L’NBA dei nostri nonni – Jerry West, “Be the Icon, Be the Logo”

Pensate a un viaggio negli Stati Uniti, a tutto quello che vorreste visitare, a tutti i luoghi di quella sconfinata nazione che vorreste vedere. Quali sarebbero le vostre mete? New York, grida qualcuno, Los Angeles, rispondono dal fondo. E poi Boston, San Francisco, Miami, Philadelphia, Seattle, Washington. I Grandi Laghi e Chicago, la Motown di Detroit, la luccicante Las Vegas, gli iconici deserti riarsi che fanno tanto Far West. La Death Valley. E il Grand Canyon, ovviamente il Gran Canyon. Suppongo che a nessuno di voi verrebbe mai in mente di rispondere che vorrebbe andare sullo Spruce Knob. Perché dovreste volervi arrampicare su una vetta a 1.482 metri sul livello del mare? Innanzitutto per il panorama: chilometri quadrati di foreste incontaminate che si stendono ai vostri piedi, ricoprendo di verde le frastagliate alture del West Virginia, giù, fino al Blackwater Canyon, dove l’autunno screzia le foglie di rosso, d’arancio, di giallo in migliaia di tonalità diverse. E da lì il vostro sguardo potrebbe spaziare ancora, nuvole permettendo, abbracciando fiumi e ruscelli, e foreste e montagne. Si tratta del panorama più selvaggiamente ammaliante degli Stati Uniti orientali, e lo squadrereste da lì, mentre siete a pochi passi dal Paradiso. E del resto ce lo diceva John Denver, il West Virginia è Almost Heaven.

Adesso aguzzate bene gli occhi, guardando verso ovest. Forse vi ci vorrà un po’ di fantasia, ma potreste intuire appena la sagoma di un fiume che scorre accanto alle grandi miniere, lambendo una piccola cittadina. È il Kanawha River, che sembra osservare assorto le vite di centinaia di formichine che escono dai buchi oscuri delle miniere. Perché da dove siamo noi un uomo non è affatto più grande di un insetto, e il suo operoso via vai ricorda proprio quello delle formiche. Ed è in questa cittadina che scorgiamo dal nostro privilegiato punto d’osservazione inizierà la storia di dolore e di gloria che stiamo per raccontare. Perché è qui, a Chelyan, West Virginia, che nacque Jerry West.

Veduta aerea della cittadina di Cheylan; credits to: landingaday.wordpress.com via Google

Howard Stewart West aveva sempre avuto la passione per i circuiti elettrici. Era per questo motivo che aveva deciso che sarebbe diventato il suo lavoro. Ma persino nell’America delle grandi possibilità Howard non riusciva a trovare molto lavoro. Finì dalle parti delle miniere di carbone, in West Virginia, dove serviva qualcuno che realizzasse impianti elettrici per rischiarare i tunnel claustrofobici e soffocanti nei quali si estraeva il prezioso combustibile. Era un lavoro sfibrante, ma era dignitoso, e metteva il pane in tavola. Una tavola, quella di Howard, piuttosto affollata. Perché oltre a lui e a sua moglie Cecil Sue, c’erano anche quattro figli. Non erano miserabili i West, ma di certo non potevano dirsi agiati. E ben presto un nuovo componente si sarebbe aggiunto a quella famiglia già numerosa. Il 28 maggio del 1938 Cecil Sue diede alla luce il suo quinto figlio. Lo chiamarono Jerry Alan. Jerry Alan West.

Fu un bambino fragile Jerry. I dottori erano molto preoccupati per il suo fisico che sembrava non crescere e gli praticavano delle iniezioni di vitamine. Non faceva sport, perché un contatto troppo forte, una spinta troppo decisa, avrebbe potuto fargli male. E del resto Jerry era timido, introverso, e non si apriva facilmente con gli altri bambini. In compenso però era molto legato a suo fratello David, più grande di dieci anni. David sembrava essere l’unico con cui Jerry riuscisse a essere sereno, persino allegro, e ciarliero. Ma poi arrivò quella lettera. Era un foglio di carta bianca con su stampigliato lo stemma scuro dell’esercito.

Il famosissimo poster dello Zio Sam; credits to: focus.it via Google

Il messaggio era semplice: We want you for U.S. Army, dove “you” era, immancabilmente, il giovane David, appena 22enne. Così il fratellone si imbarcò per andare a combattere in un’esotica penisola asiatica chiamata Corea, lasciando Jerry da solo con le sue fragilità e la sua timidezza. Lasciandolo per sempre. Perché in quel 1950 David West morì nella guerra di Corea. Jerry piombò in un isolamento profondo. Non riusciva a stare con nessuno, non voleva stare con nessuno. Il padre gli insegnò ad andare a caccia, a pescare nei fiumi che irrigavano quel mezzo Paradiso di monti e foreste, e un vicino di casa appese alla parete del suo capanno degli attrezzi un tabellone con un disadorno anello di metallo. Disse a Jerry che se avesse trovato un pallone da basket avrebbe potuto tirare a canestro, e andare e venire come e quando voleva. Così Jerry iniziò a tirare. A tirare da ogni posizione, ignorando la pioggia, il fango, il freddo, la neve, in modo ossessivo, ignorando le grida e i rimproveri della madre, che lo voleva a casa per cena. In quel piccolo giardino sul retro, con la palla da basket in mano e il ferro negli occhi Jerry West si sentiva libero.

A 14 anni si iscrisse alla East Bank High School, e sostenne subito i provini per entrare a far parte della squadra di basket. Li superò, ma il coach della scuola, tal Duke Shaver, in lui vedeva un ragazzino troppo basso e fragile per resistere al gioco di contatti violenti che era il basket. Eppure era così dotato. Così in palestra, giorno dopo giorno, Shaver insegnò a Jerry i segreti della difesa e della determinazione. Gli insegnò a stare basso sulle ginocchia, a scattare veloce in uno scivolamento laterale, a tenere testa agli avversari. West, come una piccola spugna, assimilò ogni lezione, sudando sotto il peso degli allenamenti, cercando di migliorare ogni volta di più. Poi nell’estate del ’53 Jerry ebbe un picco di crescita. Diventò 1.83 e riuscì a mettere anche un po’ di massa.

Un giovanissimo Jerry West con la maglia della sua high school; credits to: jerrywest.lib.wvu.com via Google

Quando Shaver lo rivide faticò a riconoscerlo, e poi decide di schiudergli le porte del quintetto: sarebbe stato l’ala piccola titolare. Fu ben ricambiato da questa scelta. Jerry West si rivelò essere il miglior giocatore in circolazione in tutto il West Virginia, fu All-State per tre anni di fila, dal ’53 al ’56, e All-American nel 1956. Nel suo ultimo anno segnò 900 pts in una stagione (il primo liceale nella storia a farlo) con l’astronomica media di 32.2 a partita e trascinò East Bank al suo primo titolo di stato, conquistato contro la Morgantown High School per 71-56 il 24 marzo del 1956. In quella partita West segnò 39 pts pur essendo espulso per falli a poco più di cinque minuti dalla fine del match. Ricevette un’ovazione bipartisan dalle tribune, e il giornalista sportivo locale, Skip Johnson, disse di lui:

Was acclaimed […] as one of the outstanding players ever to appear in the tourney.

Era la glorificazione. Era la grandezza. La East Bank High School decise di conservare la memoria imperitura di quella data, emanando una direttiva per cui, ogni 24 marzo, la scuola avrebbe preso il nome di West Bank High School, una tradizione rispettata pedissequamente fino a quando la scuola non ha chiuso i battenti, nel 1999.

Le straordinarie prestazioni di Jerry gli erano valse però un’attenzione mediatica mai sperimentata, e il ragazzo si trovò nella buca delle lettere sessanta proposte da parte di college più o meno grandi sparsi in giro per la nazione. Sessanta. Qualcosa in più dell’enormità. Ma Jerry, forse ancora troppo chiuso, troppo introverso, scelse infine di rimanere vicino a casa e di “portare i suoi talenti” alla West Virginia University. Fu un colpo sensazionale per l’università, visto che con lui arrivò anche Jules Jay Jacobs, che giocando per Morgantown, in quella finale del 24 marzo, aveva messo a segno 38 pts. I due fecero parte del freshman team affidato alle sapienti mani di Quentin Barnette, una squadra capace di chiudere la stagione di rodaggio con un immacolato record di 17-0, guadagnandosi di diritto l’accesso al varsity team allenato dall’head coach Fred Schaus.

Ball handling notevole già al college; credits to: jerrywest.lib.wvu.edu via Google

Per lui Jerry West mise insieme cifre fantasmagoriche nella stagione 1957/58. Parliamo di 17.8 pts, 11.1 rbd e 1.5 ass in 28 minuti di media a partita, tirando col 49% dal campo. Scontato MVP della Southern Conference, West guidò West Virginia all’irreale record di 26-2 e al primo turno del torneo NCAA, dove però, complice la frattura a una gamba rimediata da Don Vincent, l’avventura di quella squadra lanciatissima terminò nella sconfitta contro Manhattan per 89-84 al Madison Square Garden. Fu una delusione, perché tutti erano convinti di poter arrivare fino in fondo. Ma ciò che si preparava per l’anno successivo era qualcosa di enormemente più grande. Jerry superò ogni limite o confine, giocando una stagione magistrale da 26.6 pts e 12.3 rbd, e salì ancora più di colpi, infilandone 32 di media a partita e pareggiando così il record per il maggior numero di punti segnati in una serie di cinque partite (160). West Virginia affrontò il torneo NCAA come un tornado, frantumando gli sfidanti al suo passaggio. Fino alla finale da giocarsi il 21 marzo 1959 in quel di Louisville, Kentucky. Di fronte a West e compagni c’era la University of California di Denny Fitzpatrick e Darrall Imhoff, ma soprattutto di coach Pete Newell. Fu una partita punto a punto, difficile in ogni singolo istante. West segnò 28 pts e tirò giù 11 carambole. Ma non bastò. California vinse di un punto, per 71-70, regalandosi il punto più alto della propria storia sportiva. A Jerry West non restò che accontentarsi del titolo di Most Outstanding Player, una gioia smorzata dal fatto di non essere riuscito a portare nel suo montagnoso mezzo Paradiso quel trofeo tanto ambito. In quell’estate 1959 fu una delle scontate scelte per la squadra che avrebbe rappresentato gli Stati Uniti ai Giochi Panamericani, ovviamente conclusi con l’oro per gli USA.

Il team USA vincente ai Giochi Panamericani del 1959; credits to: archive.usab.com via Google

Nel 1959/60 ci fu un’ultima chance in NCAA e Jerry decise di dare il meglio di sé per portare West Virginia dove non era riuscito l’anno prima: segnò 29.3 pts a partita insieme a 16.5 rbd, 4.3 ass e il 50% dal campo, con un picco da 40 pts e 16 rbd contro Virginia e ben 30 doppie doppie. Segnò più di trenta punti in quindici occasioni, e catturò 31 rbd contro George Washington University. Era assolutamente il giocatore più straripante del basket collegiale. Ma nonostante tutto non ci furono possibilità. West Virginia si fermò nelle Semifinali della East Region contro NYU, perdendo per 82-81. Era stata l’ultima possibilità, ed era andata sprecata. Jerry West chiuse la sua carriera a West Virginia con 2.309 pts e 1.240 rbd, svariati record di carriera, stagionali e su singola partita per WVU (e ne detiene tuttora una decina), una pletora di premi individuali e la convocazione nella squadra che avrebbe rappresentato i colori statunitensi ai giochi olimpici di Roma 1960. Era probabilmente una delle squadre più talentuose che gli States avessero mai inviato a una rassegna a cinque cerchi, capitanata com’era da West e da un altro ragazzo prodigio che aveva incantato sui parquet della NBA: Oscar Robertson. Con queste premesse, il risultato non poteva che essere uno, e uno soltanto. L’oro olimpico.

La squadra che trionfò al torneo di basket delle Olimpiadi di Roma del 1960; credits to: usab.com via Google

Tornato in patria dalla campagna d’Italia, Jerry West si rese ovviamente eleggibile per il Draft NBA del 1960, insieme al compagno d’avventure Robertson. Con la prima scelta i Cincinnati Royals decisero di puntare proprio su “the Big O”. E alla numero due c’erano i Lakers. Il proprietario della franchigia, Bob Short, aveva appena preso la grave decisione di spostare la franchigia dal freddo Minnesota alla città più chic della costa Ovest, Los Angeles. L’organico di quei Lakers era virtualmente straripante, guidato dalla superstar Elgin Baylor, e con giocatori del calibro di Frank Selvy, Rod Hundley e Rudy LaRusso, eppure nella stagione precedente era riuscito a mettere insieme soltanto 25 vittorie. Davvero poche. L’allenatore della squadra era stato Jim Pollard, ma il rapporto si era incrinato e il posto sul pino era tornato vacante dopo la relocation. Fu così che la franchigia gialloviola decise di intraprendere un’operazione di ampio respiro: con la scelta #2 venne draftato Jerry West, e venne ingaggiato per la panchina il suo vecchio coach del college, Fred Schaus. Con Hundley che era anche lui originario del West Virginia ce n’era abbastanza per sentirsi a casa. Ma il cambiamento era tanto radicale da essere disorientante, e Jerry West era sempre stato un solitario. Inizialmente si isolava e i rari contatti con i compagni finivano per essere fallimentari, con loro che però non erano esenti da colpe, visto che lo prendevano in giro per il suo forte accento dei monti Appalachi o per il tono, leggermente troppo acuto, della sua voce, che gli guadagnò il soprannome di Tweety Bird. Il rispetto dei Lakers Jerry West se lo guadagnò sul campo d’allenamento, dimostrando un atletismo e una versatilità pazzesche, fermandosi in palestra per ore e ore di lavoro individuale, cercando in modo febbrile, ancora una volta, ossessivo, di migliorare se stesso. Anche perché Schaus decise di rendergli le cose ancor più complesse, e dopo anni passati a fare l’ala tra high school e college, lo spostò nella posizione di guardia. Fu un enorme successo.

Mr. Inside e Mr. Outside in tutto il loro splendore; credits to: nbadaily.com via Google

West giocò una stagione da 17.6 pts, 7.7 rbd e 4.2 ass, sviluppando un’intesa straordinaria con Baylor. I due vennero presto soprannominati “Mr. Inside and Mr. Outside” per la loro capacità di colpire da quasi tutte le zone del campo, facendo impazzire le difese. Los Angeles totalizzò 36 vittorie e tornò ai Playoffs, dove al primo turno riuscì ad eliminare in cinque gare i Detroit Pistons per perdere solo al cospetto dei St. Louis Hawks di Bob Pettit a gara-7, per 105-103. Nel 1961/62 West fu costretto dalla prolungata assenza di Baylor per il servizio militare, a prendere in mano le chiavi della squadra, un ruolo che gli calzava egregiamente, visto che segnò 30.8 pts, 7.9 rbd e 5.4 ass, conditi da tanti tiri decisivi, infilati nei momenti chiave delle partite più difficili. Un sangue freddo e una capacità di decidere i match che gli donarono il soprannome più noto, quello di Mr. Clutch, appiccicatogli addosso dall’announcer dei Lakers Chick Hearn. Grazie a lui Los Angeles vinse 54 partite e si presentò a Playoffs come una delle grandi favorite. Eliminarono i Pistons in quattro gare per presentarsi all’appuntamento decisivo contro i Boston Celtics. Dopo essersi divisi la posta nei primi due match, West vinse gara-3 rubando una rimessa di Sam Jones e andando a realizzare un layup sulla sirena. La serie però si trascinò fino a gara-7. Una partita epocale. I Lakers si trovarono a inseguire, ma West (e con lui Selvy) era ormai uno specialista delle clutch plays. Los Angeles tornò a contatto e pareggiò a quota 100. A pochi secondi dal termine la palla finì tra le mani di Selvy, con un mare di spazio libero davanti. Sbagliò. Il tentativo di tap-in di Baylor venne evitato da Sam Jones e la partita arrivò all’overtime. Finì 110-107 per Boston. I Lakers avevano perso il primo capitolo di quella che stava per diventare non una semplice rivalità ma la rivalità.

Andare a canestro contro Bill Russell? Fatto!; credits to: pinterest.com via Google

La stagione successiva si presentarono con l’unica volontà di vendicare quella sconfitta. Baylor tornò a pieno regime, ma un infortunio limitò West, che saltò le ultime settimane di regular season a causa di problemi al ginocchio. Tornò per i Playoffs, ma non era in ottima forma, e la sua mancanza si sentiva. I Lakers finirono sotto per 3-2 nelle Finals NBA e, di fronte al loro pubblico di casa, caddero per 112-109, in una partita che passò alla storia per il ritiro di un grandissimo come Bob Cousy. La tendenza doveva cambiare, West voleva vincere. E ce la mise di nuovo tutta. Nel ’63 Baylor cominciava a essere meno efficace, e Jerry ebbe campo libero per prendersi la squadra. Fu scoaring leader con 28.7 pts a partita, ma nemmeno questo bastò di fronte alle difficoltà di una squadra che riuscì a totalizzare solo 42 vittorie e che ai Playoffs uscì prematuramente contro gli Hawks al primo turno. L’anno seguente West elevò ancora di più i livelli del suo gioco, con 31 pts a partita, nella cavalcata da 49 W dei Lakers. Al primo turno contro i Baltimore Bullets però, Baylor si infortunò al ginocchio, lasciando a West le redini della squadra e il ruolo di leader. Un ruolo che non pesava più sulle spalle di Jerry. In una gara-1 che sembrava compromessa West ne infilò 49, guidando Los Angeles alla vittoria, e si ripeté con i 52 pts di gara-2 (sui 118 fatti segnare dai Lakers). Ne mise di nuovo 44 in gara-3 e 48 in gara-4, nonostante le sconfitta, e raggiunse l’apice in gara-5 quando, con 42 pts chiuse la serie. Aveva fatto registrare una media di 46.3 pts a partita, a tutt’oggi record NBA per punti segnati in una serie di Playoffs. Follia più totale. In Finale però c’erano i Boston Celtics. K.C. Jones si appiccicò a West e in gara-1 lo “limitò” a 26 pts. Impresa straordinaria considerando che già in gara-2 Mr. Clutch riprese a quarantellare allegramente. 45 pts in gara-2, ma sconfitta Lakers, 49 in gara-3, finalmente coronati dalla vittoria. In gara-4 e gara-5 però West tirò malissimo, sbagliando tanto dal campo. Il tutto si risolse in altre due sconfitte che consegnarono il titolo ai Celtics.

La delusione di West dopo un altro titolo perso; credits to: latime.com via Google

Nulla sembrava bastare, e così West salì ancor più di colpi. 31.3 pts (career high), con 7.1 rbd e 6.1 ass. Di nuovo i Lakers assommarono più di 40 vittorie, incontrarono e sconfissero gli Hawks al primo turno e si trovarono di fronte i Boston Celtics. Stavolta la contesa arrivò a gara-7, ma il risultato alla fine non cambiò. Nonostante una febbrile rimonta dei californiani nell’ultimo quarto, Boston si portò a casa la posta, grazie anche e soprattutto alla capacità di John Havlicek di marcare a uomo proprio Jerry West. Era un altro fallimento, un’altra frustrazione. E nella stagione successiva cominciarono ad arrivare anche i problemi fisici. West giocò solo 66 partite, e i Lakers ne vinsero solo 36, per incontrare poi i San Francisco Warriors al primo turno ed esserne spazzati via. Coach Schaus decise di dire basta e lasciò il posto sul pino a Butch van Breda Kloff. In quella stagione West giocò di nuovo soltanto 51 partite a causa degli infortuni ma i Lakers erano più rodati e riuscirono ad assommare 52 vittorie. Ai Playoffs i Lakers abbatterono dapprima i Chicago Bulls e poi i Warriors per arrivare di nuovo in Finale. Ovviamente contro i Celtics. Era la sfida tra due concezioni di basket diverso, forza fisica contro tiro, peso contro velocità. Non c’erano lunghi in grado di contrastare Bill Russell e Havlicek sotto canestro, ma nessuno dei Celtics riusciva a fermare West, Baylor o Gail Goodrich. Gara-1 andò a Boston, ma i Lakers si ripresero velocemente e arrivarono a gara-5 con la serie in equilibrio sul 2-2. Gara-4 però aveva fatto registrare un sanguinoso infortunio per Los Angeles: West aveva rimediato una distorsione, e anche se avrebbe giocato non sarebbe riuscito a incidere nello stesso modo. Nonostante questo segnò 35 pts, pur nella sconfitta dei suoi Lakers, che caddero anche in gara-6 sotto i 40 pts di Havlicek. Un West ai limiti estremi della frustrazione sportiva commentò:

We gave them the first game, and we gave them the fifth. But I take nothing from them.

Ormai alla ricerca spasmodica di un titolo, Los Angeles decise di prendere quanto di meglio la NBA avesse da offrire e imbastì una trade per portare a Hollywood Wilt Chamberlain.

Il magnifico trio Baylor, Chamberlain e West; credits to: latimes.com via Google

Per farlo dovette concedere a Philadelphia assets molto importanti, e perse inoltre Gail Goodrich nell’expansion draft che seguì alla nascita dei Phoenix Suns. Kloff era preoccupato della scarsa profondità nel reparto guardie, ed ebbe inoltre fin da subito un rapporto burrascoso con la sua nuova superstar. Per parte sua nemmeno Wilt apprezzava particolarmente il coach e arrivò a dire apertamente di lui:

[He] is the the dumbest and worst coach ever.

L’ambiente sembrava fatto apposta per esplodere, e stava per farlo. In allenamento ci fu un grave litigio tra Kloff e Chamberlain durante il quale i toni si alzarono e si scaldarono finché Baylor non intervenne a separare i due, proprio prima che Wilt colpisse il suo allenatore. Jerry West risentì particolarmente di questa situazione di tensione e il suo giocò cominciò a farsi più intermittente, meno decisivo, ma sempre, comunque, su livelli eccezionali (25.9 pts in quella stagione). Ma Chamberlain aveva in comune con i Lakers la necessità ossessiva di vincere un titolo e i Lakers misero comunque insieme 55 vittorie, e asfaltarono gli Atlanta Hawks e i San Francisco Warriors nei Playoffs. Erano di nuovo Finals, erano di nuovo i Boston Celtics. Poco prima di gara-1, in una chiacchierata con Bill Russell, West gli disse di essere stanchissimo, esausto, ma la cosa non gli impedì di infilare 53 pts, che valsero la vittoria. E poi di nuovo 41, in una nuova W in gara-2. In gara-3 i raddoppi sistematici ordinati da Russell su West diedero i loro frutti e Mr. Clutch chiese più di una volta di uscire. Senza il loro faro i Lakers andarono sotto e vennero infine sconfitti, così come in gara-4, quando Boston pareggiò la serie.

Jerry West affiancato da John Havlicek; credits to: pinterest.com via Google

Los Angeles tornò in pista in gara-5, vincendo di 13 punti, ma West – che aveva già segnato 39 punti – rincorrendo un pallone tutto sommato ininfluente, si infortunò al ginocchio. Apparve subito chiaro che l’infortunio non era destinato a guarire in fretta. Nonostante tutto in gara-6 West segnò ancora 26 pts, ma non riuscì a evitare la sconfitta. Si arrivò di nuovo a gara-7. Jack Kent Cooke, proprietario dei Lakers, aveva già fatto preparare migliaia di palloncini gialloviola per festeggiare il titolo, ottenendo il solo risultato di caricare i Celtics e di irritare West, che non apprezzò il gesto considerandolo irrispettoso e arrogante. Nonostante tutto Jerry, in modo eroico e drammatico, cercò di tenere in partita i suoi, anche quando Los Angeles andò sotto di quasi 20 punti. Caricandosi tutta la squadra sulle spalle e sulla gamba infortunata, Jerry West riportò i Lakers a contatto e rischiò persino di vincerla. Fu una prestazione bella e tragica. Ma un paio di perse troppo sanguinose nel finale consegnarono di nuovo il titolo ai biancoverdi, nonostante l’epocale tripla doppia da 42 pts, 13 rbd e 12 ass. Era l’incommensurabile. Sulla sirena finale Bill Russell, l’uomo e il campione, si alzò per stringere la mano a quel giocatore grande e sfortunato, mentre Havlicek lo abbracciava e gli gridava in un orecchio:

I love you Jerry.

Russell ammise candidamente davanti alle telecamere che, sebbene fossero stati i Celtics ad aggiudicarsi quel titolo, Jerry West era un campione. Era il campione. La NBA decise di assegnare proprio a lui il titolo di MVP delle Finals, e ancora oggi Jerry è l’unico giocatore ad averlo portato a casa senza abbinarci il Larry O’Brian Trophy.

Il 1969/70 si aprì con il cambio di coach: Joe Mullaney si sedette sul pino a Los Angeles, ma dovette subito registrare il grave infortunio di Wilt Chamberlain. Per sua fortuna, però, West era di nuovo pronto. Si caricò ancora una volta i Lakers sulle spalle e mise a segno una stagione da 31.2 pts a partita, conducendo Los Angeles a 46 vittorie. Nei Playoffs i gialloviola superarono i Phoenix Suns prima, e gli Atlanta Hawks poi, fino alla finale dove, sorprendentemente, non c’erano i Celtics, ma i New York Knicks di Willis Reed e Walt Frazier. Fu una serie pazzesca. In gara-3, dopo un canestro di DeBusschere che aveva portato New York sul 102-100, i Lakers avevano pochi secondi e nessun timeout. Chamberlain consegnò la palla a West con una preghiera. Jerry prese la palla, superò in velocità un sorpreso Frazier e lasciò partire un tiro da circa 18 metri che si insaccò leggero come un piuma e bello come un affresco. Reed commentò strabiliato:

The man’s crazy! […] He thinks it’s really going in!

Non bastò però, e Los Angeles perse di nuovo, anche contro avversari diversi, grazie soprattutto all’eroismo di Reed, che giocò gara-7 pur seriamente infortunato.

Sembrava una maledizione, Jerry non ne poteva più. Anche nel 1970/71 le cose andarono completamente storte. Prima si infortunò Baylor, poi lui, e con il solo Wilt i Lakers finirono per cadere in Finale di Conference contro i Milwaukee Bucks di Lew Alcindor e Oscar Robertson.

Così all’inizio della stagione 1971/72 un West sempre più acciaccato e frustrato meditava il ritiro, strada già percorsa dal meraviglioso Baylor, che non riusciva più a combattere contro le sue gambe martoriate. I Lakers assunsero un nuovo coach, Bill Sharman che trasformò letteralmente la squadra. Concentrazione difensiva, l’adozione di un esasperato fastbreak fecero volare i gialloviola in regular season, dove riuscirono anche a mettere insieme la striscia vincente più lunga della storia NBA (33 vittorie consecutive, roba da pazzi). West giocò una stagione da 25 pts e venne nominato MVP dell’All Star Game. Ma quello che più importa è che infine i Lakers ebbero la loro cavalcata. Superati di slancio i Bulls, e poi i Bucks, per incontrare in Finale i New York Knicks.

Attimi di eroismo congelato; credits to: nba.com via Google

West non giocò particolarmente bene, anzi, tirò piuttosto male per tutta la serie (anche se raggiunse il traguardo di più di 4.000 pts nei Playoffs, roba folle), ma a cosa serviva avere in squadra Wilt altrimenti? I Lakers vinsero il titolo in 5 gare. Era il primo titolo di Jerry West. Era pura gioia.

Ci furono altre due stagioni da giocatore per Jerry West, stagioni nelle quali dette senso pieno al ruolo di combo-guard che mai nessuno prima di lui aveva saputo immaginare. Con l’età che avanzava riuscì infatti a far evolvere il suo gioco, trasformandosi in un playmaker più che in un realizzatore. E stava andando tanto bene che, nonostante le sconfitte alle Finals che arrivarono di nuovo, West voleva rinegoziare il suo contratto e giocare ancora una stagione a 37 anni. Ma il proprietario dei Lakers:

Basically told my agent to go to hell.

West si sentiva tradito, disilluso, usato, ma infine si ritirò, chiudendo la sua carriera a cifre astronomiche: 25.192 pts, 5.366 rbd e 6.238 ass, un numero indefinibile di All Star Game giocati e quintetti NBA conquistati. Un titolo di campione e uno di MVP delle Finals. Pura grandezza.

Cosa fu il resto della carriera di Jerry West? Allenò i Lakers per tre anni tra il 1976 e il 1979, assommando 145 vittorie e conducendo la squadra sempre ai Playoffs e una volta (1977) in Finale di Conference.  Ne divenne poi il GM, nei primi anni ’80, creando la dinastia dello Showtime che portò a L.A. cinque titoli, e poi quella di inizio anni 2000, quando il duo Kobe-Shaq (unito da un capolavoro manageriale di West nel 1996) dominò la NBA con un three-peat. Nel 2002, perdendosi l’ultimo anno vincente di quelli che erano i suoi Lakers, firmò come GM dei Memphis Grizzlies e aiutò la franchigia a conquistare per la prima volta i Playoffs vincendo per questo il suo secondo titolo come Executive of the Year (il primo risaliva al 1995). Dal 2011 poi fa parte dell’establishment dei Golden State Warriors. Ci sarà mica il suo zampino nei successi di Curry & co.? Ovviamente Jerry West è stato nominato a far parte della Hall of Fame, è nella lista dei 50 migliori giocatori della storia NBA e ha tirato su giusto qualche altro onore. “Quale?” chiedete voi. Beh avete presente il logo della NBA? Quella sagoma bianca di un giocatore impegnato a palleggiare? Beh quella è l’esatta silhouette di Jerry West, Mr. Outside, Mr. Clutch. The Logo.

Be an Icon. Be the Logo; credits to: logodesignlove.com via Google

Perché chi è stato un’icona non può accontentarsi di nulla di meno che di essere un simbolo, il simbolo, il Logo.

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Pubblicato da
Simone Simeoni

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