NBA Heroes: LeBron James [parte 1]

Il ragazzino corre a una velocità impressionante, considerando il fatto che in contemporanea la mano poco più grande di quella di un bambino è impegnata a palleggiare a terra una sfera arancione delle dimensioni della sua cassa toracica. Quelle mani sembrano piccole in confronto al pallone – quelle braccia troppo esili per sostenere anche solo il mezzo chilo abbondante di peso – eppure la palla va, non intralcia il piccolo, che anzi sembra addomesticarlo come fosse una pallina da tennis, e non una sorta di anguria per la sua stazza. Quando entra in area, smette di palleggiare, mentre il piede destro va verso destra, subito seguito dal sinistro, che si muove nella medesima direzione con una coordinazione degna di un ballerino moscovita. L’avversario è ancora intento a guardare a destra senza capacitarsi di dove siano scomparsi all’improvviso uomo e palla, mentre lui alza quell’anguria sopra la testa, spingendola apparentemente senza fatica contro il tabellone. La palla bacia dolcemente prima vetro e poi retìna, friendzonando clamorosamente il ferro, terzo incomodo quasi mai considerato quando a farla partire sono quelle manine poco più che fanciullesche.

Il pubblico esulta ormai quasi per riflesso condizionato, abituato com’è a queste e altre simili giocate. Il più entusiasta, come spesso accade, è l’orgoglioso padre del ragazzino, che si alza in un applauso convinto. E’ bravo, il suo ragazzo, e lo sa. Sa anche che iniziano ad accorgersene anche i college, i media, tutti, e che questo è sicuramente bene, ma che a breve la pressione inizierà a salire inesorabilmente. Sa che presto avrà addosso forse addirittura più occhi di quanti ne aveva lui alla stessa età, che già ne aveva più di Tupac Shakur. Sa che è la croce incisa nel lato avverso della medaglia di chi nasce con un destino già scritto.

Ho trovato lavoro. Ci trasferiamo”.

Non ha molti ricordi che non siano accompagnati da quel destino impresso a fuoco nella pelle, eppure c’è stato un tempo in cui tutto era molto più vago e nebuloso. Un tempo in cui al suo compleanno, nel pieno del gelido inverno della nativa Akron (pochi chilometri a sud di Cleveland, Ohio), il migliore nonché unico regalo che potesse ricevere era questo, un trasloco. Più o meno come l’anno prima, giorno più, giorno meno. Come la scorsa estate, quando l’unica differenza era l’assenza di neve sulle strade.

E allora via, al seguito di una madre che è più simile a una sorella maggiore, e che è costretta a crescerlo senza nemmeno essere in grado di badare a sé stessa. 16 and pregnant, così comune negli States da consentire a una Mtv sempre più priva d’invettiva di farci un omonimo reality; e persino in tv il padre, anch’egli un ragazzino, tendenzialmente se la dà a gambe levate al massimo al quinto mese. Spesso c’è la nonna a fare da parafulmine, ma non in questo caso: tocca alla sola Gloria crescere il piccolo Lebron Raymone dandogli anche il suo cognome, curiosamente più comune del nome stesso, James. La loro esistenza è dettata dalla continua ricerca di lavoro della madre poco più che ventenne e dai conseguenti continui spostamenti alla ricerca di un impiego che dia stabilità.

Così non può andare, persino una ragazzina come Gloria se ne rende conto: e dunque, a malincuore, affida il figlio poco più che bambino ad una famiglia che possa garantirgli quell’agognata stabilità, i Walker, senza per questo uscire dalla sua vita. Il pater familias, Frank, è un allenatore giovanile di football, e ha notato che quel ragazzino, nonostante l’infanzia non esattamente passata negli agi, sta crescendo forte e prestante, con un atletismo e una coordinazione fuori dal comune per la sua età. Lo inizia al suo nobile sport, portandolo a giocare anche con la sua squadra giovanile, ma ha la mente abbastanza aperta da capire che forse sia più portato per un’altra disciplina; e così, quando ha 9 anni, gli mette dunque in mano una palla arancione, grande quanto la sua cassa toracica. Non ha ancora idea che quel semplice gesto avrà sul basket lo stesso effetto della mela caduta sulla testa di Newton per il mondo.

I risultati non tardano ad arrivare, quando solo pochi anni dopo il giovane figlio di Gloria stravince ogni torneo amatoriale di categoria a livello locale e statale. In Ohio il suo nome è già più famoso di quello di Gesù, ogni liceo farebbe carte false per averlo in squadra e, con ogni probabilità, garantirsi ottime chance di vittoria del titolo statale; ma Lebron, legatissimo ai compagni di squadra nei tornei AAU Dru Joyce III, Sian Cotton e Willie McGee, i primi ma non gli ultimi scudieri della sua nascente carriera, in una sorta di Decision parecchio ante litteram decide di continuare a giocare con i fidi compari e di portare con loro i propri giovani talenti alla St. Vincent-St. Mary. Una scuola privata, cattolica, a larga maggioranza bianca. Le reazioni, in particolare della comunità afroamericana di Akron, sono per così dire vivaci: e per la prima volta nella sua vita, Lebron inizia a intuire come le sue azioni inizino già a non passare più inosservate o ingiudicate.

Già nei primi due anni con la maglia dei Fighting Irish s’intuisce perché gli altri licei abbiano preso tanto male la scelta di James: non ce n’è più per nessuno. Nei primi due anni ventelleggia subito senza quasi faticare, perde una partita in tutto, vince 2 titoli statali. Da sophomore è già l’ovvio Mr. Basketball dell’Ohio (e lo sarà fino al termine del liceo) e nella prima squadra di USA Today a livello nazionale (anche qui threepeat). Da junior finisce sulla copertina di SLAM Magazine e poi di Sports Illustrated, primo non senior a riuscirci. SLAM lo definisce “il miglior liceale della nazione”, ed è effettivamente così: ormai non è più Lebron Raymone James, il ragazzino che cambiava più case che vestiti con la giovane ragazza madre, ma The Chosen One, il Prescelto, colui che avrebbe dovuto riportare equilibrio nella Forza cestistica.

Ma come Anakyn Skywalker, che proprio in quegli anni fa il suo debutto cinematografico, anche Lebron si rende conto di quanto sia pressante, opprimente, avere già una simile responsabilità quando si è poco più che adolescente, e cresce in lui il Lato Oscuro. Da junior perde addirittura 4 gare, compresa la finale per il titolo di stato, dopo che per l’intera settimana precedente al match si ritrova a far bisboccia con gli amici fino alle 5 del mattino. Dichiarerà in seguito di aver fatto uso ricorrente di marijuana in quel periodo per riuscire a gestire l’enorme mole di stress dovuta alla sua infinita visibilità. Dopo la sconfitta nella finale, medita fortemente di evadere da quel circo in cui si sente sempre più semplice fenomeno da baraccone per andarsene nella NBA, diventando il primo giocare a lasciare in anticipo l’high school.

La Lega non glielo consente per l’età, e così torna a St. Vincent per l’ultimo anno vincendo di nuovo il titolo statale, ma ormai è maggiorenne e le sue azioni sono ancora più sotto la lente d’ingrandimento: rischia addirittura di perdere l’intero anno quando accetta delle maglie in cambio di qualche foto promozionale per un negozio, e pure quando riceve una Hummer che dona alla madre Gloria. La squalifica viene poi ridotta a due sole gare, da cui rientra piazzando il career high di 52 punti: di rabbia, perché il suo unico intento era quello di aiutare in qualche modo la madre, ma il Prescelto deve già misurare persino i respiri nonostante i soli 18 anni, perché ha già, se non il peso del mondo, quantomeno quello dell’intero Ohio sulle spalle.

Non saranno questi inghippi a modificare una strada già segnata: il disegno del destino prosegue imperterrito, e fa sì che siano proprio i Cleveland Cavaliers, con una buona spinta dalla sacra attività del tanking 4 Lebron, ad aggiudicarsi la numero 1 al Draft del 2003 e quindi i suoi citati talenti. E’ un’estate strana, quella, ed è come se nell’aria si respirasse l’arrivo di un vento nuovo, che cambierà per sempre la Lega: è forse l’unico caso nella storia in cui anche molti veterani e senatori (se così si possono definire i vari Ricky Davis e Darius Miles, non proprio Jordan e Pippen…) partecipano alla Summer League per iniziare già a giocare con Il Rookie con la maiuscola. Che però, come ogni liceale che compie il triplo salto mortale per andare direttamente nella Lega, all’inizio subisce l’impatto con i pro: all’esordio ne scrive 25 con 6 rimbalzi, 9 assist e il 60% dal campo in faccia ai Kings, per poi chiudere a quota 21, 5.5 e 6 rispettivamente, con annesso e scontato ROY Award. Per Kwame Brown, il liceale prima scelta assoluta di due anni prima, stavano allora e stiamo tuttora ancora aspettando cifre vagamente paragonabili.

Anche in termini di vittorie la Big Mistake on the Lake cestistica vede un leggero incremento con il proprio figliol prodigo a roster: più che raddoppiate il primo anno (da 17 a 35), a quota 50 già al terzo, quando James ancora incide quasi zero sul cap col suo contratto d’ingresso in NBA, ma incide tremendamente sulla Lega scollinando già quota 30 a gara, assestandosi al secondo posto nei voti per l’MVP dietro il solo Steve Nash e aggiudicandosi l’MVP dell’All Star Game. In quel 2006, i Cavs tornano ai playoff superando pure il primo turno e costringendo addirittura i bifinalisti dei Pistons a gara 7 per avere la meglio sui ragazzi di coach Mike Brown. I quali, come spesso accade nella Lega, si prenderanno la propria rivincita l’anno successivo, in finale di conference. La serie, combattuta come l’anno precedente, è ancora nel segno dell’equilibrio sul 2-2 quando si gioca una cruciale gara 5 al Palace of Auburn Hills di Detroit. I Pistons, veterani di partite pesanti, conducono seppur di misura per quasi tutta la partita; hanno la miglior difesa in circolazione, hanno Tayshaun Prince che pare creato in laboratorio per marcare James, il quale infatti alla fine del terzo quarto è a quota 18 punti, pochi per uno con le sue medie inserito in quella squadra dai tremendi problemi offensivi. Ma è solo la quiete prima della tempesta, che si abbatte sui malcapitati Pistons a partire dall’ultima frazione: Lebron segna 30, dicasi, 30 punti tra ultimo quarto e i due overtime, compresa la schiacciata che forza il primo supplementare e il layup vincente al termine del secondo. Non c’è mezzo tiro che non sia con due, talvolta quattro braccia a pochi centimetri. La miglior difesa della Lega a un certo punto non sa più che pesci pigliare, il compianto Flip Saunders inizia ad alternare Prince, poi Billups, poi entrambi già a metà campo, poi a recitare un rosario affinché quella maledetta palla esca in qualche modo dalle sua mani infuocate. Perché se sarà lui a prendere il tiro, qualsiasi tiro, sarà immancabilmente canestro. Il neo analista Reggie Miller, che ha una vaga idea di cosa si parli avendolo conosciuto, ad un certo punto osa fare quel nome, definendo la prestazione “jordanesco”. Lebron Raymone James, da quella notte, non è stato più il Prescelto, ma il Re che ha compiuto il proprio destino.

Fino a qui, tutto bene: ma, come diceva la voce fuori campo all’inizio di L’odio di Mathieu Kassovitz, il problema non è la caduta, o in questo caso la salita, ma l’atterraggio, che qui diventa la capocciata. Perché se nei playoffs NBA si gioca uno sport diverso rispetto alla stagione regolare, nelle Finals se ne gioca uno ancor più complicato, e il neoeletto sovrano se ne rende subito conto a sue spese, quando sbatte letteralmente contro il muro difensivo degli Spurs. Tutto facile per i veterani di Popovich, ben più avvezzi a simili gare dei malcapitati ragazzi di Mike Brown, il cui sistema offensivo (se così lo si può generosamente definire) mostra tutti i propri limiti strutturali. Lebron, on the island, è tenuto solamente al 35% dal campo e 20% da 3, palesando a sua volta la propria discontinuità al tiro da fuori.

Urge un degno Wilson da mandare in aiuto al naufrago, ma nonostante gli sforzi della dirigenza il massimo che arriva alla corte di Cleveland è Larry Hughes e un Delonte West che, tra un arresto per possessi di arsenali e l’altro, pensa bene di flirtare pure con la regina madre, con quel che ne consegue in termini di coesione dello spogliatoio e conseguenti risultati (fuori al secondo turno coi Celtics dei Big Three). Va meglio col fido scuediero Mo Williams l’anno successivo, in cui i Cavs chiudono addirittura a quota 66 vittorie, grazie a un Lebron versione MVP stagionale; ma anche nei playoffs, dopo due serie superate senza alcun scivolone, Cleveland si scioglie come la neve primaverile di fronte ai buoni ma non certo leggendari Magic di Stan Van Gundy e il miglior Dwight Howard in carriera. James gioca una serie da 38.5 punti, 8.3 rimbalzi e 8 assist, eppure i Cavs escono 4-2, restando in corsa solo grazie alle sue giocate. Al termine di gara 6, la delusione è tale da farlo uscire dal campo senza nemmeno dare la mano agli avversari, in un gesto certamente poco regale ma significativo. Lebron Raymone James, il Prescelto, è effettivamente il miglior singolo del mondo, ma non ha ancora vinto nulla e questo tarlo lo sta rodendo dentro.

Quando anche l’anno successivo, nonostante l’arrivo di veterani del calibro di Shaquille O’Neal e Antawn Jamison, la seconda stagione consecutiva oltre quota 60 vittorie e il secondo MVP di fila, Cleveland esce da favorita al secondo turno con i soliti noti biancoverdi, è chiaro che ormai qualcosa si sia rotto tra il figlio di Akron e il suo stato che pare stregato in ambito sportivo, e la cui maledizione sembra ormai essersi impossessata persino del Prescelto. Non è un vincente, si dice, a Cleveland non sarà mai Re con la corona. L’ancora giovane Padawan, per quanto già al livello dei vari Jedi della Lega, inizia ad essere intaccato da questo morbo, da questa ossessione. Ed ormai i tempi sono maturi per il suo passaggio al Lato Oscuro.

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Pubblicato da
Giacomo Sordo

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