Centottantasette chilometri separano Phoenix da Tucson, meravigliosa città nel mezzo al deserto dell’Arizona, da dove inizia il nostro percorso. La Interstate-10 che collega le due città scorre via veloce mentre le luci del tramonto iniziano a confondersi creando una mescolanza di colori caldi e rilassanti, riflesso dell’anima. Ci troviamo in un paradiso solare ma le giornate iniziano ad accorciarsi rapidamente pure qua e anche se sono ancora le cinque di pomeriggio la notte inizia la sua danza.
Arrivati a Phoenix si respira subito la vastità della città, sconfinata. Non bellissima ad essere sinceri, molto cemento; non a caso molti di quelli che abitano qua spesso lo fanno per motivi lavoro o di studio. Raggiungere Downtown è molto semplice nonostante il traffico dei raccordi e dopo pochi semafori ci troviamo già all’incrocio tra 1st e Jefferson Street dove tra palme e grattacieli in vetro emerge la Talking Stick Resort Arena, casa dei Phoenix Suns e nostra meta finale.
È molto presto ma l’ansia incombe. Se soffri di quella malattia chiamata NBA ed hai l’opportunità di poter seguire per lavoro una partita dal vivo non hai tanta voglia di startene fuori a mangiare hamburger o ascoltare gli artisti di strada.
Controlli vari e istruzioni di ordinanza e siamo dentro. Ci sono pochissime persone, addetti ai lavori che dopo uno sguardo rapido al tesserino ti sorridono e ti lasciano passare. Ovunque vuoi. Sei ufficialmente diventato possessore di una chiave magica, che spesso non viene sfruttata a pieno. (Confesso di aver fatto tre volte il giro dell’intero palazzo ed aver varcato ogni porta accessibile, persino nei parcheggi, o i bagni, o i ripostigli pieni di cianfrusaglie Suns).
Mancano quasi due ore alla partita (contro San Antonio) ma sul campo ci sono già Leonard da una parte e Booker dall’altra che si scaldano. Vedere Leonard da vicino è impressionante. Sembra che ogni parte del suo corpo sia cresciuta in maniera spasmodica da un giorno ad un altro dandogli le sembianze di un supereroe della Marvel. Booker invece indossa una maglia celebrativa per Craig Sager, scomparso troppo presto. Riusciamo a prendere anche le (bassissime) parole di Popovich nel pre-partita. Non ha molta voglia di parlare, ne avrà ancora meno di allenare la partita ma agli Spurs basta il pilota automatico per battere Phoenix.
La presentazione dello starting-five dei Suns supera lo spettacolo offerto dai giocatori in campo.
Vedere i giocatori NBA dal vivo fa girare la testa. Non sempre si riesce ad afferrare dalla televisione quanto enormi siano, ma dal vivo ti senti quasi a disagio. LaMarcus Aldridge o Tyson Chandler per esempio andrebbero benissimo come piloni per un ponte. C’è pure Sean Elliott (che segue le partite di San Antonio per SpursTV): da dove veniamo noi (Tucson) è considerato più importante del sindaco e per questo gli perdoniamo l’aver ricevuto una postazione media migliore della nostra. Ma non ci lamentiamo affatto, anzi. Le postazioni superiori sono destinate a scout, giornalisti di testate minori e radiocronisti, mentre a bordo campo ci sono le televisioni con gli Sean Elliott di questo mondo e il nostro Security Guard preferito, Marcos, che ogni sera ci accoglierà con un sorriso paterno, come se avesse capito subito quanto ci sentiamo inadatti a tutto quello che ci circonda.
Tocchiamo l’apice dell’imbarazzo quando in un italiano biascicato dall’emozione (e dalla toscanità) chiediamo ad Ettore Messina un’intervista post-partita. Lui accetta, dimostrando grande educazione e professionalità. Gli Spurs sono in back-to-back, è tardi e si vede bene la stanchezza sul suo volto ma questo non gli impedisce di farci un micro punto della situazione sull’universo-Spurs. Grazie Coach.
Quello del Dietro le Quinte è un mondo molto interessante, nel quale puoi cogliere momenti e sensazioni invisibili agli schermi patinati dei dribble-hand-off televisivi. Vengono fuori le persone, almeno nella (minima) parte accessibile. È interessante per esempio vedere come la giostra NBA continui incessante anche a partita finita, costringendo tutti coloro che ne fanno parte ad essere costantemente sotto l’attenzione di qualcuno. Ne abbiamo avuto un assaggio contro Houston, dove il 95% dei media ― compresi noi ― una volta finita la partita fremevano per rubare due parole a James Harden. Ovviamente ci sono dei tempi di attesa, ed è sacrosanto permettere ai giocatori almeno il tempo di farsi la doccia, ma ci ha fatto comunque molta impressione vedere la calca di giornalisti attorno ad una persona che cerca maldestramente di mettersi le mutande.
Sicuramente gli viene pagato il disturbo e sicuramente ci sono situazioni peggiori, ma è sempre bene riflettere anche su quanto questo mondo (NBA e non solo) possa diventare avido, o freddamente consumistico. Ma è bene sorridere, soprattutto se Mike D’Antoni mette su un siparietto coi media preoccupandosi del fatto che potrebbe piovere e non vuole rimanere bloccato nel traffico. Scappa, prendendo il primo pullman dopo poche domande di routine, dove comunque dice cose interessanti come che per vedere i veri Houston Rockets serviranno ancora un paio d’anni ― non male neanche la versione attuale aggiungiamo noi. Il video (in inglese) lo trovate qui.
Quella contro i Rockets è la nostra seconda partita in programma e anche qui quando entriamo nel palazzo troviamo solo addetti alla sicurezza. Ah, c’è anche James Harden che prova alcuni jumper senza impegno. Vederlo giocare dal vivo è davvero divertente (Avevo avuto la fortuna di poterlo vedere anche un anno fa contro Sacramento, ma i Rockets della scorsa stagione erano un disastro e lui era…svogliato, diciamo così). Una partita dominata senza mai mettere la terza, con un controllo tecnico e soprattutto mentale su ogni cosa che lo circonda onestamente impressionante. Oltre ai soliti quattro/cinque cioccolatini regalati ai compagni il suo arsenale offensivo è sconfinato. Può arrivare al ferro in cinquanta modi diversi e abbiamo notato che a volte quando penetra usa il gomito opposto alla mano con cui palleggia per creare separazione dal difensore. È un gesto molto piccolo, ma estremamente funzionale e, più importante, fluido col movimento del corpo, tanto dal risultare invisibile agli arbitri ed evitargli il fallo in attacco. Prima della partita era stato accolto da un bel boato per via dei suoi trascorsi ad Arizona State University, qua a Phoenix. Ci aggiungiamo anche noi. MVB.
L’intervista (in inglese) a James Harden dopo la partita.
Anche la partita con gli Houston Rockets è volata via, figlia della superiorità dei texani e delle lemon bar del buffet all’interno della Media Room. Sembra che usino il cibo per compensare la qualità della partita: nelle due partite contro San Antonio e Houston, entrambe texane e soprattutto entrambe molto più forti dei Suns, si possono gustare specialità locali come il chili o i peperoni verdi da abbinare ad ali di pollo piccanti e buttermilk biscuits (una specie di pane fatto in casa pieno di burro, una delle rappresentazioni alimentari del sogno americano). Tutto buono ma niente di speciale. Fatevi bastare il poter vedere/scrivere di Leonard, Harden e Tony Parker. Quando invece arrivano i derelitti Philadelphia 76ers il livello si alza improvvisamente. Il meglio arriva sempre all’intervallo quando sul tavolo centrale ― di quella che è una stanza molto grande che prevede tavoli da lavoro, tavoli per mangiare, dispense di fogli, stampanti e televisori ― ci sono dolci e una vasca da bagno piena di popcorn. I love this game.
È passata una settimana dalla partita contro gli Spurs ma il paesaggio non accenna a cambiare, nonostante ci si avvicini a grandi passi a Natale. Deserto era e deserto rimane. Quella coi Sixers è l’ultima partita prima della grande festa e tutti all’interno dell’organizzazione Suns ci tengono a farvi gli auguri. Dai giocatori con messaggi più o meno banali sui maxi-schermi, ad altri con cambi di costume più interessanti.
Buon Natale a tutti quanti!
Il palazzo non si riempie quasi mai e anche se i tifosi di Phoenix sono discretamente calorosi ci sono sempre svariati spazi a giro per l’Arena. Il record recita 9-21 (dopo la partita contro Philadelphia) e la squadra non esprime proprio un gioco straordinario. Certo il talento grezzo non manca ed il più brillante è senza dubbio quello di Devin Booker: è lui il più coccolato del pubblico, il più apprezzato e quello sui cui tutta l’organizzazione spera di costruire un futuro migliore. Dopo la buona prestazione contro i Sixers viene intervistato da SunsTV, e lui ride mentre lo immortaliamo in un quadretto che racchiude al suo interno il passato il presente ed il futuro della franchigia.
Subito dopo tutti in spogliatoio per una doccia e magari un piatto caldo (la quantità di cibo nei buffet dei due spogliatoi basterebbe a sfamare una scuola elementare). Lo spogliatoio dei padroni di casa è ― ovviamente ― più ampio e spazioso. Su una parete ci sono il tabellone della Western Conference da aggiornare quotidianamente e due grandi lavagne sulla quali c’erano scritte le direttive per la gara. In un angolo Bledsoe e Ulis (che assieme a Booker condividono l’essere andati a Kentucky al college) se la ridono mentre lo prendono in giro tutte le attenzioni ricevute dalla stella ventenne.
Parlando di stelle, accanto a loro si cambia Bender e nonostante il rookie year sia sempre difficile sotto il profilo dell’adattamento ci sentiamo in dovere di rivolgergli uno sguardo di solidarietà: in un contesto così competitivo come quello dei Suns è inspiegabile quanto poco venga impiegata la quarta scelta assoluta dello scorso draft. Ovviamente lui non ci ricambia la cortesia, impegnato a leggere le notifiche di Instagram. (#freee)
Chi invece sta vivendo un anno da assoluto protagonista è Joel Embiid, assillato da alcuni reporter mentre cura i fragili piedi in una vasca di ghiaccio. È una tecnica molto usata tra i giocatori, soprattutto per le ginocchia. Nella partita contro Houston abbiamo visto Sam Dekker prenderne un paio di cubetti da una scatola e mangiarseli. L’essere andato al college nel Wisconsin deve avergli congelato il cervello.
Tornando ad Embiid. Un gigante che gioca coi bambini. Se la fortuna lo assiste e la sua dedizione per la cura dei dettagli continuerà ad accompagnarlo con la stessa energia tra due anni probabilmente il mondo sarà un posto diverso; un posto dove gli umani cercano di mettersi in salvo mentre Joel scoperchia palazzi. Il suo bellissimo sorriso africano viene uguagliato solo dalla sua impressionante coordinazione psico-motoria. Spesso la memoria tende a fuorviarci sulla percezione reale delle cose ma onestamente questo colosso camerunese assomiglia molto a qualcosa che non abbiamo mai visto. (Almeno quattro volte durante la partita ho avuto voglia di andare a Palo Alto ed abbracciare Sam Hinkie. L’umanità è sicuramente migliore adesso. Grazie ancora Sam.)
In attesa di conquistare il mondo però i suoi Sixers perdono la partita, regalando ai Suns la gioia della nona vittoria stagionale ed a coach Watson un Natale più sereno. Scende la tensione, quasi tutti lasciano l’arena, c’è voglia di andare a casa dalle famiglie e godersi le feste. E noi? Beh noi ci facciamo ancora una volta il giro del palazzo, ringraziando simbolicamente ogni persona che ci ha permesso di vivere a pieno questa fantastica esperienza. Prima di uscire un ultimo sguardo al campo, oramai vuoto di elettricità. È tempo di tornare a casa e mentre imbocchiamo di nuovo la I-10 ci lasciamo coccolare dalle luci delle macchine, sperando di essere stati all’altezza della situazione e con ancora l’entusiasmo della prima volta che ci esplode nel cuore.