Gli individui di una popolazione sono in competizione fra loro per le risorse naturali; in questa lotta per la sopravvivenza, l’ambiente opera una selezione, detta selezione naturale. Con la selezione naturale vengono eliminati gli individui più deboli, cioè quelli che, per le loro caratteristiche sono meno adatti a sopravvivere a determinate condizioni ambientali; solo i più adatti sopravvivono.
Il concetto sopra riportato, molto sinteticamente, è quello di selezione naturale elaborato da Charles Darwin nel 1859 all’interno dell’opera “L’origine della specie” con cui ha rivoluzionato completamente la scienza ponendo le basi per la moderna teoria dell’evoluzione.
Senza minimamente paragonarne la portata sociale, anche nel mondo NBA, e nel basket in generale, stiamo vivendo in un periodo che sta ribaltando tutte le convinzioni sul Gioco che si erano compattate e fossilizzate in decenni di storia. Potremmo definirla una rivoluzione culturale che è partita in sordina e man mano ha perfezionato il suo essere per affermarsi e diventare la cultura dominante. Coloro che hanno sdoganato questa religione facendola diventare quella di stato sono, indiscutibilmente, i Golden State Warriors. E per quanto si possa essere di schieramenti sportivi opposti questo è un merito che nessuno gli toglierà mai. Sono la prima squadra che ha vinto nella lega più complicata del mondo giocando veramente con la small ball (non consideriamo gli Heat che utilizzavano Bosh come 5 perimetrale).
Con small ball si intende, molto grossolanamente, giocare senza lunghi (classici) ma con solo esterni in grado di portare palla su un pick&roll, fare da bloccante, entrare in penetrazione e tirare da 3, essendo al tempo stesso in grado di reggere l’urto difensivo con squadre dotate di più centimetri cambiando a ripetizione senza andare in difficoltà all’interno del pitturato. E’ chiaro che per realizzare un roster del genere serve una combinazione di fortuna, abilità e testardaggine che non sono facilmente ripetibili e che necessitano anche di giocatori chiave sopra la media. Ma molte squadre stanno tentando di adattarsi ai nuovi contesti per tentare, appunto, di sopravvivere, secondo la legge della selezione naturale.
Non sono solo le franchigie che stanno tentando di stare al passo con i tempi. Abbiamo aggiunto il termine “classici” nella brevissima definizione di small ball perché in questi anni i cosiddetti lunghi non stanno scomparendo, come sarebbe possibile pensare in un gioco che vede l’estremizzazione del tiro da 3, si stanno semplicemente evolvendo e lo stanno facendo molto in fretta. Se nella lega resistono stoicamente veri “Centri”, che tra l’altro si possono contare sulle dita di una mano, il classico ruolo di “Ala Grande” nella vecchia concezione del termine è praticamente sparito. Il vero “problema” è che “1 dentro – 4 fuori” sta diventando superato, evolvendosi in un “0 dentro – 5 fuori“. Ma allora, se di mestiere vorresti fare il giocatore NBA e madre natura ti ha dotato di più di 200 cm di altezza, oltre alla predisposizione a catturare rimbalzi, cosa devi saper fare?
La risposta sta arrivando direttamente dalla foschia degli ultimi 10 anni del vecchio millenio, da cui sta emergendo una folta truppa di giovani rampanti pronti a riscrivere le regole del gioco.
Draymond Green – Apripista
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Come abbiamo detto sopra il simbolo della fattibilità del sistema Warriors sono le ultime due stagioni, che li hanno visti essere protagonisti fino in fondo grazie ad un quintetto che definire indifendibile è poco. Non a caso è stato rinominato Death Lineup. Tale quintetto prevedeva Curry, Thompson Iguodala da “esterni”, Barnes da “4” e Draymond Green da “5”. Di quanto sia fondamentale Green nell’economia del sistema abbiamo parlato ampiamente in questo articolo, ma di quanto sia stato l’esempio per tutta la lega forse ce ne si accorgerà solo tra 20 anni.
Il #23 giallo-blu è un classe 1990 ed è l’anello di congiunzione tra i vecchi ed i nuovi “big men”. Non solo, è anche il simbolo di come solo 5 anni fa un giocatore che di ruolo fa l’ala grande e che raggiunge a stento i 2 metri potesse essere sottovalutato nonostante evidenti doti di passatore ed una voglia di vincere strabordante. La chiamata alla #35 nel draft 2012 rischia di passare alla storia come uno dei più grandi steal di sempre. A rendere ancora più incredibile, guardandolo oggi, quel draft è il fatto che Green si presentasse ad esso come facente parte del primo quintetto All-American, cioè come uno dei migliori prospetti liceali pronti per essere inseriti nel mondo NBA.
L’unico modo per comprendere cosa possa essere successo è cancellare dalla propria mente il fenomeno paranormale avvenuta nella Baia negli ultimi 2 anni e immaginare un mondo non più alla rovescia, in cui un ragazzo di 2 metri, per quanto straordinariamente motivato, non riuscirebbe a contenere gli attaccanti in post e a prendere una buona posizione nella lega dei giganti.
Probabilmente senza Draymond non avremmo scoperto l’unicità dei giovani rampolli che sono entrati nel circuito nelle ultime stagioni.
Nikola Jokic – La pepita dell’Est
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Nel diciannovesimo secolo la corsa all’oro portò al popolamento dell’Ovest. A Denver, città del Colorado molto vicina alle Montagne Rocciose, di pepite ne hanno viste passare tante e quasi mai era la loro ultima destinazione. Questa volta, però, i tifosi dei Nuggets sperano sia diverso. Perché gli scout della franchigia ed il GM Tim Connely ci hanno visto molto lungo ed andarlo a pescare nel 2014 con la chiamata #41 al Mega Vizura, squadra della Lega Adriatica, è segno di una conoscenza profonda del Gioco.
Dopo un anno di apprendistato in cui inizia a fare intravedere le sue grandi qualità, tanto da ottenere il terzo posto nella classifica del Rookie Of The Year 2015, dietro Towns e Porzingis, di cui parleremo poi, Nikola quest’anno ha decisamente spiegato le ali e sta iniziando a volare. Il classe 1995 si è preso prepotentemente il ruolo di centro titolare a discapito di Jusuf Nurkic e, a dispetto di Green, ne ha tutte le caratteristiche fisiche. 113 chili distribuiti su 208 centimetri ne fanno un lungo, almeno fisicamente, vecchio stampo. Soprattutto i quasi 10 chili persi in estate gli permettono di muoversi, per uno della sua stazza, abbastanza agilmente.
La caratteristica migliore del serbo è la straordinaria capacità nel leggere il gioco. Jokic è il primo, vero, prototipo di playmaking 5. La visione del gioco, la capacità di difendere il palleggio in transizione, la visione a 360° gradi e due mani celestiali gli consentono di guidare i contropiedi, di giocare il pick&roll sia da portatore che da bloccante e, semplicemente, di essere l’uomo in più in ogni situazione offensiva e difensiva, grazie ad un raggio di tiro che si estende abbastanza agevolmente anche fuori dalla linea da 3 (in stagione tira con il 36,4% dai 7.25).
Da quando non è costretto a convivere con Nurkic andando a pagare in velocità contro ogni 4 della lega Jokic è diventato il giocatore più importante della franchigia del Colorado. Nell’ultimo mese ha tirato fuori dal cilindro prestazioni straordinarie, con il career high di 30 punti siglato ai Magic e gli 11 assist contro i T’Wolves che sono solo la punta dell’iceberg di un giocatore di cui sentiremo abbondantemente parlare nei prossimi anni. I 4 assist di media a partita non gli rendono sufficientemente giustizia e siamo pronti a scommettere che in un futuro non troppo lontano potrebbe tranquillamente arrivare a 5-6 di media.
Tutte le sue qualità, anche da difensore, è bene non scordarsene, le potete trovare in questo video.
Big Man in Town(s)
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I draft 2014 e 2015 saranno ricordati come i draft da cui sono usciti i dominatori del pitturato dei prossimi 10 anni. La pick #1 del draft 2015, in mano ai Minnesota Timberwolves, è stata spesa senza ombra di dubbio sul big man in uscita dalla University of Kentucky. Karl Anthony Towns è il classico esempio di come tutte le buone cose fatte vedere al college, ma soprattutto all’high school, possano essere mantenute per diventare da subito il faro offensivo della squadra.
Nonostante l’unico anno trascorso al college non sia stato eccezionale gli sprazzi di talento e di dominio hanno da subito convinto gli addetti ai lavori ad eleggerlo come il prospetto più interessante. Più che le cifre del college (ad onor di cronaca piuttosto modeste, circa 10 punti e 6 rimbalzi di media) ad impressionare sono quelle in uscita dall’high school. Nell’ultimo anno la sua stagione si è conclusa con 21 punti, 14 rimbalzi e 6,2 stoppate (!) a partita. Già da quella stagione il suo destino era segnato.
Ma che tipo di giocatore è KAT? E’ un giocatore straordinariamente efficace in post, sul pick&roll, sul pick&pop e anche da dietro la linea da 3 punti, soprattutto dopo aver portato il blocco. Essere decisamente pericoloso anche dalla lunga distanza è una manna per i suoi compagni, o almeno lo dovrebbe essere. Giocare nei confusionari T’Wolves, stracolmi di giovani talenti come Zach LaVine e Andrew Wiggins, non sta aiutando lui nella crescita personale e la sua squadra a diventare una candidata seria ad entrare nei playoff. I suoi 110 chili sono distribuiti su 213 centimetri di corpo atletico ma piuttosto longilineo, non massiccio, il che lo rende un lungo estremamente abile a stoppare ma non esattamente il primo della classe nella difesa in post contro avversari dotati di maggiore fisicità. Le sue letture di gioco si stanno affinando, tanto che al suo secondo anno viaggia a circa 3 assist a partita.
La capacità di attaccare dal palleggio lo rende tremendamente pericoloso sui cambi difensivi, specie se accoppiato con avversari meno agili o dotati di minori centimetri. Le quasi 3 palle perse a partita sono il classico scotto da pagare per un ragazzo che ha “saltato” gli anni formativi del college basketball, fondamentali per insegnare ai giovani le letture delle varie situazioni di gioco, attirato da un sicuro ruolo di primo piano all’interno della lega. Più attaccante puro ma meno passatore di Jokic, il #32 di Minnesota ha tutto per diventare una soluzione affidabile nella circolazione del pallone, diventando non un primo riferimento, proprio come potrebbe esserlo il serbo, ma un ottimo “fluidificante” dell’attacco della propria franchigia. Riuscisse ad imparare anche ad essere più deciso e “cattivo” anche in difesa potremmo trovarci di fronte ad uno dei lunghi più completi e versatili della storia della lega.
Se vi dicessimo che nello scorso febbraio ha vinto lo Skills Challange all’All Star Game contro Isaiah Thomas in finale ci credereste? No? Buona visione…
Porzin-god
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<<With the 4th pick in the 2015 NBA Draft New York Knicks select Kristaps Porzingis>>
Adam Silver non fa nemmeno in tempo a finire la frase che esplode la reazione del pubblico di fede newyorkese: un misto di disperazione, disapprovazione e fischi. Un bambino addirittura piange e si dispera mentre filma, a sua insaputa, la scena che ha cambiato per sempre il destino della franchigia di cui immaginiamo sia tifosissimo. Al contrario di quanto possa aver pensato in quel momento è la scelta più sensata realizzata dalla dirigenza da molti anni. Kristaps deve essere l’uomo su cui basare la squadra.
Due mani celestiali in un corpo di 221 centimetri che non arriva nemmeno ai 110 chili possono non aver ispirato una gran fiducia, ma alla prima allacciata di scarpe li aveva già conquistati tutti, dal primo all’ultimo, come chiunque lo abbia mai visto giocare una partita. E quando mai un giocatore di 2 metri e venti ce lo saremmo immaginato essere un tiratore eccezionale? E come si fa a difendere uno che tira da 3 con la palla che esce dalle mani da oltre i 3 metri di altezza?
Di quelli fino ad ora analizzati è sicuramente il meno passatore e forse non serve nemmeno che sviluppi tanto questa inclinazione. Kristaps è semplicemente uno scorer puro, fatto e finito, forse il più monodimensionale ma sicuramente il più inquadrabile. Potrebbe aggiungere al suo arsenale un set di movimenti in post ancora più ricercato, e, soprattutto se riuscisse a farsi allenare da Nowitzki dopo il suo ritiro, potrebbe diventare qualcosa di unico e irripetibile. La scarsa potenza fisica viene ampiamente compensata dalle braccia infinite e da un’ottima predisposizione nello sporcare le parabole.
Inserito in un contesto travagliato come può esserlo quello in cui convivono elementi come Derrick Rose, Joakim Noah e Carmelo Anthony nella fase calante della loro carriera, la maturità con cui sta migliorando il classe ’95 lettone è disarmante. Per un giocatore abituato a competere all’interno del campionato spagnolo da sole 3 stagioni, il grande salto dell’oceano sarebbe potuto essere fatale. La facilità con cui da subito ha messo in mostra tutte le proprie infinite qualità è stata, invece, quasi scioccante. Se con 16 punti e 7.4 rimbalzi a partita si è aggiudicato il secondo posto nella classifica del ROTY dietro a Towns, con 19.4 punti a partita e i soliti 7 rimbalzi si sta prendendo il cuore di milioni di appassionati. Se a New York si decidessero a scrivere la parola fine al Melodrama e puntassero fortemente sul lettone potrebbero finalmente tornare ad essere una franchigia competitiva.
Trust the process
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A Philadelphia (finalmente) ci credono. 8 vittorie nelle ultime 10 partite, molte contro dirette concorrenti per i playoff. Ebbene sì, udite udite, ci credono. La bocca da cui arriva questa dichiarazione d’intenti è del leader maximo dei 76ers. Joel “The Process” Embiid, il rookie su cui ricadono tutte le speranze per un futuro luminoso nella Città dell’Amore Fraterno. Il buon periodo della franchigia coincide, non a caso, con il suo miglior mese. 22.4 punti, 9.3 rimbalzi, 2.9 assist di media ed un bel +10.5 personale di valutazione.
Tecnicamente scelto da Hinkie nel 2014, ha dovuto perdere i suoi primi due anni per una sfortunata serie di infortuni, come abbiamo raccontato in questo articolo. Nonostante il siluramento del GM, il suo più grande sponsor, il ragazzo del Camerun è stato aspettato ed ora se ne stanno iniziando a vedere le potenzialità fuori dal comune.
In questi primi 4 mesi di regular season ha fatto vedere tutto quello che di buono aveva fatto innamorare il Re del tanking, tanto da scommetterci la pick #3 per accaparrarselo. Movimenti in post realizzati con una grazia disarmante da vedere applicata ad un tronco d’ebano di 2 metri e 13, una buonissima meccanica di tiro anche dalla lunga distanza, soprattutto se battezzato dalle difese, come è accaduto nelle prime partite dell’anno, e una capacità di leadership nei momenti decisivi, tanto da essere diventato a furor di popolo il simbolo della squadra.
La personalità con cui si è preso una grande visibilità nell’intera lega, a suon di tweet, prestazioni monstre rapportate al minutaggio (25 minuti scarsi, retaggio dei maledetti infortuni) e balletti a fine partita, sta facendo scoprire al grande pubblico un lungo versatile e dominante su entrambi i lati del campo, in grado di essere pericoloso tanto dalla media dopo aver portato il blocco al portatore di palla, quanto danzando sotto il ferro. Se riuscisse a sgrezzare la sua visione di gioco, e qui il contesto non aiuta ma la grande lucidità che mostra nel cercare il compagno più smarcato sui raddoppi fa ben sperare, potrebbe ambire ad avvicinarsi a quel Hakeem Olajuwon che molti rivedono in lui.
#TrustTheProcess
Il prossimo stadio della catena evolutiva
In tutto questo c’è un giocatore ancora più speciale nella lega, un esemplare unico nel suo genere che potrebbe rappresentare l’anello, fino ad ora mancante, di congiunzione dei tradizionali 5 ruoli. Nome: Giannis. Cognome: Antetokounmpo. Altezza: 2 metri e 11 centimetri. Peso: 100.7 chili. Ruolo: Playmaker … Playmaker? Playmaker.
La Giannis Revolution, partita da un abbozzo tutt’altro che definito di giocatore nel 2013, sta raggiungendo il suo apice e sta aprendo una nuova via nella concezione di questo sport. Miglior giocatore della squadra sotto le voci di punti, rimbalzi, assist, palle rubate e stoppate. Si è preso, con 4 mesi di regular season superbi, un posto nel quintetto titolare dell’All Star Game con un plebiscito, risultando secondo nelle votazioni popolari dietro al Re.
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E se il greco fosse solo il primo della sua specie? Se fosse una sorta di emissario dell’NBA di un’altra linea temporale mandato in esplorazione nel nostro tempo per verificare come sarebbe stato l’impatto sulla nostra percezione? E se Giannis fosse semplicemente l’evoluzione definitiva, una sorta di uomo di Neanderthal pronto a fare estinguere gli altri ominidi?
Non sappiamo cosa succederà al basket nei prossimi 20 anni però sappiamo che, come ci ha insegnato Charles Darwin, solo coloro che riescono ad adattarsi possono sopravvivere. I più forti si affermano, i più deboli si estinguono.
Alberto Mapelli