Robinson, Duncan, Leonard: leader silenziosi a San Antonio

1987

Primo passo del nostro viaggio.
David “The Admiral” Robinson, soprannominato così poiché aveva prestato servizio come ufficiale alla United States Navy, viene draftato come prima scelta assoluta da San Antonio, ma indosserà per la prima volta sul parquet la maglia degli Spurs solamente due anni dopo, proprio a causa dell’impegno preso con la marina.

Diligentissimo studente, fin da piccolo sogna di diventare sommergibilista e passa la maggior parte del suo tempo dedicandosi a studio, calcoli matematici e computer. Negli anni del liceo, presso la Osbourn Park High School in Virginia, i suoi compagni (fortunatamente) riescono a convincerlo a giocare nella squadra di basket della scuola, attività mai stata prima di suo interesse. Trascorre gli anni del college, come da obiettivo, alla Navy Midshipmen, accademia navale di Annapolis, nel Maryland, e in questi anni passa straordinariamente da 198 cm ai 216 a cui poi si fermerà.

Nel 1989 inizia, dunque, la sua prima stagione NBA. I suoi risultati sono strabilianti e i 24.3 punti e 12.0 rimbalzi di media gli permettono non solo di essere Rookie of the year, ma anche di venire convocato all’All Star Game e di concludere in sesta posizione la votazione per il titolo di MVP.

Velocità, potenza e agilità sono le sue caratteristiche principali. Sin dall’avvio della sua carriera ha un impatto importante sul rendimento della squadra, incute timore agli avversari sia per il suo aspetto fisico, con spalle quadrate e ben definite, sia per il suo tiro mancino, ulteriore arma per mettere in difficoltà la difesa. E’ l’unico, assieme a Kareem Abdul-Jabbar, ad aver ottenuto il titolo come miglior marcatore, miglior rimbalzista e miglior stoppatore.

Il 1994 è sicuramente un anno per lui storico. Il 24 aprile, contro i Los Angeles Clippers, realizza 71 punti (con una, sì UNA tripla) in una singola partita, career high e nona prestazione di sempre nella lega. Il 17 febbraio compie un’impresa che passerà alla storia: conclude la sua partita contro i Detroit Pistons con 34 punti, 10 rimbalzi, 10 assist e 10 stoppate, quarta e ultima quadrupla doppia della storia.

La mentalità, però, è ciò che contraddistingue lui e, dal suo arrivo in poi, gli Spurs in generale. Grazie al padre e all’esperienza in marina, i valori alla base del suo pensiero sono la costanza, il duro lavoro e il gioco di squadra, come poi si potrà indubbiamente vedere dal suo modo di stare in campo. La tenacia è quello lo ha reso un grandissimo leader sia come giocatore che come persona. La lettera che, da star già affermata, ha scritto al se stesso di 18 anni è un’evidente dimostrazione di tale mentalità.

Mattone dopo mattone. Parola dopo parola. Notte dopo notte. La stessa regola applicata per imparare a nuotare, sviluppare un movimento in post, o mettere in piedi un affare. La preparazione è tutto.

La capacità di trasmettere il suo modus operandi è stata fondamentale per la creazione di uno spirito forte e incentrato sul lavoro come quello che appartiene a San Antonio e che la sua musa ispiratrice, Gregg Popovich, continua ancora oggi a diffondere ai suoi discepoli.

1997

Esattamente dieci anni dopo, l’Ammiraglio si trova a dover modificare la sua posizione in campo. Il draft di quell’anno, infatti, porta per gli spogliatoi dell’AT&T Center (all’epoca ancora SBC Center) una giovane promessa dalle Virgin Islands, Tim Duncan. L’arrivo del gioiellino agli Spurs costringe Robinson a perfezionare il suo post-alto, posizione che lo vedrà spesso protagonista, per creare spazio sotto canestro all’esuberanza del nuovo arrivato. 

Nelle successive cinque stagioni, le “Twin Towers”, così venivano definiti, trascinano San Antonio a vincere due anelli, nel 1999 contro i New York Knicks e nel 2003 contro i New Jersey Nets (attuali Brooklyn Nets). Vincendo il titolo di MVP delle finals in entrambe le serie, Duncan dimostra di occupare una posizione sempre più fondamentale all’interno dei meccanismi degli Spurs, fattore che porterà Robinson ad abbandonare San Antonio con la consapevolezza di lasciare le redini della squadra a un giocatore straordinario e degno di sostituirlo nel cuore dei tifosi. All’inizio del campionato 2002-2003, infatti, l’Ammiraglio dichiara il suo ritiro previsto per quella stessa stagione; saluterà il suo pubblico con una partita da 13 punti, 17 rimbalzi, 2 stoppate e il secondo anello vinto. Chapeau.

Tim Duncan, promessa del nuoto al punto da far parte della squadra delle Virgin Islands in preparazione alle Olimpiadi di Barcellona 1992, è costretto ad abbandonare a causa della sua tremenda paura per gli squali, con i quali avrebbe dovuto condividere l’oceano per potersi allenare, dopo il tremendo uragano Hugo che, nell’autunno dello stesso anno, devasta l’isola di Saint Croix, piscine comprese. Distrutto, inoltre, dalla morte della madre a soli 14 anni, si avvicina al basket grazie alla sorella maggiore, la quale gli regala un canestro, e al cognato, ex playmaker della Capital University di Columbus (Ohio), con il quale studia i primi movimenti e apprende la tecnica di gioco.

Pur mostrando il suo valore fin dai primi anni del college, decide di portare a termine gli studi prima di dichiararsi eleggibile al draft. Per quattro anni domina sui parquet dei college dell’NCAA, diventando tre volte miglior difensore della lega. La sua carriera agli Spurs non delude le aspettative di prima scelta assoluta al draft, vedendolo Rookie of the year del 1998 e, in seguito, due volte MVP della regular season, vincitore di cinque anelli e tre volte MVP delle finals.

Una delle caratteristiche peculiari del gioco di Timmy sta nell’eccezionale uso che lui fa del tabellone; questo gli permette di poter giocare in svariate posizioni del campo, sfruttando oltre a quelle frontali di post alto e post basso, anche gli angoli. Il tocco, la facilità e velocità di tiro e il lavoro svolto con i piedi lo rendono un maestro in quanto a tecnica di gioco.

Per la sua adattabilità in qualsiasi sistema di gioco coach Popovich lo inserisca, diventa presto indispensabile per la sua squadra e, allo stesso modo, per l’”ecosistema” dell’intera NBA. Creatività, costanza ed eccellenza in difesa permettono al giocatore delle Virgin Islands di prendere parte 15 volte all’All-Star game, pur venendo sottovalutato e raramente considerato parlando dei migliori giocatori NBA. Questo probabilmente è dovuto anche al suo essere taciturno e completamente disinteressato ai riflettori. Tale fattore lo porterà a ritirarsi, nel 2016, dopo 19 straordinarie stagioni, in totale silenzio, senza grandi cerimonie o saluti, restando semplicemente nel cuore dei tifosi, ammiratori (e non), in un’epoca in cui i futuri e già affermati Hall of Famers sono ossessionati dalla reputazione che li vede protagonisti.

Seguendo la filosofia di Robinson, suo maestro sia in campo che fuori, è, silenziosamente, come è nel suo stile, il più tenace e una fondamentale presenza per l’intera squadra.

Lui veniva solamente ad allenarsi tutti i giorni. Veniva presto. Stava fino a tardi. Era lì per ogni singola persona, dalla cima al fondo del roster, perchè lui era così, in tutto il suo rispetto.

La capacità di prendersi le proprie responsabilità, di trascinare la squadra comportandosi da modello e di crescere a sua volta altre guide fa in modo che sia stato descritto più volte come il prototipo di old-school leader. L’ex cestista Evan Thomas in un post su facebook ha raccontato che durante una partita nei suoi anni a Washington, proprio contro San Antonio è stato stoppato da Timmy. Mente stavano correndo in transizione, allora, Duncan si è avvicinato e gli ha suggerito

Era un buon movimento ma tu devi starmi più vicino con il corpo; in questo modo puoi conquistare un fallo oppure io non posso stopparti.

La partita successiva, quindi, Thomas ha provato a seguire il consiglio dell’avversario e, sebbene il tiro sia comunque uscito, Tim l’ha guardato e gli ha sussurrato “Molto meglio.” Durante la prima intervista in seguito al suo ritiro, Pop lo ha salutato e omaggiato dicendo: 

Se ne sta andando dall’NBA tale e quale a come è entrato per la prima volta nella lega. Durante gli ultimi 19 anni, a lui è interessato solo fare il lavoro migliore possibile in campo, esserci sempre per i suoi compagni e per la sua famiglia. Questo è il vero Tim Duncan. 

Proprio lo scorso 18 dicembre, durante la cerimonia per il ritiro della sua maglia con il numero 21, insieme ai discorsi altrettanto emozionanti degli ex compagni Tony Parker e Manu Ginobili, il coach lo ha nuovamente celebrato così:

Non voglio parlare ancora di rimbalzi, punti e tutte cose di questo genere.[…] Come hanno detto tutti: la sua empatia, la sua abilità nel far sentire le persone accolte e nell’essere una guida in silenzio, ma con dignità e serietà, lo rendono più speciale di chiunque voi possiate immaginare. 

Il loro incredibile legame risulta evidente anche dalla risposta dello stesso Timmy; infatti, dopo aver salutato e scherzato con il suo pubblico: 

Ho vinto una scommessa sta notte. Non indosso i jeans. Indosso una giacca sportiva e ho parlato per più di 30 secondi.

…ha ringraziato tutta San Antonio, tifosi, compagni e staff, concludendo con: 

Grazie, Coach Pop, per essere stato più di un coach- per essere stato più simile a un padre per me. Grazie.

Oggi fortunatamente riesce a non far sentire la sua mancanza alla squadra, avendo preso uno per uno i suoi ex compagni sotto l’ala protettrice da buon maestro e avendo visto crescere con la sua filosofia grandissime stars. Tra i pupilli con i quali Timmy ha condiviso il parquet e a cui ha dato tutto il suo aiuto troviamo anche Kawhi Leonard, attuale giovanissima ala di San Antonio.

2011

Terza e ultima tappa del nostro cammino.

Gli Indiana Pacers draftano al quindicesimo turno il giovane Kawhi Leonard, già promessa della grande pallacanestro dopo soli due anni di college. Il giocatore viene, però, ceduto ai San Antonio Spurs, in cambio di George Hill. Qui, trova subito spazio e in numerose partite della prima stagione entra nel quintetto titolare, come sostituto dell’infortunato Manu Ginobili. Grazie al ritorno di quest’ultimo e all’ascesa di Danny Green, ogni pedina torna al suo posto e lui può finalmente ricoprire il naturale ruolo, ossia quello di ala piccola. Il 2014 è l’anno della vera e propria consacrazione; trascina, infatti, gli ormai suoi Spurs alla conquista del quinto titolo, difendendo attentamente il principale pericolo: the king Lebron James.

La sua capacità di interpretare alla perfezione il pick-and-roll, sia in attacco, grazie alla sua velocità, che in difesa, lo rende il degno erede di Timmy tra corridoi e parquet dell’AT&T Center.

Inoltre, si contraddistingue per eleganza nei movimenti, assiduità in difesa e agilità, senza tenere conto del fatto che al momento è il terzo miglior tiratore da 3 della lega. A differenza dell’Ammiraglio e di Timmy, Kawhi ha già le idee chiare fin da piccolo. Il suo pediatra ha raccontato che quando Leonard aveva solamente 7 anni lo ha interrotto durante una visita medica per informarlo che “da grande” sarebbe andato a giocare in NBA. La risposta del medico, chiaramente, è stata;

Sai quanti bambini vengono in questo ufficio e me lo dicono?

ma solo oggi possiamo sapere quanto avesse ragione.

Quello che lo porta, quindi, a realizzare il suo sogno sono la dedizione e, soprattutto, l’amore per il basket. “Lui ama il gioco e ignora il resto.” ha spiegato coach Popovich. “Quando Kawhi fa un errore, ne è molto dispiaciuto. Lui non vuole deludere nessuno, né gli altri né se stesso”. ha spiegato in un’intervista lo stesso Pop.  Parlando di lui, Chip Engelland, assistant coach di San Antonio, ha spiegato che Kawhi non punta ad essere un giocatore da partite da 50 punti; il suo obiettivo è quello di non sembrare un buon giocatore per una sola notte, ma grande a lungo.

Anche lui, inoltre, come Robinson e Duncan, non è alla ricerca di prime pagine nelle riviste o di stravaganti celebrazioni, qualità che ben si adatta allo spirito che caratterizza gli Spurs, basato sul gioco di squadra (in campo e negli spogliatoi) più che sull’esaltazione di singoli fuoriclasse.

Non mi piace attirare l’attenzione. Non mi piace fare scena. Il basket è sempre stato uno sfogo, non un vetrina; un mezzo per evadere più che per trovare gloria.

…ha raccontato lui in persona. Sebbene alcuni lo giudichino, parlino male di lui o creino storie sul suo conto, lui sembra non notarlo, a lui non importa. A dimostrazione di questo disinteresse nell’ostentare le sue capacità e quello che ha, spesso guida una Chevy Tahoe del ’97 riabilitata e soprannominata “Gas Guzzler” (“cuccia benzina”), con la quale da ragazzino ha intrapreso varie avventure lungo il sud della California. “Va avanti – ha spiegato – ed è pagata.”

Il suo attuale compagno di squadra David West lo ha addirittura definito un “Tim Duncan 2.0”. Nonostante il loro comune odio per i riflettori, però, Timmy aveva una straordinaria empatia e capacità di rapportarsi con i suoi compagni, che difficilmente possiamo ricondurre anche a un giocatore introverso e chiuso come Kawhi. La strada è ancora lunga e Leonard è ancora molto giovane, ma, ora che la squadra è nelle sue mani, l’abilità in campo e l’amore per il basket sembrano promettere davvero bene come è successo con i suoi due predecessori.

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Pubblicato da
Elena Zoppè

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