I’m coming home.
Se siete appassionati di basket (e se state leggendo questo pezzo la probabilità che lo siate è piuttosto alta) queste parole vi suoneranno certamente familiari. Stavolta però non c’è nessuna campagna mediatica, nessun caso nazionale, nessun LeBron James di mezzo. Eppure il personaggio in questione non è certo uno qualunque. Fino a pochi anni fa i paragoni illustri con i mostri sacri della palla a spicchi erano all’ordine del giorno, mentre oggi il suo ritorno a casa scivola mestamente in secondo piano rispetto alle altre notizie di mercato. Certo, il passaggio di Kevin Durant agli Warriors non poteva fare a meno di catalizzare l’attenzione di addetti ai lavori e non: la prima pagina spetta ovviamente a lui, ma per trovare il nome del nostro uomo bisogna sfogliare diverse pagine di giornale, forse troppe. Eccolo lì, relegato in un misero trafiletto. Che fine ingloriosa per un Supereroe.
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Già, perché fino a qualche anno fa Dwight Howard aveva l’intera lega ai suoi piedi. L’erede di Shaquille O’Neal e dell’intera tradizione di centri dominanti aveva trascinato gli Orlando Magic fino alle Finals Nba, per poi soccombere sotto i colpi della premiatissima ditta Bryant-Gasol. Paradossalmente, quello che per molti avrebbe rappresentato il punto di partenza di una carriera memorabile, si è ben presto rivelato come il punto di arrivo precoce di un atleta fuori dal comune. Sulle sue potenzialità atletiche non aleggiano dubbi, ma un lustro di straordinari nel tentativo di portare Orlando nella casta dei vincenti lascia inevitabilmente il segno. Rimbalzo dopo rimbalzo, schiacciata dopo schiacciata, Dwight ha dovuto fare i conti con le fatiche e i dolori accumulati sulle sue spalle, nonostante un fisico bionico che con gli anni gli ha presentato un conto salato da pagare.
Se non in rarissime occasioni, Howard non può più affidarsi esclusivamente all’esplosività dei bei tempi, ormai adeguatasi agli standard degli altri centri. Le copertine, ma soprattutto le pressioni di Los Angeles hanno fatto il resto. Con Kobe non è stato esattamente amore a prima vista e se l’ormai ex leader dei Lakers non ti dà un briciolo di fiducia, il tuo destino è segnato: meglio fare le valigie e volare a Houston. O forse no?
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L’esperienza al fianco di James Harden, scappato via da Oklahoma per sfuggire anch’esso dal ruolo di comprimario che il talento di Durant e Westbrook gli aveva riservato, non dà i frutti sperati. I due, nonostante le smentite di rito, non hanno un grande feeling e sul parquet i risultati stentano ad arrivare. Sembra ormai che Howard abbia inevitabilmente imboccato la strada del declino psicofisico, diventando l’ombra di quel Superman che terrorizzava i centri avversari a suon di poster. All’alba dei suoi 31 anni Dwight Howard viene praticamente scaricato da quel sistema cestistico dal quale veniva venerato fino a qualche anno fa. Ormai agli occhi di tutti è un ex superstar spacca-spogliatoio, strapagata e per di più caratterizzata dalla totale assenza di etica del lavoro.
A giudicare dalla sua carriera professionistica non si direbbe, ma la leggenda narra che prima di approdare in Nba Howard fosse una sorta di Magic Johnson in grado di ricoprire qualsiasi ruolo in campo. Bei tempi quelli in cui dall’alto del suo strapotere fisico ridicolizzava impotenti ragazzini sui playground della sua Atlanta. Cosa fare dunque per revitalizzare una carriera ampiamente compromessa e tornare ai fasti di un tempo? Forse ritornare a casa potrebbe essere la soluzione giusta e in questo senso la ricca free agency della scorsa estate gli serve l’opportunità di risorgere dalle sue ceneri su un piatto d’argento.
Il figliol prodigo, dopo tanto peregrinare nella Western Conference, è tornato sulla East Coast per ritrovare sé stesso. È ancora presto per decretarne l’inaspettata rinascita o l’ennesima sconfitta, ma nelle prossime righe tracceremo un bilancio parziale della sua nuova avventura in Georgia, cercando di capire se, al di là delle statistiche, l’ex Superman abbia per caso trovato il modo di allontanare il più possibile la kryptonite che troppo spesso gli ha fatto compagnia negli ultimi anni.