Categorie: Curiosità

L’NBA dei nostri nonni – Dave DeBusschere, “Big D”

Nel 1968 la NBA non godeva della popolarità e dell’esposizione mediatica di oggi. Era un periodo storico, inoltre, in cui in America c’erano tanti fermenti e tante altre situazioni a cui pensare. Ma New York è sempre New York e ciò che successe il 19 dicembre di quell’anno, se magari non monopolizzò le prime pagine dei giornali, di sicuro provocò una certa, ulteriore frustrazione ai tifosi dei Knicks. Ulteriore perché dalle parti del Madison Square Garden la prospettiva di festeggiare un titolo continuava a rimanere, stagione dopo stagione, soltanto un sogno, che il motivo si chiamasse Philadelphia 76ers o, più spesso, Boston Celtics. E il risultato non sarebbe stato diverso al termine dei playoff 1969.

I Knicks erano una delle squadre migliori della lega, a cui però ogni volta mancava qualcosa per compiere l’ultimo e decisivo passo. Ebbene, in quel giorno sotto Natale il general manager Eddie Donovan concluse uno scambio con i Detroit Pistons, rappresentati dal suo omologo Ed Coil, cedendo due elementi del quintetto base blu-arancione. Il centro Walt Bellamy, che era arrivato tre anni prima per dare la possibilità a New York di battagliare con Wilt Chamblerlain e Bill Russell, e la guardia Howard Komives presero la direzione di Motor City, in cambio di un’ala bianca che fin dall’inizio della sua carriera faceva parlare di sé, pur non essendo assolutamente una star: il ventottenne Dave DeBusschere.

Donovan fu preso per pazzo: la cessione di due titolari e l’abbassamento del livello di talento complessivo della squadra, per rimpiazzarli con un giocatore sicuramente importante, ma dalle caratteristiche del tutto diverse e che non aveva mai vinto nulla, lasciava da pensare. Ci sono operazioni, tuttavia, che necessitano di tempo e pazienza prima di assaporarne i frutti, e questa trade fu una di esse. Perché fu proprio da lì che nacquero le fortune dei Knicks nei successivi cinque anni, in cui vinsero due titoli NBA (finora gli unici in settant’anni storia della franchigia) e totalizzarono, in quest’arco temporale, un numero di partite vinte più alto di ogni altra squadra.

Non mi ero accorto di quanto fosse forte finché non lo prendemmo.
Ho sempre saputo che fosse un giocatore notevole, ma non così.
Come sempre, non ti accorgi di quanto uno sia forte finché non lo vedi giocare ogni sera – (Red Holzman)

Sul piano tecnico, l’arrivo di DeBusschere ebbe come conseguenza immediata il ritorno di Willis Reed nel ruolo di centro. La presenza di Bellamy, infatti, aveva determinato lo spostamento del futuro eroe di gara-7 del 1970 nella poco consona posizione di ala grande: costretto a giocare più lontano dal canestro, Reed vedeva limitate le sue abilità (sì, era proprio un altro basket…). Invece, una volta tornato sotto le plance, divenne il faro della squadra, trovando in DeBusschere il complemento ideale. Una power forward difensiva, interna, rimbalzista, in grado di garantire solidità e presenza fisica in una pallacanestro d’epoca in cui ancora non esisteva il tiro da tre e dominare l’area era un aspetto cruciale del gioco. Dave visse il culmine della sua carriera negli anni newyorchesi e raggiunse il livello dei migliori difensori di sempre in NBA.

Sul piano morale, l’ormai ex Detroit portava in dote un’attitudine al lavoro duro senza eguali, rimpiazzando un Bellamy che neppure si avvicinava a lui dal punto di vista della carica agonistica. Etica lavorativa, intelligenza, versatilità, passione, altruismo: è questa la legacy che Dave DeBusschere ha lasciato al basket. Pochi giocatori sono stati importanti nell’economia di una squadra come lui lo è stato per i Knicks. Dava il massimo ogni sera su entrambi i lati del campo e, pur non essendo un tiratore provetto, riusciva a segnare con una certa facilità dalla media, dall’angolo o creandosi spazio attorno ai blocchi. Era un maestro nel convertire i rimbalzi offensivi in canestri con il tap in. Il compito principale affidatogli da coach Red Holzman era ovviamente difesa e rimbalzi, ma questo non gli impedì di tenere oltre 16 punti di media realizzativa.

In 12 stagioni da professionista, DeBusschere è stato convocato 8 volte all’All-Star Game, per 6 volte è stato inserito nel miglior quintetto difensivo della NBA e una volta (nel 1969, al termine della prima stagione ai Knicks) è stato membro del secondo quintetto assoluto NBA. Introdotto nella Hall of Fame nel 1983, insieme all’amico Bill Bradley, la sua canotta numero 22 è stata ritirata dai Knicks. Fa parte della lista dei 50 più grandi giocatori NBA di tutti i tempi stilata nel 1996. Ha tenuto una media carriera di 16,1 punti e 9,1 rimbalzi, ma la sua importanza è stata decisiva soprattutto nei cosiddetti intangibles, cioè tutte quelle piccole grandi cose che un giocatore fa e che non finiscono sul foglio delle statistiche: i blocchi, il lavoro sulla posizione, gli aiuti, i raddoppi, il tener lontano dal canestro un pericoloso avversario. Tutti aspetti per i quali è richiesta una profonda conoscenza del gioco, una grande tenacia mentale e la capacità di adattare le proprie caratteristiche per trovare spazio e risultare decisivi in una delle squadre più ricche di talento e tecnica. Il DeBusschere giocatore incarnò pienamente il blue collar spirit, lo spirito operaio (per quanto definizioni di questo genere adattate a professionisti dello sport lascino il tempo che trovano) che faceva da collante in un team di campioni. Forte, silenzioso, altruista, stringeva i denti e scendeva sul parquet anche portandosi appresso fastidiosi infortuni, senza mai lamentarsi. Pete Axthelm, nel fondamentale volume City Game uscito nel lontano 1970, descrive così l’approccio di DeBusschere:

DeBusschere è quel tipo di giocatore che gioca duro e si vede che sta giocando duro,
ogni secondo che passa su un campo di basket. Il sudore sgorga dal suo viso,
il suo petto si alza e si abbassa mentre corre su e giù per il campo,
tutto il corpo si muove e si contorce mentre lotta coi gomiti per prendere posizione sotto i tabelloni.
Non c’è risparmio o sottigliezza nel suo stile, nessuna impressione che gli venga tutto facile.
Guardi DeBusschere e capisci che lavoro duro può essere giocare a basket da professionista,
e che lavoraccio stia facendo quest’uomo.

Il personaggio Dave DeBusschere travalica i confini del rettangolo di gioco. A proposito di blue collar, David Albert De Busschere, che è scomparso nel 2003 a quasi 63 anni, nasce in una città in cui l’industria un minimo di storia l’ha fatta: Detroit. Qui vede la luce il 16 ottobre 1940 e fin da ragazzo pratica più discipline sportive, in particolare basket e baseball. Frequenta la Austin Catholic Prep School, piccolo e giovane liceo agostiniano che oggi non esiste più, portando la squadra di basket al titolo statale nella categoria Classe A e figurando tra gli All-State (cioè i giocatori più promettenti dello stato, in questo caso il Michigan) nell’anno da senior, il 1957-58. In finale, contro la Benton Harbor High School del futuro rivale NBA Chet Walker, segna 32 punti. Negli anni scolastici, con parecchi anni di anticipo su quella che diventerà un’abitudine nelle arene statunitensi, ispira la White Shirted Legion, tradizione in cui i fan, per essere più visibili, vanno alle partite indossando tutti una maglietta bianca. Per il college resta nella sua città natale, iscrivendosi alla University of Detroit Mercy (altra istituzione cattolica) dove tiene 24 punti di media tra il 1959 e il 1962, partecipando due volte al prestigioso NIT e qualificandosi una volta al torneo NCAA. Per non farsi mancare nulla, gioca anche a baseball come lanciatore.

Dave DeBusschere è stato uno dei soli dodici atleti che hanno militato sia in NBA sia in MLB. Tra loro c’è pure Danny Ainge, ex gloria e attuale gm dei Boston Celtics. Una particolarità che oggi sarebbe pressoché impossibile e che comunque va contestualizzata: all’epoca la MLB era più ricca e importante della NBA, il cui più breve calendario dei playoff consentiva a un giocatore, a primavera, di svestire la canotta e indossare cappellino e guantone fino a ottobre senza troppe difficoltà. Così, nel 1962 i Chicago White Sox offrono a DeBusschere un contratto da lanciatore per usufruire della sua bella fastball, mentre i Detroit Pistons gliene offrono un altro per giocare a basket da novembre ad aprile, grazie a una scelta territoriale del draft, regola esistita fino al 1965 che dava la possibilità alle franchigie di selezionare un giocatore locale molto seguito dai tifosi. Dave accetta e il fatto che i Pistons non raggiungeranno mai i playoff in quegli anni lo agevola ancor di più nel conciliare i due impegni. In MLB, complice pure il fatto che è comunque costretto a saltare lo spring training, non lascia grossi segni, nonostante qualche sfizio come lo shutout del 13 agosto 1963 contro i Cleveland Indians, in cui concede 6 valide e una base su ball ma nessun punto ed elimina tre battitori per strikeout. Negli anni in divisa White Sox, che si concluderanno nel 1965, colleziona 7 partenze con 3 vittorie e 4 sconfitte e un punteggio ERA di 3,01. Per il resto, gioca più che altro nelle squadre minori affiliate.

Si è capito che Dave DeBusschere è una di quelle persone che vorrebbero fare sempre tutto e a cui non piace dedicarsi a una sola cosa. Perché, allora, fare solo il giocatore di basket quando potrebbe fare pure… l’allenatore? Questo succede durante la stagione 1964-65, allorché gli viene offerto di essere giocatore-allenatore dei suoi Pistons. Anche qui nulla di clamoroso: in quel periodo poteva succedere, come nel caso di Bill Russell ad esempio, se non fosse che il totem dei Celtics era ormai a fine carriera, mentre “Big D” (questo il suo soprannome) ha solo 24 anni, è appena al terzo anno nella lega ma dopo aver saltato per infortunio quasi tutto il secondo ed è tuttora il più giovane ad aver mai ricoperto la carica di coach in NBA. In tre stagioni non riesce a fare molto, al di là di qualche miglioria nel gioco, perché quei Pistons sono davvero scarsi e verso la fine del 1966-67 uno stremato DeBusschere torna a fare il giocatore a tempo pieno salutando la panchina con un record di 79-143 e nessuna partecipazione ai playoff. Esperienza che lo segna parecchio, tanto che non farà mai più il coach, ma che gli tornerà molto utile in seguito, perché ai Knicks sarà lui il vero allenatore in campo.

È facile chiedersi se la giornata di DeBusschere durasse soltanto le canoniche 24 ore e se il suo anno contasse davvero 365 giorni, o al massimo 366 se bisestile. Perché, oltre al doppio impegno da allenatore e giocatore, che oltretutto nel 1964-65 ha coinciso pure con la sua ultima apparizione nel baseball, Dave tra una partita e l’altra trovava pure il tempo per giocare in borsa, divertirsi a softball con gli amici, imparare il golf e non rinunciare mai alle uscite con gli amici, leggasi succulente cene a base di bistecche e birra, tanta birra che lui si godeva anche negli spogliatoi a fine partita. Dopo il titolo del 1970, debuttò come scrittore con The Open Man, una sorta di diario dedicato alla trionfale stagione. La sua poliedricità non cambiò nemmeno dopo il ritiro avvenuto nel 1974, quando divenne general manager dei New York Nets in ABA e commissioner della stessa lega nel 1975-76, lavorando in prima persona per l’imminente fusione con la NBA. In seguito fu nel management dei Knicks e c’era lui quando fu scelto Pat Ewing nel Draft 1985. Fu attivo pure nel mondo dell’editoria.

Le relazioni personali non cambiano. Tra una partita e l’altra torni dai tuoi amici. Fai le cose che ti sei sempre divertito a fare. – (Dave DeBusschere)

Arrivato super motivato a New York dopo una serie di stagioni perdenti come quelle che aveva vissuto a Detroit, DeBusschere si integrò perfettamente nella realtà della Grande Mela: una squadra da titolo, la prospettiva di vincere l’anello per la prima volta, un mercato di enorme importanza. E anche il luogo d’origine di sua moglie Geri, nativa di Long Island e madre dei figli Peter, Dennis e Michelle. Dave si stabilì definitivamente là, nel quartiere di Garden City. Gli anni di New York furono caratterizzati anche dall’ottimo rapporto che instaurò con i tifosi, che vedevano in lui una persona alla mano e non una star che saliva su un piedistallo. E quando lo aspettavano all’uscita del Madison Square Garden per gli autografi, si mettevano a cantare il classico “De-fense! De-fense!”, perché se c’era un simbolo della mentalità difensiva applicata al basket, quello era solo e unicamente Dave DeBusschere. Era lui che prendeva in consegna ogni volta l’ala avversaria più pericolosa, come quando annullò Elgin Baylor dei Los Angeles Lakers nella fatidica gara-7 del 1970 (registrando pure 18 punti e 17 rimbalzi) oppure quella volta che annichilì Dave Cowens dei Celtics al Boston Garden, durante i playoff del 1973, anno che si concluse con il secondo e ultimo titolo dei New York Knicks e in cui fu il miglior rimbalzista e secondo scorer della squadra. DeBusschere sviluppò una forte amicizia con Bill Bradley, suo compagno di stanza nelle trasferte e a lui accomunato dalla fortissima consapevolezza per il successo del team prima di ciascun traguardo individuale. Bradley lo definì “insostituibile” e lo ebbe tra i suoi sostenitori quando, a fine anni ’90, dopo l’esperienza da senatore decise di concorrere per la nomination democratica alla Casa Bianca, vinta poi da Al Gore a sua volta sconfitto da George W. Bush.

Se Willis Reed era il leader “grande e grosso” e Bill Bradley la coscienza critica di quel gruppo, Dave era l’allenatore in campo, l’ispiratore, grazie anche alla sua esperienza da coach che gli consentì di assimilare in età molto precoce tutte le possibili sfaccettature del gioco. Racconta lo stesso Reed che, dopo l’eliminazione nei playoff del 1969 per mano degli ultimi Boston Celtics di Bill Russell, tra la mestizia generale che regnava nello spogliatoio dei Knicks, De Busschere se ne uscì all’improvviso con un “Ragazzi, vi dico una cosa: il prossimo anno sarà il nostro anno!”. La profezia fu azzeccata.

Dave DeBusschere era un uomo in grado di fare mille cose e chissà quante altre ne avrebbe potute realizzare, se il destino non ci avesse messo mano il 14 maggio 2003. Quel giorno, un attacco di cuore non lasciò scampo all’ex giocatore e dirigente dei New York Knicks, che salutò il mondo a 63 anni non ancora compiuti. È sepolto nel cimitero di St. Joseph a Garden City. Sei anni dopo fu raggiunto da sua moglie Geri, vittima di un cancro. La University of Detroit Mercy istituì la borsa di studio intitolata a Dave DeBusschere che ogni volta viene assegnata a due studenti distintisi per le loro eccezionali doti di leadership.

“Ho sempre pensato che Dave DeBusschere fosse il più forte di tutti”.

(Phil Jackson)

di Francesco Mecucci

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Pubblicato da
Redazione NbaReligion

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