, Alcindor (ora Abdul-Jabbar) si parò dinnanzi a Chamberlain, cercando di bissare la vittoria dell’anno precedente. Quell’anno però Wilt era un uomo in missione. Il giovane Jabbar venne fatto a pezzi da Chamberlain. In Finale, ad attenderlo, nuovamente New York, martoriata dagli infortuni. Portatosi sul 3-1 nella serie, Wilt accusò un dolore alla mano. Pensava fosse cosa da niente. Era rotta. Rifiutando gli antidolorifici, Chamberlain scese in campo deciso a conquistare l’anello. La sua prestazione non si può spiegare. 24 punti, 29 rimbalzi, 8 assist e 8 stoppate. Los Angeles era finalmente campione. Chamberlain venne nominato ovvio MVP delle Finali.
L’ultimo anno di Wilt nella Lega è stata la stagione 1972-73. A 36 anni si prese il lusso di giocare oltre 40 minuti di media, rivincere l’ennesima classifica dei migliori rimbalzisti e tirare con l’astronomica cifra del 72,7% dal campo, un dato mostruoso che ancora una volta mise in dubbio la consistenza umana del personaggio. I Lakers raggiunsero di nuovo la Finale ma si arresero ai Knicks in 5 gare. Il 10 Maggio 1973 Chamberlain giocò l’ultima partita NBA della sua vita, chiudendo un’esperienza difficilmente ripetibile con un doppio 20. L’anno successivo fu attratto dalla possibilità di divenire giocatore-allenatore dei San Diego Conquistadors della ABA. Fu un anno poco soddisfacente, in cui dovette limitarsi al pino, e alla fine del quale appese le scarpette al chiodo.
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Dopo la NBA Wilt continuò a essere speciale. Niente poteva essere normale per uno così. Normale uno che si mise a giocare a pallavolo tanto da divenire presidente della International Volleyball Association? Normale uno che interpretò il ruolo dell’antagonista di Schwarzenegger in Conan il distruttore? Normale uno che a 40 anni suonati umiliava Magic Johnson in allenamento? Wilt meditò pure per due volte il clamoroso rientro, a 45 anni con Cleveland e a 50 con i Nets. No, quest’uomo non poteva essere normale.
Fu un testimonial di successo. Più volte in contrasto con la Lega, fu nominato tra i 50 più forti giocatori di sempre, mostrando ancora un fisico ed un carisma invidiabili. Il 12 Ottobre 1999 Wilt Chamberlain terminava la sua inimitabile esistenza su questo pianeta. Un cuore malato già da qualche anno, se lo portò via mentre era nella sua villa di Bel Air. La scomparsa di Chamberlain privò l’America della pallacanestro di un personaggio che segnò un’epoca. Cosa è stato Wilt per il basket? Un alieno venuto da un altro pianeta, un pioniere che non potrà mai essere dimenticato. Tante regole sono cambiate per limitare il suo dominio.
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Primo rimbalzista all-time, quinto realizzatore con oltre 30.000 punti, Chamberlain è stata una macchina di statistiche che non ha avuto, ha e avrà eguali. Pazienza se i titoli vinti sono stati solo 2. Pochi in relazione alla forza, alla statura del personaggio. Così come non ha del tutto torto chi lo ha accusato di egoismo e di poca tenuta psicologica nelle 2 gare-7 con i Lakers. Ciò non toglie che Wilt sia stata una figura mitica in questo sport. Chamberlain è stato uno, se non Il, salvatore della NBA. La prima vera star, dentro e fuori dal campo, nel bene e nel male. 20.000 donne ma mai nessun matrimonio o figlio, una presenza leggendaria in un’epoca fondamentale nello sviluppo di questo sport. Chamberlain è stato l’incarnazione dell’espressione “larger than life”, con un’esistenza vissuta a tutto tondo e sempre al massimo. Grazie di tutto Wilt.
Alessandro Scuto