L’NBA dei nostri nonni – Willis Reed, “the Captain”

Ogni volta che un giocatore infortunato stringe i denti e fa tutto il possibile per essere in campo in una partita decisiva, tirando fuori tutta la forza di volontà per sopportare il dolore ed essere di aiuto alla sua squadra, il pensiero non può non andare a Willis Reed, il centro dei New York Knicks due volte campioni NBA nel 1970 e nel 1973. È la prima volta, però, quella che non si scorda mai: la sua storia, infatti, è indissolubilmente legata a quello che successe l’8 maggio 1970, giorno di gara-7 delle finali contro i Los Angeles Lakers.

Non c’è stato giorno della mia vita in cui non mi abbiano chiesto di quella partita.

(Willis Reed)

Willis Reed all’epoca ha quasi ventotto anni e da sei milita nella franchigia blu-arancio allenata da Red Holzman, di cui è diventato il capitano nonché l’elemento più carismatico e rappresentativo. Reed è un leader che si è guadagnato il rispetto lottando ogni istante sul parquet e mostrando una dedizione totale nei confronti del gioco. La sua forza fisica intimidisce gli avversari e rassicura i compagni: senza Willis Reed i Knicks, seppur pieni di ottimi giocatori e una delle squadre più forti di quel periodo, non sarebbero tali. Nei Playoffs della stagione 1969-70, dopo anni in crescendo ma con un incubo ricorrente chiamato Boston Celtics, Reed trascina finalmente i Knicks all’ultimo atto, in seguito a una regular season da 60 vittorie e 22 sconfitte. Bill Russell si è appena ritirato, la dinastia verde è in dissolvimento e il palcoscenico dell’Est è di New York. Di fronte, i Lakers dei leggendari Jerry West, Elgin Baylor e Wilt Chamberlain.

Reed contro Wilt Chamberlain; credits to: basketinside.com

Gara-7 delle finali NBA al Madison Square Garden è la partita per antonomasia, ma Reed è infortunato. Sembra non esserci alcun margine di recupero. L’intera New York è in ansia: la città è considerata la Mecca del basket, ma non ha mai vinto il titolo. Tutti si domandano la stessa cosa: Willis Reed ci sarà? Quattro giorni prima, in gara-5 sempre al Madison, il numero 19 dei Knicks, già dolorante al ginocchio sinistro, si procura un serio infortunio all’anca destra dopo otto minuti di gioco. Forzando una penetrazione contro Wilt Chamberlain, finisce a terra dolorante e non rientra più. Responso: forte contusione e strappo al muscolo tensore. I Knicks, privi ormai di “The Captain”, riescono a compattarsi e a sorprendere i Lakers con una bella prova di squadra (finisce 107-100), ma poi crollano a L.A. in gara-6 135-113. La serie è in parità. Reed segue la squadra ma solo per sedersi da spettatore, ripartendo subito per New York per proseguire le sue incessanti terapie. Mancano solo due giorni e il recupero appare sempre più improbabile.

I think we see Willis coming out.
(Jack Twyman)

Fino a poche ore prima della palla a due, Reed non è in condizione di giocare. Il dolore non se ne va, piegare la gamba è quasi impossibile. Ma non vuole perdere gara-7 per niente al mondo. New York ha bisogno di lui e così decide di provare. Dalla sua abitazione nel Queens, raggiunge in sordina nel pomeriggio il Madison Square Garden per continuare le terapie, nascosto nelle “segrete” degli spogliatoi con il trainer Danny Whelan, mentre fuori e sugli spalti la tensione si taglia con il coltello. I Lakers fanno paura, appena l’altro ieri hanno annichilito i Knicks orfani di Willis Reed. Il capitano va sul parquet a fare qualche tiro, zoppicando vistosamente. Nella sua testa, però, non ci sono dubbi: “Volevo giocare – avrebbe raccontato in seguito – Era per il campionato, l’unico grande momento per cui giochi tutta la vita. Non avrei voluto guardarmi allo specchio vent’anni dopo e dire che mi sarebbe piaciuto aver provato a giocare quella partita”.

I think we see Willis coming out“; credits to: nba.com via Google

La presenza di Reed è fondamentale: infonde coraggio alla squadra e solleva il morale di tutto l’ambiente, procurando pure una certa intimidazione negli avversari, il che non guasta. Willis decide di giocare. Chiama la figlia Veronica e le dice che suo papà sarà in campo. Quindi, ancora in spogliatoio mentre i compagni si stanno riscaldando, si sottopone a tre iniezioni di carbocaina, potente antidolorifico che gli viene somministrato in dosi da cavallo. A due minuti dall’inizio, un brivido attraversa la schiena degli oltre 19.000 del Madison Square Garden: la sagoma di Willis Reed in tuta bianca esce camminando dal tunnel e si unisce al warmup del resto della squadra. L’ex giocatore Jack Twyman, passato a commentatore televisivo, sta parlando al microfono proprio delle infiltrazioni praticate alla gamba di Reed, quando si accorge di un certo movimento nell’arena e sussulta all’improvviso: “Penso che vediamo Willis uscire fuori”. È il momento che trasforma un’intera squadra e i suoi tifosi.

La partita è una sfida, un’esperienza. Solo quando un uomo accetta una sfida e scende in campo per mettersi alla prova, può avere un’idea di quanto vale.

(Willis Reed)

 L’adrenalina sale a mille: se Reed può giocare una gara-7 in quelle condizioni, allora tutti possono farlo. Il messaggio passa a meraviglia: è questo ciò che il capitano vuole, ha bisogno del contributo di tutti, perché sa che lui in campo, quella sera, non potrà comunque fare molto. Si presenta alla palla a due contro Chamberlain e non salta neppure, ma nell’azione successiva riceve da Walt Frazier e segna il primo canestro dal gomito. E poco dopo mette dentro anche il secondo canestro su azione dei Knicks, un tiro dalla media. Saranno i soli quattro punti realizzati da Reed in quella partita (a cui aggiunge tre rimbalzi), ma il loro peso è incommensurabile. L’infortunio gli consente appena di portare qualche blocco e di far leva sul senso di posizione per facilitare il gioco ai compagni, è l’apoteosi dell’altruismo. Ma lui, lì sul parquet, neanche ci doveva essere: un effetto psicologico devastante per i poveri Lakers, che perdono 113-99 dopo aver toccato il -27 all’intervallo. Il primo titolo dei Knicks è realtà.

Tutto quello che abbiamo passato ci ha reso degli uomini migliori. E mi piacerebbe pensare che abbia reso questa città un posto migliore.

(Willis Reed)

credits to: playitusa.com via Google

È soltanto da questo episodio che si può partire per raccontare una storia iniziata il 25 giugno 1942, anno in cui Willis Reed Jr. esce fuori non dal tunnel degli spogliatoi, ma dal grembo materno in quel di Dubach, paesino di circa 800 anime sperduto nelle campagne della Louisiana settentrionale. Cresce a pochi chilometri da lì, a Bernice, che di anime ne ha un migliaio, ma non fa molta differenza. Il profondo sud rurale degli Stati Uniti, per una famiglia di colore, in quegli anni vuol dire solo segregazione e umiliazione. La famiglia Reed, però, vive con dignità: il padre è un capo magazziniere e lavora duro per garantire un’istruzione all’unico figlio e permettergli, visto che le sue dimensioni crescono in fretta (al liceo è già alto 1,96), di praticare sport.

Willis Reed con la maglia dei Grambling State Tigers; credits to: pinterest.com via Google

Non c’erano playground nella Louisiana di provincia degli anni ’40 e Willis si allena ore e ore a un canestro malconcio appeso a un muro, senza poter palleggiare a causa del terreno sconnesso, aspetto dal quale probabilmente deriva la sua educatissima mano. Al liceo, la West Side High School di Lillie, gioca sia a basket sia a football, la religione locale, attirando l’attenzione di diversi college. La sua scelta cade sulla pallacanestro e su Grambling State, università tradizionalmente nera, i cui Tigers sono trascinati da Reed al titolo NAIA nel 1961 a suon di punti e rimbalzi (26,6 e 21,3 le sue favolose medie nell’anno da senior). Gli emissari delle franchigie NBA segnano a chiare lettere il nome “Willis Reed” sui loro taccuini.

Il basket per me ha sempre voluto dire qualcosa che va oltre i soldi. Se avessi avuto un contratto che mi avesse coperto anche solo il denaro per le scarpe che ho consumato sull’asfalto, mettendo in banca quella cifra sarei stato a posto.

(Willis Reed)

Fin dal Draft 1964, in cui è scelto al secondo giro dai New York Knicks, le molle che spingono il Willis Reed professionista sono orgoglio e lavoro duro, per sovvertire tutte le previsioni che non lo indicano come futuro protagonista in NBA. Nonostante l’importante taglia fisica – 2,06 di altezza per circa 110 chili di peso – appare leggermente sottodimensionato per il ruolo di centro, rispetto a giganti come Wilt Chamberlain e Bill Russell e più avanti Lew Alcindor e Artis Gilmore. Trova quindi la strada per emergere ricorrendo all’atletismo e alla forza fisica, migliorando al contempo tutti i fondamentali con un impegno senza sosta in palestra.

Una esplicativa copertina di Sports Illustrated; credits to: deporteando.com via Google

Il fatto di aver vissuto la scelta al secondo giro quasi come un affronto personale, è sufficiente a motivarlo così tanto da diventare matricola dell’anno, al termine di una stagione in cui, in una sera di marzo, piazza addirittura 46 punti sul groppone dei Lakers. Il suo dover sempre dimostrare qualcosa – viene pure spostato, comunque con successo, ad ala grande negli anni in cui i Knicks preferiscono affiancargli sotto canestro il lungo Walt Bellamy, poi ceduto nel 1968 – accresce giorno dopo giorno la sua leadership. Con l’esempio, il lavoro duro e il rispetto, senza mai abbandonarsi a facili entusiasmi e grazie alla sua solidità in attacco e in difesa, Reed diventa sia il perno offensivo newyorchese sia il miglior difensore, caratterizzato da una vigorosa attitudine alla pressione e al raddoppio. E nei Playoffs è capace di accrescere notevolmente le sue statistiche, aspetto che spesso segna il confine tra un buon giocatore e un grande giocatore. Reed è un leader vocale quanto basta, rimane sempre un po’ riservato, ma quando c’è da farsi sentire, lo fa eccome: nel 1966, ancora contro i Lakers e in una NBA in cui le risse sono all’ordine del giorno, i suoi pugni mettono a repentaglio la linearità di più di un naso gialloviola.

Reed abbatte un incolpevole Rudy LaRusso; credits to: worldstarhiphop.com via Google

Ma in campo la serietà di Willis è assoluta, dà tutto, non si risparmia mai, arriva sfinito a ogni sirena conclusiva: un gioco estremo, per il quale soffrirà infortuni che accorceranno la carriera, finita a 32 anni nel 1974, non prima di aver conquistato l’anno precedente il secondo titolo dei Knicks, di nuovo da MVP delle Finali.

Il basket è la mia vita. Sono tenuto a metterci tutto me stesso ogni volta che gioco. Giocavo come se ogni singola partita fosse una guerra. Guardiamoci negli occhi: se avessi fallito, cosa avrei finito per fare?

(Willis Reed)

“Di nuovo da MVP” perché quel 1970 è letteralmente cannibalizzato da Willis Reed: al premio di MVP della regular season e dell’All-Star Game, aggiunge anche quello di miglior giocatore delle Finali, nonostante sia Walt Frazier il vero mattatore di gara-7 con una prestazione mostruosa da 36 punti con 12/17 dal campo, 12/12 ai liberi, 19 assist e 7 rimbalzi. Però il fattore emotivo fa pendere i giudici nettamente verso “The Captain”.

Oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, rivedere in dvd o sul web le immagini un po’ sfocate e sbiadite della NBA di allora, suscita una sensazione molto strana, un misto tra incredulità e fascino: il campo senza le linee del tiro da tre punti, oppure le divise con calzoncini cortissimi e calzettoni alle ginocchia, o ancora un basket dai ritmi e dagli schemi profondamente diversi rispetto a quello di oggi, spingono a domandarsi come fosse possibile che giocassero in quel modo. Ma sotto altri aspetti se ne apprezzano i movimenti, la pulizia dei fondamentali, la durezza degli scontri, le figure semplici degli atleti senza tatuaggi e fascette varie, facendo comprendere molte cose di questo sport e della sua evoluzione.

Il basket non è l’ingegneria atomica. Bisogna mettere dentro la palla da una parte del campo e difendere il canestro dall’altra. E bisogna giocare di squadra.

(Red Holzman)

Willis Reed e la sua tecnica di tiro; credits to: nba.com via Google

I New York Knicks di coach Red Holzman sono una squadra all’avanguardia, a quei tempi. Praticano una difesa individuale dura e aggressiva, probabilmente la migliore dell’intera lega, mentre basano il loro attacco su una veloce circolazione di palla, finalizzata a pescare l’uomo libero da marcature. È lui che deve prendersi la responsabilità di un tiro che oggi verrebbe definito ad alta percentuale. Soprattutto durante gara-5 delle finali del 1970, quando si ritrovano senza l’infortunato Willis Reed, quei Knicks sperimentano uno schema offensivo con due tiratori esterni (Cazzie Russell e Dick Barnett), un’ala piccola (Bradley) in post a smistare palloni per dare una mano al playmaker Frazier e soprattutto l’ala grande Dave DeBusschere inserita nel ruolo di centro, ma un centro che si sposta di frequente in angolo, per stanare dall’area Chamberlain e liberare spazio sia per penetrazioni degli esterni sia per tiri da una maggiore distanza da canestro. Tutto questo non ricorda qualcosa?

Ed è anche invecchiato bene…; credits to: newsday.com via Google

La legacy di Willis Reed si può riassumere con qualche cifra e qualche titolo: 650 partite giocate in dieci anni, una media di 18,7 punti e 12,9 rimbalzi, 7 partecipazioni all’All-Star Game e soprattutto quei due anelli NBA (con altrettanti premi di Mvp delle finali) che sono tuttora gli ultimi mai conquistati dalla storica franchigia della Grande Mela. La sua divisa numero 19 è stata ovviamente ritirata e fa bella mostra sul soffitto del Madison Square Garden. Proseguendo, Reed fa parte della Hall of Fame ed è stato inserito tra i 50 migliori giocatori del secolo nella lista stilata nel 1996. La sua carriera da allenatore, brevissima, lo ha visto sedersi per poco più di una stagione sulla panchina degli amati Knicks (1977-78) e altrettanto su quella dei New Jersey Nets (1988-89), esperienze intervallate da quattro anni alla Creighton University e da brevi periodi di assistentato agli Atlanta Hawks e ai Sacramento Kings. Quindi, l’esperienza nel management dei Nets dal 1989 al 2003, durante il quale vive il dramma di Drazen Petrovic e la costruzione della squadra che Jason Kidd porterà due volte alle Finals, nel 2002 e nel 2003. Dal 2004 al 2007 torna nel natio Louisiana, nei New Orleans Hornets come vice president of basketball operations, prima di ritirarsi in pensione.

Ma Willis Reed sarà sempre molto più del suo curriculum. Lui sarà sempre quell’ingresso in campo dal tunnel degli spogliatoi accolto dal boato della folla. Sarà sempre quei due canestri dalla media distanza che sciolsero la tensione dell’8 maggio 1970, dando il la al trionfale successo dei Knicks. Sarà sempre quel siringone che gli fu piantato tre volte nella gamba destra, permettendogli di alleviare un po’ il dolore di un infortunio che voleva sottrarlo all’appuntamento più importante della sua carriera. Soprattutto, Willis Reed sarà sempre un esempio di amore e dedizione totale alla pallacanestro e di spirito di squadra, l’ispirazione per tutti quelli che desiderano, con tutto il loro cuore, di vivere da protagonisti i grandi momenti dello sport, anche quando ci si mettono di mezzo quegli imprevisti che purtroppo fanno parte della vita di ognuno di noi.

Or when, Willis Reed stood so tall,
Playing D with desire, it’s Basketball

(Kurtis Blow, “Basketball”)

Francesco Mecucci

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Pubblicato da
Simone Simeoni

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