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The Dark Side of the Game 8/8: Rod Hundley

Quasi un paradiso, l’Ovest Virginia, lambito dalle Blue Ridge Mountains ed il fiume Shanandoah. Qui la vita è vecchia, più vecchia degli alberi e più giovane delle montagne e cresce come una brezza nelle stradicciole di campagna. Queste sono le parole con cui John Denver celebrava nel suo successo country “Take me Home, Country Road”  la regione dei monti Appalachi: un fazzoletto d’America orientale dove natura e civiltà convivono in un armonioso idillio che appaga, ancor prima delle iridi, l’animo stesso dell’uomo.

Siamo per la precisione a Charleston, non quella dove trovò cittadinanza l’omonimo ballo di jazzistica derivazione, ma a Charleston capitale, quella in cui, nell’anno 1934, nacque Clark Rodney-detto-Rod Hundley.

Elettrizzante showman sul campo ed in seguito suadente voce al microfono, Hot Rod è stato per più di mezzo secolo il beniamino di tutti i tifosi d’America, grazie soprattutto alle sue giocate, avanti anni luce rispetto agli standard dell’epoca, e alla circense propensione per le buffonate. Ma andiamo per gradi, senza bruciare le tappe…

credits to:”exNBA”, tramite Google

Figlio unico di un baro, ma baro per davvero, ed una maitresse per case d’appuntamento della West Virginia, Rod Hundley mostrò segni di squilibrio sin dalla giovane età, dovuti al fatto di essere sballottato in continuazione come un pacco per le abitazioni di amici e parenti dei genitori, separati dopo pochissimo tempo dalla sua nascita. Ma se con casa intendiamo un luogo ospitale in cui un uomo possa sentirsi a proprio agio e ben voluto, beh allora le dimore di Rod Hundley furono i circoli YMCA, i campi da pallacanestro e soprattutto le sale da biliardo, dove persone di tutte le età ed astrazione sociale avevano licenza di bere e di fumare talmente tanto che per vedere in faccia l’interlocutore, con cui di norma si aveva appena scommesso sulla buca in cui sarebbe finita la 8 nera, era necessario prima diradare una cortina di fumo da fare invidia all’Hammam di Solimano I.

Dopo avere infranto ogni record di punti che ci fosse da infrangere alla High School della città e fatto perdere la verginità a più di mezza coetanea popolazione femminile di Charleston, Hot Rod nel 1954 andò a giocare per i West Virginia Mountaineers, con i quali di lì a poco sarebbe divenuto il primo vero eroe della Nazione.

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Negli anni ’50 il basket americano stava attraversando un momento di profonda crisi interna, falcidiato dagli scandali connessi al mondo delle scommesse, una piaga d’Egitto alimentata anche da un personaggio chiaroscuro di cui in questa rubrica abbiamo già parlato (vedi Jack Molinas). Parafrasando quindi le parole di Fred Schaus, allenatore di Hundley a West Virginia e poi ai Lakers, Hot Rod fu una vera e propria boccata di ossigeno per i tifosi di quegli anni. Con vitalità e simpatia, egli fu capace a modo suo di riportare l’immaginario di tutti al caro vecchio sport, quello fatto di sudore e di sana competizione, con un personale pizzico di follia.

Sin dal primo anno, Hundley iniziò a far parlare di sé come del giocatore più bizzarro mai visto sul parquet. Fu lui ad introdurre il passaggio dietro la schiena e poi fra le gambe nello stesso movimento, lui a regalare bombe da sette metri tirando in ginocchio e sempre lui a gettare le basi per quegli atteggiamenti di cui Bird e Garnett nel tempo ne avrebbero fatto l’arte del trash talking. Nessuno prima di Hot Rod infatti avrebbe mai anche solo sognato di sedersi sulla panchina avversaria durante i time out, o di aggrapparsi al ferro tipo scimmia per aspettare in tutta tranquillità un passaggio smarcante.

Era come un pifferaio magico, più ne combinava e più le persone erano attratte da lui

dirà in futuro Jerry West, il quale sarà prima suo erede naturale a Virginia e poi compagno di squadra nei Los Angeles Lakers.

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Ma pagliacciate a parte, Hot Rod a basket ci sapeva giocare per davvero e lo dimostrò assai bene al college, dove garantì ai Mountaineers l’accesso per la prima volta nella loro storia al campionato NCAA, guidando la classifica marcatori e migliori rimbalzisti con medie da capogiro (26.6 e 13.1 rispettivamente). Dopo averne segnati anche 62 di punti contro Ohio University, neanche a dirlo Hundley si consacrò il freshman più amato del campus, soprattutto dalle signorine, le quali non lesinavano nell’offrire a questo seduttore di professione le proprie grazie più recondite.

Nell’anno da sophomore, Hot Rod tornò a far parlare di sé e del proprio lato più giullaresco quando, a soli due punti dallo stabilire il record realizzativo dei suoi West Virginia Mountaineers, decise di tirare i liberi decisivi nelle maniere più stravaganti possibili: prima un gancio cielo mancino, che non era la sua mano forte, e quindi un tiro con le spalle rivolte al canestro…ovviamente solo cotone, ma questa volta senza che la palla fosse passata prima attraverso l’anello arancione.

L’anno dopo si superò, prendendo a tirare dalla linea della carità solo dopo aver fatto girare la palla sull’indice un paio di volte e quindi averla boxata con una serie di jab ben assestati. Alternativamente a questo numero, quando le partite erano già decise, Hot Rod tirava da qualsiasi posizione con due mani, lasciando partire mattoni da costruzione che se non piacevano molto al suo coach, facevano invece impazzire il pubblico della Old Field House.

Nessuno ha mai più fatto le cose che ho fatto io sul campo.

Eccerto Rod, anche se questo non saprei dire fino a che punto sia stato un merito.

Con comunque a referto una media di 23 punti, 10 rimbalzi a partita e 5 conquiste morose la settimana, Hundley venne scelto al Draft NBA con la prima assoluta dei Cincinnati Royals (progenitori degli odierni Kings) e quindi subito scambiato ai Minneapolis Lakers, di cui non serve che vi spieghi di chi fossero gli antenati.

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Nel Minnesota prima ed ancor più a Los Angeles poi, vicino alla fabbrica di sogni Hollywoodiana che per spettacolarità era il suo habitat naturale, Hot Rod trovò terreno fertile per inscenare veri e propri cabaret con la palla in mano. Se gli Harlem Globetrotters in quegli anni non avessero contato sui servigi di Meadowlark Lemon, beh potete scommetterci un George Washington che al buon Hot Rod una telefonata a stelle e strisce sarebbe certamente arrivata.

Nella NBA Hundley militò per soli sei anni, durante i quali trascorse molto più tempo fra locali notturni e sale da biliardo, piuttosto che in palestra ad allenarsi. Mettiamoci dentro anche un infortunio al ginocchio dal quale mai più si sarebbe ripreso completamente ed abbiamo il motivo per cui nella Lega Hot Rod non brillò come giocatore professionista. Era in parole povere un burlone, mai noto per la sua difesa, tant’è che nei libri di storia compare ancora la sua irriverente risposta a Schaus, quando il coach inviperito gli sbraitò:

«Ma non ti avevo detto di marcare Cousy?»

«Ma chi Bob? Forte vero?»

Vabbè, qui abbiamo a che fare con copioni Plautini. Eppure la sua stella rimase alta e tutti continuarono ad amarlo anche nel massimo campionato del mondo, fino a quando negli anni 1960 e ’61 fu eletto con suffragio universale per il quintetto titolare dell’All Star Game. A carriera finita però, ad Hunley piacque molto di più autoproclamarsi un 6 volte All Party, un suo modo per sottintendere il titolo di imbattibile anfitrione delle feste.

Solo alla morte, avvenuta a Phoenix nel 2015, riuscì di strappare Hot Rod dal mondo cestistico, poiché in seguito al ritiro dal basket giocato, Hundley si occupò sin da subito di telecronaca, diventando nel 1974 la voce ufficiale degli Utah Jazz. Fu lui a coniare l’espressione forse più riutilizzata dai giornalisti di tutto il mondo nella storia di questo sport:

Stockton to Malone!

E anche a settant’anni suonati continuò a far deflagrare i cuori di pulzelle anche molto più giovani di lui, persino nel pudico Stato dei Mormoni.

credits to:”The Salt Lake Tribune”, tramite Google

Eccoci quindi arrivati alla conclusione della rubrica. Tutto giunge ad una fine ed anche per noi è il momento dei saluti. Sono trascorsi otto sabati, otto meravigliosi sabati di basket sotterraneo: quello troppe volte taciuto, quello disdegnato, quello oscuro. Ma anche quello senza cui tutto ciò che di buono c’è oggi nella pallacanestro (e come sappiamo è tantissimo) non sarebbe egualmente luminoso. Abbiamo ricordato omicidi, storie di droghe, storie di scommesse, ma anche di grandi uomini, ai quali spesso è stata negata una possibilità o loro stessi se la sono giocata, bevuta, fumata e via dicendo. Trovo quindi doveroso sdrammatizzare il tutto con un sorriso di commiato sulla faccia, con l’estremo saluto al da poco defunto Hot Rod, che la terra gli sia lieve, un giocatore divertente che è stato tutto il contrario di tutto e del quale la maglia numero 33 venne ritirata dai Mountaineers nel 2010, al suono della melodia di Denveriana memoria che sotto riporto e con cui vi auguro un felice e sereno Natale.

Rien ne va plus, les jeux sont faits.

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Pubblicato da
Francesco Zuppiroli

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