Il 4 Luglio 2016 sarà ricordato dagli appassionati di NBA come il giorno in cui una serie di incredibili eventi ha portato alla riunione sotto lo stesso tetto di 4 delle superstar della lega, di cui due sono stabilmente inseriti nella corsa all’MVP. Il 4 luglio, infatti, Kevin Durant ha annunciato tramite The Player’s Tribune il suo “Next Chapter”, ovvero la KDecision. Kevin Durant ai Golden State Warriors. Putiferio e delirio tra i fans delle varie franchigie, con un sollevamento popolare che, negli ultimi 15 anni, solo la Decision dell’uomo con la corona aveva provocato.
In un amen gli Warriors hanno completato quello che tra gli appassionati di WWE viene chiamato “soft turn” cioè un graduale cambio di schieramento passando da essere face, ovvero “i buoni” della situazione e beniamini del pubblico, ad essere heel, ovvero i nemici pubblici numero 1. Il cambio di segno nella percezione del pubblico era già iniziato durante l’attentato alla Storia, conclusosi con successo grazie al 73-9 della regular season passata, ma l’aggiunta di Kevin Durant ha dato il colpo di grazia alla simpatia popolare. In sostanza gli Warriors sono la “squadra più odiata dell’NBA”, sono l’Impero da dover abbattere, nonostante i campioni in carica non siano loro.
Se il pianeta Warriors sembra sostanzialmente infischiarsene di quello che il pubblico pensa, ed interpreta il nuovo ruolo nel solito modo (e cioè saccheggiando la maggior parte dei parquet americani), c’è un uomo all’interno della franchigia che da sempre fa la parte di quello sporco, brutto e cattivo e che si trova a meraviglia nel personaggio. Questo giocatore è stato fondamentale anche nel reclutamento dell’ala ex-OKC ed ha a più riprese espresso il concetto di come la sua amicizia sia stata preziosa nel processo di convincimento, fatto di “migliaia di telefonate”.
Se non avete ancora capito stiamo parlando del deus-ex-machina del fenomeno cestistico firmato Steve Kerr, colui che ha consentito lo schieramento della Death Lineup sobbarcandosi il lavoro sporco per ogni singolo minuto trascorso dai Dubs con questo quintetto. Stiamo parlando, ovviamente, di mr. Draymond Green.
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New year old habits
La parabola da principe degli underdog che riveste l’ascesa incontenibile di Draymond Green la conosciamo tutti ma, per i pochi che si approcciano per la prima volta alla figura del #23, facciamo un piccolo profilo del personaggio. Classe 1990 originario Saginaw, città sul fiume da cui prende il nome, nello stato del Michigan dimostra sin dalla tenera età una certa esuberanza intrappolata in un corpo non certo da atleta di primo livello ma che lo accompagnerà in tutta la sua fase di crescita e in tutta la sua carriera.
Non esce mai dallo stato nativo fino a quando è selezionato al draft 2012 da Golden State, frequentando prima la Saginaw High School, in cui gioca a basket e a football, sua seconda grande passione, e poi la University of Michigan. Da tramandare ai posteri il modo in cui riesce ad entrare nel roster degli Spartans, una di quelle storie di ribellione al pregiudizio da raccontare a coloro che non sono nati alti, atletici e con un fisico perfetto ma che dentro di sè hanno un uragano. Tale episodio è raccontato in maniera bellissima in questo articolo e ci sembra superfluo soffermarcisi sopra.
Date, per così dire, le generalità, torniamo al nostro punto di partenza. Golden State con Kevin Durant. Se a prima vista la squadra californiana è troppo più forte della concorrenza, osservandola attentamente in questo inizio di stagione si può capire come l’alchimia di una squadra non si costruisca a tavolino. Il livello di equilibrio raggiunto dalla franchigia giallo-blu nelle ultime due stagioni era perfetto e ridisegnare buona parte del roster per creare lo spazio salariale sufficiente ad assorbire il biennale di KD è stato un grande rischio preso dal proprietario Chris Cohan. Era ovviamente una sfida impossibile da rifiutare ma ugualmente pericolosa.
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Testimonianza delle difficoltà incontrate sono alcune delle partite disputate dalla #DubNation in questa prima metà di regular season, vedasi la sonora sconfitta subita contro la banda Popovich al debutto di Durantula, con gli Speroni a banchettare senza pietà all’interno del pitturato. Se KD si è inserito in maniera incredibile nel “flusso offensivo” di Golden State grazie alle sue straordinarie capacità offensive ed a piccole variazioni sul tema introdotte da Kerr, la registrazione della difesa ha dovuto attraversare un percorso più lungo e tortuoso che, ca va sans dire, è passato obbligatoriamente dalla stazione Draymond Green.
Il fulcro della small ball giocato dagli Warriors è, senza ombra di dubbio, il prodotto di Michigan State. L’ex allievo di Tom Izzo è colui il quale sostiene la franchigia sulla corda su cui deve camminare per non precipitare nell’abisso della impraticabilità tattica. Senza le sue abilità da “playmaking four” combinate ad uno spirito combattivo fuori dal comune e ad una attitudine alla leadership di altissimo livello, la ragazza carina ma studiosa (Golden State) non sarebbe mai diventata la reginetta del ballo. Per quanto possa non piacere, umanamente parlando, la persona Draymond Green, il giocatore Draymond Green è unico nel suo genere e, probabilmente, irripetibile.
Quest’anno la sua flessibilità tattica e il suo essere facilitatore in attacco ed in difesa stanno dando un contributo ancora più marcato rispetto al biennio passato. Se fino all’anno scorso la #StrenghtInNumbers era in possesso anche del leader carismatico della franchigia quest’anno si può dire l’esatto opposto. In maniera inversamente proporzionale alla leggera discesa delle sue medie nelle statistiche più comuni (punti, assist e rimbalzi), il suo impatto difensivo e la sua capacità di comprensione di inserirsi nelle pieghe nascoste della partita sono cresciute vertiginosamente. Rimane sempre il punto di appoggio di un sistema che senza di lui collasserebbe, il fulcro della leva “Kerr&Co” che tenta di sollevare il mondo.
La sua capacità di farsi da parte per permettere all’ego offensivo delle altre tre superstar di convivere ha iniziato ad applicarsi già dall’inizio dell’anno quando, con la solita scarsa ambizione, ha dichiarato di voler ottenere il premio come Difensore dell’anno. Azzardando un paragone calcistico si può dire che Green è il Sergio Busquets degli Warriors. Un lavoratore oscuro che, però, nasconde anche un lato oscuro.
Il lato oscuro della forza
Eh si, perchè Draymond Green non è tutto rose e fiori. Se ci avete fatto caso une delle caratteristiche che abbiamo attribuito al soggetto in questione è l’esuberanza. Esuberante è nelle esultanze, esuberante è nei movimenti, esuberante è nelle dichiarazioni ed esuberante è nei rapporti. Per cercare di creare meno confusione possibile ci muoveremo per punti:
Esuberanza nelle esultanze
Quando un video vale più di mille parole…
Esuberanza nei movimenti
Il paragone realizzato con un calciatore precedentemente qui calza a pannello. Le sue “gesta” sono ormai famose in tutto il globo e, visto il successo, Draymond si è ripetuto più volte. Il mirino dei movimenti, a sentir lui, naturali delle gambe dopo i contatti ha mietuto un buon numero di vittime: da Steven Adams a Marqueese Chriss, passando per James Harden e, infine, LeBron James, colpito, con una variazione sul tema, con un movimento repentino del braccio e non dell’arto inferiore e punito con la squalifica in gara-5 che ha dato il la alla rimonta dei Cavaliers nelle scorse Finals.
Se volete una visione completa dei movimenti sgraziati di Draymond Green è sufficiente andare su YouTube e digitare le parole chiave “Draymond green kick” e gustarvi le numerose compilation che compaiono.
Esuberanza nelle dichiarazioni
Anche ad un maestro del fair play ogni tanto può scappare un’uscita considerata dai più come fuori luogo. Per esempio, all’interno dell’ambiente calcistico italiano, abbiamo assistito all’esposizione, da parte del rossonero Massimo Ambrosini, un professionista serio e rispettabile, di uno striscione recitante “lo Scudetto mettitelo nel c***” per festeggiare la Champions League appena vinta. Una caduta di stile può capitare a tutti, non facciamo troppo i sofisticati sulle dichiarazioni viziate, ad intuito, da un tasso alcolemico leggermente alto alla parata per i festeggiamenti del primo titolo NBA della carriera.
P.s. Guardatelo in loop e noterete ogni volta un dettaglio che vi era sfuggito nelle visioni precedenti. Vi suggeriamo la faccia di Klay e della signorina che lo “intervista”.
Esuberanza nei rapporti
Tornando dal faceto al serio è importante mettere in evidenza quanto fuori dal campo, in una franchigia che non viaggia a livelli altissimi e senza un allenatore giovane e “moderno” come lo può essere Steve Kerr, un elemento del genere, con la sua non-gestione degli eccessi di un carattere non proprio così semplice, sarebbe l’interruttore dell’autodistruzione di quel fragilissimo castello di carte che è uno spogliatoio NBA. Non è detto che il timer di questa implosione non sia già in funzione e che l’unico modo per resettarlo sia arrivare al secondo titolo in tre anni, soprattutto dopo l’ingaggio anche di una superstar come KD.
Con ogni probabilità, in caso di mancato titolo il nostro eroe diventerà il maggior capro espiatorio, la valvola di sfogo di un sistema che vede in lui l’unico “cattivo” della situazione, non certo quei bravi ragazzi degli Splash Brothers, così come è accaduto dopo la clamorosa rimonta subita nelle ultime Finals. Solamente che questa volta il buon Draymond potrebbe non subire in silenzio ma, al contrario, gestire in maniera molto personale, come fa sempre, i rapporti con le altre componenti dello spogliatoio. Il sentore di questo rischio probabilmente lo ha sentito anche lui. E in tal senso potrebbe essere interpretata la solidarietà totale data al suo allenatore nella recente polemica sull’utilizzo della marijuana a scopo terapeutico che lo ha coinvolto.
I rapporti tra Green e Kerr non saranno idilliaci ma nemmeno possono essere catalogati come disastrosi. Sicuramente i due si rispettano professionalmente come coach ed allenatore ma, parafrasando, entrambi non si sceglierebbero nel caso in cui dovessero offrire una cena a qualcuno. Se l’entusiasmo degli ultimi due anni ha fatto passare sotto traccia questa sinergia non totale tra il pilastro del suo gioco e l’ideatore siamo sicuri che l’eventuale seconda sconfitta consecutiva nella tanto prevista e desiderata terza riedizione delle Finals tra Warriors e Cavs non possa fare uscire definitivamente allo scoperto questa “guerra intestina”?
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A chiudere il cerchio troviamo poi un’estate non certamente rilassante per il #23. Alla gioia per una medaglia d’oro ottenuta nelle Olimpiadi di Rio fa da contraltare la tristezza per avere avuto in tale impresa un ruolo che definire marginale è riduttivo. Mai al centro del progetto tattico di coach K Green è praticamente uscito dalle rotazioni già dai test pre-Rio e non ha mai dato l’impressione di esserne particolarmente entusiasta. Inoltre vanno ricordati gli scandali di Snapchat, con foto delle sue parti intime finite in rete “per errore”, e dell’arresto a causa di una rissa in cui è stato coinvolto nel Michigan.
A conti fatti l’odierno Draymond Green è una centrale nucleare che funziona a piena potenza ma di cui si può rischiare di perdere il controllo a causa di situazioni avverse. Gli illuminati della vicina Silicon Valley a cui ne è affidata la gestione si augurano che la tecnologia utilizzata per costruire questa forza della natura sia in grado di gestirne eventuali difficoltà per non andare in cortocircuito e fare piazza pulita intorno a sé.
Sperando di non dover mai verificarne le conseguenza #DubNation si gode indisturbata il suo Fundamental Man.
Alberto Mapelli