Avete mai provato quel senso di insoddisfazione e di vuoto che rimane dopo aver appena sfiorato un traguardo ambito? Vi è mai capitato di sentire il sapore amaro della sconfitta sulla lingua appena un attimo dopo aver pregustato una dolcissima vittoria? Quello sbigottimento interiore, quel senso di vuoto e di incompiuto, deve essere una delle peggiori sensazioni che si possano provare in un’intera vita. Perché è sostanzialmente vero quello che dice un vecchio adagio d’autore anonimo, che quando si arriva secondi:
Non vinci l’argento. Perdi l’oro.
Nella storia dello sport, e più specificamente in quella della NBA si contano storie simili a non finire. In effetti per ogni vincitore c’è sempre qualcuno che dall’altro lato si è sentito a un passo del titolo e che poi si è visto costretto alla sconfitta. Ma nessuno ha mai raggiunto il livello di frustrazione sportiva che deve aver assalito un giocatore che per tutti gli anni Sessanta ha dominato la lega, senza mai, ma proprio mai, riuscire ad assaporare quella dolce sensazione che regala la vittoria. Questa è la sua storia: la storia di Elgin Baylor.
La vittà di Washington D.C. negli anni Trenta; credits to: pinterest.com via Google
La città di Washington D.C. è sempre voluta essere il simbolo dell’americanità. Progettata e voluta come capitale federale della nuova, nascente nazione degli Stati Uniti d’America, è stata costruita seguendo un piano prestabilito fatto anche di simboli, di monumentalità, di celebrazione degli artefici della sospirata indipendenza. E così, nel corso degli anni, il District Columbia è sempre stato un po’ lo specchio dello stato del paese, rappresentandone vizi e virtù, come una trasposizione in scala degli Stati Uniti interi. Per questo è sempre stata una città meravigliosa e problematica, grande e dispersiva, simbolica e violenta. E lo era anche in un lontano 16 settembre 1934, quando alla Casa Bianca sedeva Franklin D. Roosevelt, la crisi economica cominciava a lasciare spazio alla speranza del New Deal e Washington D.C. era un tripudio di cantieri e costruzioni, tra edifici governativi che nascevano, e case costruite per i dipendenti di quei nuovi uffici. In quel giorno di settembre, in una di quelle case di Washington, il signor Baylor aspettava impaziente che sua moglie desse alla luce il loro bambino. Era un parto difficile, e lui era preoccupato.
Un bell’orologio da taschino Elgin; credits to: antiques-atlas.com via Google
Quando finalmente sentì i primi vagiti, abbassò istintivamente lo sguardo verso il suo bell’orologio da taschino per registrare, nella sua mente, che ore fossero. E gli occhi gli caddero sulla marca del’oggetto, in bella mostra stampigliata sul quadrante. Elgin. Gli sembrò un nome perfetto. Il nome perfetto per quel bambino che lo aveva fatto tanto aspettare. Fu così che ricevette battesimo Elgin Gay Baylor.
Fu un bambino scapestrato, poco interessato allo studio, e molto allo sport, anche se l’incontro con quello che gli avrebbe cambiato la vita lo fece piuttosto tardi. Elgin Baylor aveva 14 anni infatti quando prese in mano per la prima volta una palla a spicchi. Eppure capì immediatamente che cosa sarebbe stato in grado di fare. Lo aiutarono nella scelta anche i due fratelli, Sal e Kermit, che giocavano entrambi a basket. Quando cominciò il liceo alla Phelps Vocational High School, era già un giocatore disarmante. Era un esterno dinamico, dotato di velocità e atletismo. Non era altissimo, anzi, forse persino sottodimensionato per il suo ruolo in campo, ma aveva la straordinaria capacità di elevarsi a rimbalzo più in alto di tutti gli altri. Sapeva trattare la palla, quasi carezzandola con mani morbide ed educate. Era quasi buffo da guardare, per quel suo tic nervoso che lo induceva a fare su e giù col mento mentre giocava, quasi stesse sempre annuendo. Ma era letale. Tanto nel 1951, quanto nel 1952 fu All City (era il primo ragazzo di colore a riuscirci), facendo registrare anche uno straordinario record alla voce punti per l’area di Washington, a quota 44, parte di una stagione da 27.6 a partita. Ma per quanto fosse straordinario sul parquet, come abbiamo accennato Elgin Baylor era davvero poco interessato allo studio. I suoi voti rasentavano spesso il minimo possibile, non si applicava, la scuola era l’ultimo dei suoi pensieri. Si arrivò al punto che il severo padre lo mise di fronte alla scelta di cominciare a fare qualcosa sui banchi o andarsene a lavorare. Ed Elgin scelse di andare a lavorare. Si trovò un posto in un negozio di mobili della zona, a caricare e scaricare armadi. Nel tempo libero andava a giocare in qualche squadra di una piccola lega amatoriale della città. Giusto per non perdere l’allenamento. Nel frattempo però un certo Jim Wexler decise che fosse giusto infrangere il record di punti fatto registrare da Elgin mettendone 52. La notizia girò, e forse fu anche per questo che, quando aprì la nuovissima Spingarn High School, Elgin Baylor decise di iscriversi, per tornare a far parte di una squadra liceale. Giocò una stagione pazzesca, fenomenale, a 36.1 pts di media, coronata dalla serata del 3 febbraio 1954. Era il suo ritorno sul parquet della Phelps. Da avversario. Ci arrivò concentrato e cattivo. Quando suonò la sirena dell’intervallo lungo aveva segnato 31 pts, ma aveva quattro falli a carico. Il coach della Spingarn gli chiese se riusciva a giocare senza fare altri falli per tutto il secondo tempo. Ed Elgin annuì. Nel secondo tempo Baylor non sfiorò più nessun giocatore avversario, segnando comunque 32 pts. Alla fine della partita faceva 63, con annesso record di punti per la Washington area. Fu una prestazione di una grandezza epocale. Ma non bastava. La scarsa attitudine scolastica di Baylor era più che nota, e la cosa gli causò dei problemi quando si trattò di intraprendere la carriera collegiale.
Non c’era un’università interessata a offrirgli una borsa di studio sulla base di quei risultati scolastici. Fortunatamente però Elgin aveva qualche conoscenza a Washington, qualcuno che, avendolo visto giocare, sapeva che razza di peccato sarebbe stato impedire a quel ragazzo di proseguire nella sua carriera. Un amico fece qualche telefonata (il che doveva essere una cosa costosa negli anni Cinquanta) e alla fine riuscì a trovargli un posticino al College of Idaho, una piccola università in quel di Caldwell, all’incirca a 2.500 miglia da casa. Dalla piccola rappresentazione dell’America agli Stati Uniti veri e propri. Ma il basket, dopotutto, era un linguaggio universale, e anche se Baylor era andato lì sia per lo sport con la palla a spicchi che per il football, era sul parquet che dava il suo meglio. Nella stagione 1954-55 un College of Idaho senza troppe pretese gli dette tutto lo spazio possibile, e lui ringraziò compilando medie assurde: 31.3 pts e 18.9 rbd a partita. Una cosa fuori dal mondo. Ma il programma di basket stava per andare incontro a serie restrizioni economiche. Alla fine della stagione il coach venne licenziato e le borse di studio ridimensionate o sottratte del tutto ai giocatori. Ed Elgin Baylor fu uno di quelli che se ne videro privati del tutto, visto che il suo rendimento accademico continuava a non essere scintillante. Eppure l’anno in Idaho doveva essere bastato. Gli arrivò un’offerta da Seattle University, e lui accettò, anche se a causa delle regole NCAA dovette restarsene da parte per un’intera stagione, durante la quale si tenne in allenamento giocando nella AAU, la lega amatoriale, per i Westside Ford. Del resto quale scelta aveva?
Baylor in azione con la maglia di Seattle; credits to: sportpressnw.com via Google
Al suo rientro però, furono fuochi d’artificio. Tenne medie esorbitanti, che parlavano di 31 pts e 19 rbd a partita, facendosi guida assoluta di Seattle, soprattutto nel 1958. Fu un anno di grazia. Il college non partiva coi favori del pronostico (era infatti diciottesimo nel ranking nazionale) ma Baylor seppe trascinare squadra e compagni oltre l’ostacolo ben più di una volta. Il risultato fu la cavalcata trionfale verso la Finale del torneo NCAA, contro i supercampioni di Kentucky del santone del college basketball, Adolph Rupp. Fu partita, partita vera, ma alla fine l’organizzazione dei Wildcats prevalse sulla furia agonistica di Baylor e soci. Arrivò la sconfitta (un ingeneroso 84-72) anche se Baylor, con la sua partita da 25 pts e 19 carambole meritò comunque almeno il titolo di Most Outstanding Player delle Final Four. Emmett Watson, ai tempi autore conosciutissimo di Sports Magazine, scrisse di lui:
[Baylor] è il miglior giocatore di basket del pianeta. Professionisti inclusi.
credits to: seattletimes.com via Google
Occhio lungo il buon Emmett. Così come l’occhio lungo ce l’avevano gli osservatori dei New York Knickerbockers, che cominciarono a fare pressione sul giovane Baylor, nel tentativo di convincerlo a rimanere un anno di più al college per poi accaparrarselo l’anno successivo. Ma come si è detto e ripetuto, la scuola non faceva assolutamente per Elgin Baylor e lui ne era ben cosciente. Con una straordinaria sicurezza nei propri mezzi, e con la certezza di essere la prima scelta predesignata, Elgin si rese eleggibile per il Draft NBA di quell’anno, e attese di scoprire i colori della maglia che avrebbe indossato.
La lega era cambiata molto rispetto ai suoi primi vagiti. La competizione si era fatta intensa, grandi star popolavano i parquet, e la prima grande dinastia che l’aveva dominata si era da tempo spenta. I Minneapolis Lakers di George Mikan, Jim Pollard e Vern Mikkelsen erano caduti in una spirale discendente che li stava lentamente portando al fallimento. Il proprietario della franchigia, Bob Short, era disperato. Se non fosse riuscito a risollevare le sorti della squadra non gli sarebbe rimasta altra speranza che dichiarare bancarotta. Ottenere la prima scelta in quel Draft 1958 (grazie al mestissimo record di 19-53), fu una manna piovuta dal cielo. La decisione di Short era ovviamente telefonata: la scelta della sua squadra sarebbe stata Elgin Baylor, anche se il giocatore non gli rese esattamente le cose semplici chiedendo, per firmare, una cifra mai sentita: 20.000 dollaroni sonanti. Un capitale. Una somma spropositata. E Short accettò, cambiando d’un colpo i destini dei Lakers. Il pubblico cominciò a tornare all’arena, facendo raddoppiare, triplicare le entrate. Non si contarono più i sold out, la Baylor-mania esplose e contagiò i tifosi dei Lakers, ma anche degli avversari. Ogni notte era Elgin Baylor l’attrazione numero uno dello spettacolo, la stella indiscussa. E non poteva essere altrimenti.
Baylor in maglia Lakers, a Minneapolis; credits to: dailyyonder.com via Google
Nel suo anno da rookie fece registrare cifre sontuose, mettendo a referto 24.9 pts, 15 rbd e 4.1 ass, andando a prendersi, di diritto, il titolo di migliore matricola dell’anno, stampando in faccia ai Cincinnati Royals una prestazione da 55 pts (all’epoca la terza migliore su una singola partita, dopo i 63 di Fulks e i 61 di Mikan) e soprattutto trascinando i Lakers dai bassifondi della lega al luogo che spettava loro: la Finale NBA. Ad attenderli, però, c’erano i Boston Celtics di Bill Russell, che stuprarono quella squadra giovane e speranzosa, massacrandola in sole quattro gare. Era il primo sweep della storia delle Finals, e Baylor era dalla parte sbagliata. Ma c’era tutto il tempo del mondo, lo sapeva. Tutti lo sapevano. Nella successiva annata 1959/60 Elgin continuò a martellare cifre importanti, con i suoi 29.6 pts e 16.4 rbd a partita (conditi anche da 3.5 ass), con una prestazione monster da 64 pts contro i Boston Celtics (allora record NBA per punti segnati in un singolo match), ma la squadra non era più la stessa e le vittorie non arrivavano. Il coach, John Castellani, venne rimpiazzato a metà stagione dalla leggenda Jim Pollard, ma nulla poté nemmeno lui, e quando il volo che doveva portare la squadra in trasferta precipitò, rasentando un’immane tragedia, fu il segno divino che il tempo della franchigia in Minnesota era ormai finito. Short decise di tentare l’ultimo salvataggio, prese baracca e burattini e si spostò nel più grande mercato che gli Stati Uniti d’America avessero da offrire: la città di Los Angeles.
E con la maglia dei Lakers in California; credits to: pinterest.com via Google
Il cambiamento di scenario non ebbe ripercussioni sulle prestazioni di Baylor, che a lungo andare si era abituato ai grandi spostamenti. Nel 1960/61 mise a segno anche 71 pts in una singola partita contro i New York Knicks. Aspettate, lo riscrivo per gli increduli: nel 1960/61 mise a segno 71 punti in una singola partita. A margine prese anche 25 rbd. Era record NBA. Un record parte di una stagione da 34.8 pts e 19.8 rbd. Los Angeles migliorò, approdando alle Conference Finals, ma perdendo contro i St. Louis Hawks. La strada però era tracciata, e a Baylor e compagni non restava che seguirla. Ma quel 1960 era stato fondamentale anche per un altro motivo: il record di 25-50 messo insieme nell’ultima annata in Minnesota aveva fruttato la scelta di tal signor Jerry West. Un grandissimo. Un predestinato. Lui ed Elgin si amalgamarono da subito alla grandissima. E Baylor ne beneficiò in modo particolare. Non a caso la sua produzione di impennò a toccare i 38.3 pts a partita (con una leggera flessione alla voce rimbalzi, “solo” 18.6) nel 1961/62, quando i Lakers vinsero 54 partite, e trovarono un solo ostacolo alla gloria finale. I Boston Celtics di Bill Russell che li sconfissero, di nuovo (anche se stavolta furono necessarie sette gare), nonostante i 61 pts e 22 rbd messi a segno da Elgin in gara-5. Non c’era fretta però. C’era ancora tempo per vincere.
Nel 1962/63 Baylor e West si presentarono vogliosi e cattivi. I Lakers guidati dalle loro due bocche da fuoco fagocitarono la stagione regolare con 53 vittorie e Baylor a farne registrare 34 a partita tondi tondi. La postseason fu un successo, almeno fino all’approdo alle Finals contro, indovinate un po’, i Boston Celtics di Bill Russell. Servirono sei gare per determinare la sconfitta giallo-viola. E stavolta nessuno disse più che c’era tempo. Stavolta ci fu chi cominciò a pensare che sconfiggere quei dannati bianco-verdi fosse impossibile. Baylor voleva dimostrare che non era così, e si presentò ancor più scalpitante ai nastri di partenza nel 1963/64. La squadra però non riuscì a reggere i suoi ritmi, e anche lui abbassò la sua produzione (25.4 pts e 12 rbd a partita, s’è visto decisamente di peggio). Il risultato fu che i Lakers uscirono ben prima delle Finals, contro i St. Louis Hawks. Una cocente delusione.
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Nel 1964 Elgin Baylor cominciava ad invecchiare. Aveva trent’anni, e voleva mettere qualcosa in bacheca. Era stanco di provare il sapore amaro della sconfitta. Era stanco di essere sul punto di trionfare per dover poi tornare indietro. Voleva vincere. Ma di nuovo la stagione si mosse secondo un leitmotiv già sperimentato: Baylor dominava, i Lakers vinsero 49 partite, in finale c’erano i Boston Celtics, e arrivò la sconfitta, in cinque gare. L’unica differenza fu un serio infortunio al ginocchio che avrebbe limitato seriamente la prepotenza atletica di Baylor in futuro. Piove sempre sul bagnato. La frustrazione di Elgin era ai massimi storici. Quello che prima era un sospetto divenne certezza: era una maledizione. La maledizione dei bianco-verdi. La maledizione dei Boston Celtics. Una maledizione che colpì ancora l’anno successivo, quando i Lakers, nonostante un Baylor da 16.6 pts e 9.6 rbd di media ( i dati peggiori dal suo ingresso in NBA) approdarono alle Finals solo per essere di nuovo battuti, 4-3 dagli eterni rivali guidati da Russell. L’obiettivo, isterico, di Elgin Baylor non era più quello di vincere semplicemente il titolo. Voleva battere i Celtics. Distruggerli. Cancellarli dalla faccia della Terra. Demolirli. Ma nonostante il suo ritorno sui 26 pts di media nel ’67 i Lakers fallirono l’appuntamento con le Finals e nel ’68 caddero di nuovo in sei gare, vittime sacrificali del Celtics. L’establishment decise di portare in squadra l’ennesima stella. L’ultimo tassello per una irrazionale caccia a un titolo che sfuggiva da troppi anni. E nell’estate del 1968 giunse a Los Angeles Wilt Chamberlain.
Il magnifico trio, da sinistra: Elgin Baylor, Wilt Chamberlain, Jerry West; credits to: nbadaily.net via Google
Era lui il Titano che mancava? Elgin Baylor, e con lui tutti i Lakers, ci speravano profondamente. Los Angeles vinse 55 gare quella stagione, con un Baylor da più di 24 punti a partita, e la strada verso le Finals fu lastricata di successi. All’appuntamento conclusivo, manco a dirlo, di nuovo loro, mai domi, nemesi di una vita intera. I Boston Celtics di Bill Russell. E, indovinate un po’, i Lakers persero di nuovo. In sette gare, dando battaglia in ogni singolo istante, mettendo gli avversari all’angolo, portando la franchigia più vincente di sempre più volte sul baratro della sconfitta. Alla fine della serie, nonostante tutto, Jerry West si sarebbe portato a casa il neo-istituito premio come MVP delle Finals, ben magra consolazione per uno affamato di successo come lo era lui. A tutt’oggi è l’unico giocatore ad aver vinto il prestigioso riconoscimento senza accoppiarlo con il titolo NBA. Un onore o una maledizione?
Se lo chiedete a Elgin Baylor non avrà dubbi. Era una maledizione, l’eterna estrema maledizione dei Celtics. Il nativo di Washington D.C. stava andando ben oltre i suoi limiti fisici, ben oltre i suoi limiti mentali e psicologici. La voglia di successo era tanto pervasiva che nemmeno gli infortuni sempre più ricorrenti, nemmeno l’età che avanzava inesorabile sembravano capaci di fermarlo. E nel 1969/70 l’occasione giunse servita su un piatto d’argento. I Celtics uscirono prematuramente di scena contro i sorprendenti e monumentali New York Knicks. La strada era spianata, la maledizione sfatata, il titolo sembrava a portata di mano per i giallo-viola. Ma Chamberlain scomparve nel confronto con Willis Reed, e i Lakers si sciolsero come neve al sole, lasciandosi sfuggire per l’ennesima volta la vittoria del titolo, anche contro avversari diversi.
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Ce n’era per gettare definitivamente la spugna per chiunque, ma non per Elgin Baylor, che aveva ormai sviluppato una fame di vittorie assolutamente allucinante. Alle soglie della sua 36esima primavera, Elgin decise di concedersi altre due stagioni con i Los Angeles Lakers. Altre due corse. Altri due tentativi. Andarono in modo drammatico. Nel 1970/71 giocò soltanto due partite, e guardò dalla panchina i Lakers andarsi ad infrangere contro i Milwaukee Bucks di Lew Alcindor. Nel 1971/72 ci vollero nove partite prima che gli onnipresenti problemi al ginocchio mettessero fine alla sua stagione. Un Elgin Baylor depresso e amareggiato annunciò qualche giorno dopo il suo ritiro dal basket giocato. Quelle nove partite sarebbero state le sue ultime giocate in una stagione di NBA. Aveva 37 anni. Aveva messo a segno 23.149 pts, catturato 11.463 rbd e distribuito 3.650 ass. 11 volte All-Star, 10 volte nel team All –NBA, aveva vinto un MVP dell’All Star Game (in coabitazione con Bob Pettit). Eppure non aveva mai vinto un titolo NBA. In quel 1972, alla fine, i Los Angeles Lakers riuscirono a regalarglielo, battendo per 4-1 i New York Knicks. Ma non i Celtics. Quelli rimasero un sacro e inviolabile tabù, una maledizione tenace che Elgin Baylor non sfatò mai.
Dopo la NBA la sua vita si divise tra una breve comparsata sul pino dei New Orleans Jazz, che si concluse nel 1979, e un lunga carriera dietro la scrivania dei Los Angeles Clippers, finita solo nel 2008, e che lo ha portato a vincere, nel 2006, il riconoscimento come Executive of the Year.
Son rimasti numeri disponibili?; credits to: schoobysports.com via Google
Riconoscimenti che non rendono giustizia a quello che fu, con tutta probabilità, uno dei giocatori meno celebrati della storia della lega. Certo vanno bene l’inclusione d’obbligo nella Hall of Fame e nella lista dei migliori cinquanta giocatori di sempre, e anche il ritiro della maglia #22 da parte dei Lakers. Ma non sembra essere abbastanza per un giocatore del quale un certo Jerry West disse:
Sento spesso parlare delle grandi ali di oggi. Ottimi giocatori, ma non ho ancora visto nessuno che possa essere minimamente paragonato a Elgin.
E ancora, Bill Sharman, suo coach ai Lakers ebbe a dire:
Posso affermare senza esitazioni che Elgin è stato il miglior cornerman mai visto su un campo da basket.
Si tratta di un giocatore che illuminava anche i suoi compagni con la sua immensità riuscendo tuttavia a non oscurarli. Come raccontava l’ex Knick Johnny Greer, in campo dalla parte sbagliata la notte in cui Elgin ne infilò 71:
È difficile da credere ma quella sera Elgin non fece nulla di speciale. Non forzò una sola conclusione, giocò normalmente, come se non gli importasse di quanti ne metteva. La squadra non giocò per lui, per fargli fare un record come per i 100 di Wilt. Solo che a Elgin veniva tutto naturale. Non sbagliava mai.
Ma tutte le parole scoloriscono di fronte alla definizione più vivida del giocatore, che ci è stata regalata da Tommy Hawkins:
Libbra per libbra, nessuno è stato così grande come Elgin. Nessuno!
Di sconfitta in sconfitta, assaporando la polvere e l’amarezza, Elgin Baylor è riuscito a fare qualcosa che normalmente non riesce a chi non vince: rimanere nei cuori della gente. La sua storia è quella del credito più grande mai vantato da uno sportivo nei confronti della Dea Bendata. Tutti gli ori e gli allori perduti sono lì, a testimoniare quanto grande e sfortunato sia stato quest’uomo, che avrebbe dovuto vincere tutto. E allora chi può negare che Elgin Baylor fosse un uomo di successo?
E quindi, forse, il detto che abbiamo usato all’inizio non è del tutto corretto, ma si prestano maggiormente, a definire il nostro eroe, le parole usate da un grande politico del secolo scorso:
Il successo è l’abilità di passare da un fallimento all’altro senza perdere il tuo entusiasmo.
Musica e testo di un inglese con il sigaro chiamato Winston. Winston Churchill. E se lo ha detto lui, chi siamo noi per metterlo in dubbio?