Il giudice Isaiah Thomas

“Cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura
te lo rivelan gli occhi e le battute della gente”

Un metro e cinquantotto. Questa è l’altezza del protagonista di una delle più belle poesie della “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters e, qualche anno dopo, di una delle più geniali e irriverenti canzoni di Fabrizio de André e del suo album “Non al denaro, non all’amore né al cielo”. Il suo nome è Selah Lively e la sua maledizione è una di quelle che lasciano il segno, che non ti abbandonano mai e in questo loro restare sempre al tuo fianco ti espongono alle risate, allo scherno e al disprezzo di chi, dall’alto della sua elevata statura fisica, deride “your size, your clothes, and your polished boots”. Selah Lively è un nano. Un nano che di giorno fa il garzone della drogheria e di notte, alla luce fioca di una candela, studia legge per inseguire un sogno alimentato dal rancore e dal risentimento che quotidianamente si accumulano dentro di lui dopo ogni sguardo sfuggente, ogni ghigno, ogni battuta, ogni “domanda irriverente” rivoltagli per deridere la sua limitatissima altezza. Selah Lively un giorno diventerà giudice, ed una cosa è certa: quel giorno, quando la gente dovrà guardarlo vestire la toga scura, dovrà rivolgersi a lui chiamandolo “Vostro Onore” , dovrà implorare clemenza e chiedere grazia con tono sottomesso e remissivo, lui ricorderà. E a quel punto non riderà più nessuno. Forse solo lui.

Isaiah è fermo all’altezza della free throw line. Ha appena subito un fallo duro, l’ennesimo della sua partita, e sta per ricevere palla per tirare i due liberi che gli spettano. Sa già quello che sta per accadere, ormai ci ha fatto l’abitudine e succede davvero troppo spesso perché possa prendersela ogni volta. La sfera esce dalle mani dell’arbitro, diretta verso di lui. It’s a small world”, si ode dalle tribune. Il coro è il solito, la stessa maledetta canzone che si alza dagli spalti per schernire quel ragazzino che non arriva al metro e settanta di altezza. La sua statura è la sua sciagura, è sempre stato così, fin dagli in cui veniva deriso dai coetanei che vedeva crescere a dismisura, dagli anni in cui per convincere gli amici a farlo giocare insieme a loro, il padre – ben conscio delle potenzialità del figlio – doveva minacciarli, perché “or both or neither”, o lui gioca o me ne vado anche io. Anche a quel punto, però, andava sempre allo stesso modo. Quando quel cuoio toccava la sua mano sinistra ogni cosa tornava al suo posto e tutti smettevano di ridere: i bestioni dei playground di Tacoma che venivano immancabilmente e costantemente umiliati, e gli amici di papà James che rimanevano sempre a bocca spalancata per lo stupore. Andò così anche quella volta: lo sguardo fisso, il respiro regolare, la mano ferma. Due liberi realizzati.

Il nome, a sentirlo, è di quelli che pesano da morire, soprattutto se si parla di pallacanestro. Isaiah lo doveva a quello sciagurato di suo padre e alla sua ossessionata passione per l’NBA; una passione trascinante e folle, di quelle che ti fanno perdere il senso della misura e della ragione, e ti spingono a scommettere il nome del tuo futuro figlio con un amico, tifoso della squadra che si sta giocando le Finali NBA contro i tuoi Lakers campioni in carica e che – tu sei certo – non potrà che essere asfaltata senza alcun ritegno. I Playoffs sono quelli del 1989: a L.A sono gli ultimi anni dello “Showtime”, gli anni in cui Magic e Kareem erano riusciti a rendere l’NBA qualcosa che non si poteva nemmeno spiegare a parole, bisognava solo sedersi e ammirare estasiati. Dall’altra parte ci sono i Detroit Pistons di Joe Dumars e Dennis Rodman, di Mark Aguirre e Bill Laimbeer, di coach Daly e soprattutto di Isiah Thomas. Sì, è proprio così che si chiamerà il piccolo Thomas nel caso in cui i Lakers dovessero perdere, Isiah. Gli avversari in fin dei conti sono gli stessi battuti appena un anno prima, ma questa volta, complici gli infortuni di Magic e Byron Scott, le cose vanno in maniera leggermente diversa, e lo sweep subito dai gialloviola è di quelli che non si dimenticano, che rimangono impressi a fuoco sulla pelle e fanno malissimo.
Per James è arrivato il momento di pagare dazio. A quel punto il pensiero del ritorno a casa è forse l’unica cosa che, nella testa del futuro papà, riesce a far sembrare l’umiliazione appena subita dai suoi Lakers qualcosa di letteralmente insignificante. Perché ad aspettarlo ci sarà una moglie incinta alla quale bisognerà dire che il nome del suo futuro figlio, volente o nolente, è già stato deciso, e il pensiero della probabile reazione non può essere rassicurante. Qualche mese più tardi, il 7 febbraio 1989, Tina Baldtrip dà alla luce un maschietto: Isiah sì, ma solo se scritto in modo diverso, solo con una “a” in più nel mezzo a rendere quel nome molto meno celebre e illustre e molto più religioso e biblico.

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Per rendersi conto della grandezza degli attributi del giovane Isaiah basta osservarlo giocare durante i due anni alla Curtis Senior high school a University Place, Washington, dove Thomas, pur essendo sempre il più piccolo tra i giocatori in campo, chiude le sue due stagioni a quasi 29 punti di media. Arrivano la celebrità a livello locale, le congratulazioni, i riconoscimenti da parte di quelle stesse persone che fino a poco tempo prima ridevano di lui, letteralmente. Ma c’è un piccolo problema, e i lettori più attenti e minuziosi se ne saranno già accorti da soli. ‘ Perché solo due anni e non tre?’ si saranno giustamente chiesti. La risposta è presto detta. Perché se i successi sul legno del parquet non tardano ad arrivare, quelli tra i legni dei banchi di scuola a dir poco scarseggiano. Anzi, non arrivano proprio a voler essere sinceri. E il piccolo problema diventa enorme quando Isaiah comprende di non poter divenire idoneo a giocare a livello collegiale senza prima aver migliorato – e non di poco – i suoi drammatici voti scolastici. E’ così che, nel novembre del 2006, Thomas sale su un aereo diretto dall’altra parte del paese, verso il Connecticut, per ripetere il suo anno da senior alla South Kent High School, con la paura e la consapevolezza di chi sa di non poter più sbagliare, di chi sa di trovarsi già di fronte ad un bivio decisivo.

I due anni spesi in New England saranno, a detta dello stesso Isaiah, uno dei periodi più difficili della sua esistenza. Lontano dagli affetti, dalla stessa comfort zonenella quale era faticosamente divenuto una piccola star, Thomas sarà costretto per la prima volta a cavarsela davvero da solo, senza nemmeno un telefono con il quale mantenere i contatti con la famiglia, visto lo scherzo del destino che rese inutilizzabile il suo non appena giunto a South Kent. “It was the best thing that’s happened for me. It made me grow up.”, dirà qualche anno dopo. In quei giorni bui, colmi di paura e di speranze da alimentare con perseveranza e tenacia, l’unico faro, l’unica “green light” – volendo utilizzare l’indimenticabile simbolo del meraviglioso romando di F.S. Fitzgerald – rimarrà la sua stessa passione e l’irraggiungibile sogno ad essa legato: la National Basketball Association. Ma se per Gatsby quella luce verde rappresenterà la causa prima della sua rovina, l’utopico e irraggiungibile miraggio che lo condurranno alla morte, per il giovane Thomas quel sogno rappresenterà la spinta, l’ennesimo incentivo a superare i propri limiti, lo slancio che nella primavera del 2008 lo porterà ad ottenere quel tanto atteso e agognato diploma. Finalmente si può tornare a casa .

Proprio quei due anni spesi lontano da famiglia e amici saranno determinanti nella scelta collegiale di Isaiah, che qualche mese dopo deciderà di iscriversi alla University of Washington, l’unica università che gli avrebbe consentito di non allontanarsi eccessivamente da casa. La prima cosa da scegliere è il numero di maglia, e questo nella testa della matricola è già decisa da tempo; è il numero 2, lo stesso che fino a qualche anno prima aveva indossato con ottimi risultati un altro piccoletto di Seattle che di nome faceva Nathaniel e di cognome Robinson.
Manco a dirlo, l’impatto al college di Isaiah è devastante. Sotto la guida sapiente di coach Lorenzo Romar – “scuola Jim Harrick” negli anni ’90 a UCLA -, chiude la prima stagione facendo registrare 15 punti abbondanti in 29 minuti e guadagnandosi il titolo di Pac-10 Freshman of the Year. I due anni successivi, poi, sono un climax ascendente di percentuali, riconoscimenti, premi e successi che culmina, nel suo anno da junior, nel punto più alto raggiunto fino a quel momento dal piccolo Isaiah. Il momento in cui tutto il mondo si accorse definitivamente di quel metro e settanta scarso di talento e esplosività.

Il giorno è il 16 maggio 2011, l’occasione è la finale della Pacific 10 tra Arizona Wildcats e Washington Huskies. I primi sono una corazzata (semi)invincibile che ha dominato la stagione chiudendo con un record di 25-6 e superando senza particolari affanni quarti e semifinali, i secondi sono un’ottima squadra, dura, veloce e ambiziosa, logorata, però, dalla fatica di due partite vinte solamente sul filo di lana, prima contro Washington State(e la sua stella Klay Thompson, un altro che in NBA farà parlare di sé) e poi contro degli Oregon Ducks decisamente duri a morire. A inizio partita i favori del pronostico quindi, nonostante Washington sia campione in carica, non possono che essere tutti per la squadra di Jordin Mayes, Jesse Perry, Daniel Bejarano e Derrick Williams, Pac-10 Player of the Year; come da previsioni, però, gli Huskies sono molto più duri a morire del previsto, e il supplementare è la conseguenza inevitabile di un match sempre in bilico e incerto.
Meno di un minuto alla fine.
Passaggio illuminante di Thomas per Wilcox, tutto solo nell’angolo davanti alla sua panchina, due passi e inchiodata a canestro, +3 Washington. Sul ribaltamento, però, Kevin Parrom tira fuori dal cilindro una tripla irreale che riporta l’equilibrio. Parità, 12.3 secondi sul cronometro, rimessa per la squadra di coach Romar.
Adesso si scrive la storia . Isaiah riceve palla nella sua metà campo, la supera, punta il difensore. Crossover con la mano destra, step back, rilascio con la sinistra. A quel punto, nel ridottissimo arco temporale di due decimi di secondo si alternano tre rumori, tutti assordanti, tutti stordenti, seppur in modo diverso: il “ciuff” della retina bucata per l’ennesima volta, la sirena che segna la fine della partita, e l’esplosione del pubblico in delirio. 77-75, vittoria Washington per il secondo anno di fila. Thomas, stremato, si stende sul parquet lasciandosi andare ad un pianto liberatorio, colmo di anni di fatica e frustrazione, ma anche della consapevolezza che il difficile deve ancora arrivare. Isaiah, però, si sente già pronto.

Le prima difficoltà per Isaiah arrivano ancora prima del Draft. Infatti, anche se i tre anni al college avevano visto l’affermazione definitiva di un giocatore tecnicamente e dinamicamente eccezionale, una grana persisteva. Ed era un problema la cui gravità, a quel punto, era segnata non solo più dalla sua perenne irresolubilità, ma anche – e soprattutto – dal contesto all’interno del quale Thomas sognava di muoversi e di operare: quello dell’NBA. Un contesto straordinariamente singolare e anormale, nel quale l’operatore medio si alza dal suolo per poco meno di 2 metri, e all’interno del quale Isaiah, dall’alto del suo metro e settantacinque, esattamente come Selah Lively, non è niente di più che un nano, come lo erano stati prima di lui Muggsy Bogues, Spud Webb, Calvin Murphy, Earl Boykins e il sopracitato Nate Robinson. Giocatori che di difficoltà non ne avevano incontrate poche, come è facile dedurre; perché puoi avere tutto il talento del mondo, ma se in difesa cadi non appena vieni sfiorato da chi è alto 20 cm più di te e pesa 30 kg in più, difficilmente potrai essere funzionale alla tua squadra. E questo lo sanno tutti, soprattutto gli scouter NBA che, non a caso, raramente si soffermano anche solo ad osservare chi misura meno di 1.82, centimetro più, centimetro meno. E in quell’occasione nemmeno Isaiah rappresentò un’eccezione.

Per tutti questi motivi, alla vigilia del Draft del 2011, tutti i bookmakers sostengono a ragion veduta che Thomas non dovrebbe essere scelto prima del secondo giro, in linea di massima con una chiamata molto bassa. Ma a lui non interessa in fondo. Vuole solo un’occasione, solo un’opportunità per dimostrare che per lui, tra i playground di Tacoma e i parquet NBA, non c’è alcuna differenza. Un’opportunità che, però, nessuno sembra volergli concedere. Perché per i Lakers lavorare sui 2.06 m di Chukwudiebere Maduabum è meno rischioso e azzardato, esattamente come lo è per i Pelicans con i 2,10 m per 125 kg di Josh Harrellson. Prima di lui allora ci sono addirittura i ringraziamenti di Stern a ESPN, New York e ai pochi, pochissimi spettatori rimasti. Il collegamento TV è ormai stato interrotto da tempo, e Isaiah non può che guardare nervosamente il suo cellulare, nella spasmodica attesa di uno squillo annunciatore. Poi succede. Suona. Il suo agente. Nei secondi successivi che seguono l’inizio della conversazione, nel confluire confuso ed euforico delle parole che escono dal cellulare, nell’affollarsi impazzito di pensieri e aspettative che costellano la sua testa, Thomas coglie solo due cose: 60esima scelta, Sacramento Kings. Tanto basta. Non gli servirà altro.

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I Kings nei quali approda Thomas nel 2011 sono probabilmente la squadra più allo sbando dell’intera NBA: roster mediocre, privo di alcun senso nella sua mediocrità, colmo di giocatori anarchici e difficilmente collocabili a livello tattico(chi ha detto Tireke Evans?) e talenti capricciosi ed egoisti. In tutto questo, a rendere il clima ancora più instabile e precario si aggiungono le continue ed insistenti voci che parlano di un possibile trasferimento della franchigia da Sacramento a Anaheim. Insomma, il peggior lido sul quale approdare, si potrebbe pensare. E lo si penserebbe a ragione, se non fosse per un’ulteriore singolarità caratterizzante quel confuso e caotico ammasso di giocatori: quella squadra non aveva un playmaker. Letteralmente, nemmeno uno, a meno che non si vogliano – molto forzatamente – considerare tali giocatori come Marcus Thornton o Jimmer Fredette. Ed è così che Isaiah Thomas, 60esima scelta all’ultimo Draft, 1,75 m per 80 kg scarsi, diventa in un attimo il sesto uomo dei Sacramento Kings nello spot di PG. Come detto, non gli serviva altro.

I tre anni in California rappresentano per Thomas il trampolino di lancio di un giocatore al quale, inizialmente, tutti guardano con curiosità, o meglio con paternalistica compassione. Lui, così piccolo in mezzo a quei giganti, non potrà che rimanere altro che una meteora, si dice. Con il tempo, però, quella curiosità diventa stupore. Poi meraviglia. Infine paura, soprattutto da parte degli avversari. Perché Isaiah è imprendibile, ha un bagaglio tecnico sconfinato, un’intelligenza cestistica innata, una voglia continua di migliorarsi. In una parola, Isaiah Thomas è un fenomeno. Un fenomeno che nei quasi mille giorni a Sacramento migliora le sue statistiche in tutte le voci, dai punti agli assist, dai rimbalzi alle palle rubate fino alle percentuali dal campo.
Eppure in California qualcosa non va. Isaiah non si sente apprezzato, stimato da un ambiente che non sembra credere in lui, nonostante tutto, sempre preso dai capricci di un giocatore con il quale piccoletto di Tacoma non riuscirà mai ad andare realmente d’accordo. E che forse inizia a sentire quel metro e settantacinque davvero troppo ingombranti. Nell’ultimo anno arrivano a Sacramento anche Collison e Sessions, e per Thomas il ritorno in panchina diventa una realtà tanto inevitabile quanto inaccettabile. E’ il momento di partire.

E’ nell’estate del 2014, allora, che Isaiah prende una delle decisioni, fino a quel momento, più oscure e inspiegabili della sua carriera. Il contratto coi Kings è in scadenza, lui è restricted free agents alla fine dell’anno e la volontà di proseguire un rapporto mai realmente idilliaco manca da entrambe le parti. La trade dunque non può che essere l’unica soluzione auspicabile, ma trovare acquirenti per un giocatore in scadenza è impresa quantomai ardua, come facilmente deducibile. Accade così che Sacramento decida di imbastire una sign-and-trade per Isaiah, che l’11 luglio 2014 rinnova il contratto coi Kings prima di venire spedito verso la destinazione per la quale lui stesso aveva dimostrato maggior interesse e apprezzamento. E non ci sarebbe nulla di strano, nulla di particolarmente oscuro, se non fosse che la franchigia in questione erano i Phoenix Suns di coach Jeff Hornacek. Una squadra “frizzante”, giovane, in rampa di lancio, che però era contraddistinta dalla peculiarità letteralmente opposta a quella che Thomas, al suo ingresso nella lega, aveva incontrato a Sacramento: quel roster aveva un backcourt letteralmente oberato, che oltre ai due titolari inamovibili( Dragic e Bledsoe, il secondo, peraltro, giocatore molto simile al nativo di Tacoma) registrava a libro paga anche Seth Curry, l’altro Dragic, il rookie Tyler Ennis e Gerald Green.

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La patata bollente, a quel punto, passa nelle mani di coach Hornacek il quale, molto salomonicamente e razionalmente, decide di lasciare inalterato lo starting five inserendo Thomas in rotazione come sesto uomo, con la diretta e ineluttabile conseguenza, però, della riduzione del minutaggio per uno dei due titolari, nello specifico proprio Dragic. I Suns ottengono ottimi risultati nel super competitivo Far West, la squadra gioca bene e sembra addirittura poter puntare all’ultima piazza per i PO, viste le (s)fortunate contingenze che vedevano Kevin Durant lungodegente in infermeria e i suoi Thunder arrancare nella Western guidati faticosamente da un (già allora) eroico Russell Westbrook. Tutti felici, no? No, manco per idea. Il risultato finale, infatti, – a posteriori molto facilmente pronosticabile – è che a metà stagione sia Dragic che Thomas vogliono lasciare l’Arizona. Il 19 febbraio 2015, quindi, nel giorno della deadline, il primo verrà spedito nelle bollenti e soleggiate spiagge di South Beach a fare compagnia al buon Wade, il secondo, invece, prenderà l’aereo in una delle città più calde degli States per approdare in una di quelle più fredde o quantomeno più nevose. Next stop Boston, Massachusetts.

La trade messa in scena quel giorno da Danny Ainge è molto probabilmente una delle mosse più geniali e azzeccate del soggetto in questione nella sua lunga carriera da direttore sportivo. La manovra, infatti, non è teatrale come quelle che avevano visto i passaggi in verde di due fenomeni come Ray Allen e Kevin Garnett, ma è sicuramente molto più razionale e intelligente, considerate le necessità contingenti del roster che Brad Stevens aveva a sua disposizione in quel periodo. I Celtics erano in piena fase di ricostruzione, i Big Three erano ormai un lontano ricordo e l’unico reperto storico dell’indimenticabile titolo del 2008 era un Rajon Rondo ormai svogliato e quasi irritante. Dall’ultimo Draft era arrivato poi un giovanotto molto promettente da Oklahoma State, tale Marcus Osmond Smart: un giocatore incredibilmente dinamico, oltremodo atletico, straordinario nella propria metà campo, ma preoccupantemente carente e incompleto in fase offensiva. L’emblema dei Celtics di quella stagione, a pensarci bene: tanta grinta, tanta cattiveria agonistica, tanto cuore e tanto impegno. Ma a basket bisogna anche segnare, e a quella squadra uno scorer puro, in grado di spaccare la partita pur concedendo magari qualcosa in difesa, mancava come l’aria. Proprio in questo scenario, quindi, si coglie la genialità della mossa di Ainge: prendere uno degli attaccanti più underrated e “invisibili” dell’intera lega, nonché uno dei pochi sul mercato in quel momento – peraltro con un contratto a cifre molto ragionevoli -, dare in cambio praticamente nulla o poco più, inserirlo in un roster quasi totalmente mirato alla fase difensiva nel quale dargli carta bianca nella metà campo avversaria, e in un contesto all’interno del quale le pressioni e le aspettative sono, almeno momentaneamente, quasi pari a zero.

Le restanti 21 partite della stagione 2014-15 Isaiah esce sempre dalla panchina, gioca “solo” 26 minuti e nonostante ciò alla fine dell’anno è lo scoring leader della squadra con 19 punti, quasi 6 assist e 2.6 steals a partita. Tutto quello che Stevens gli chiede è “fai ciò che sai fare, io ho fiducia in te”. E questo è tutto ciò di cui ha bisogno Isaiah. When you have a coach that has confidence in you, that’s half the battle”. All’alba della nuova stagione, però, Thomas non può che essere il nuovo playmaker titolare dei Boston Celtics, è lo stesso pubblico del TD Garden a chiederlo, a pretenderlo quasi. E’ un uomo solo al comando. Chiude la stagione a 22 punti e 6 assist in 32 minuti di media, con 113 di  Offensive Rating e 107 di Defensive rating, rispettivamente massimo e minimo della sua carriera, guadagnandosi la meritatissima chiamata all’All Star Game e trascinando i Celtics ad un quinto posto nella Eastern assolutamente inatteso e insperato solo fino a paio di anni prima. Ai Playoff contro Atlanta, poi, gioca una serie a luci ed ombre, alternando prestazioni letteralmente eroiche, come quelle di gara 3 e gara 4 al Garden(42 punti nella prima col 50% dal campo, e 28 nella seconda con tripla ammazzapartita al supplementare completamente fuori equilibrio), a prestazioni decisamente più opache, che trovano il loro culmine massimo negativo nella gara 5 della Philips Arena che indirizza la serie a favore degli Hawks, quando chiude con 7 punti e un avvilente 3-12 dal campo in 30 minuti di utilizzo. In gara 6 le stats migliorano ma non sono sufficienti a scongiurare l’eliminazione e il passaggio del turno della squadra della Georgia. Isaiah a fine partita è stremato, letteralmente distrutto. Eppure c’è qualcos’altro, qualcosa che si può solo leggere tra le righe delle parole rilasciate da una testa china e sconfortata sotto un asciugamano al termine di una eliminazione. “Fa malissimo, ma questo gruppo è speciale e l’anno prossimo possiamo tornare ancora più forti”. I Boston Celtics ormai sono la sua squadra, e guidarla spetta a lui e a lui soltanto.

A questo punto, tentare di spiegare con le parole quello che Isaiah sta realizzando in questa stagione risulterebbe impresa oltremodo titanica e, in ogni caso, non riconoscente e valorizzante i meriti e le imprese del piccoletto di Tacoma. Si potrebbe parlare del primo career high da 44 punti contro Memphis del 20 dicembre, abbattuto poi meno di dieci giorni dopo con i 52 rifilati agli Heat, dei quali 29 solo nell’ultimo decisivo quarto. Si potrebbe parlare dei 30 punti di media col 47% dal campo, dei 6 assist, dei 124 punti di Offensive Rating(12esimo nella lega), dei 27.8 punti di Efficiency rating, davanti a signori come LeBron, Leonard e Curry, dei 10 punti di media segnati negli ultimi 12 minuti, ma l’analisi risulterebbe fredda, matematica,esageratamente professionale. No, Isaiah quest’anno è molto di più delle cifre straordinarie che sta facendo registrare sulla tabelle.
Isaiah Thomas è il cuore vivo e pulsante di una franchigia che sta finalmente tornando nelle posizioni che le competono per la tradizione vincente che la caratterizza, il go-to-guy di squadra “operaia” e solida che, però, non disprezza il bel gioco, un rebus irrisolto per tutte le difese della lega vista l’infinità vastità del suo bagaglio tecnico che gli consente di segnare e risultare offensivamente pericoloso in letteralmente ogni occasione, dal tiro da fuori alla penetrazione a canestro, con un primo passo fulmineo e contenibile da pochi. Stai lontano per non farti battere e lui ti tira in faccia, ti avvicini troppo e lui ti lascia nella polvere. Lo raddoppi o cambi sul pick’n roll e lui ti smazza 7 assist di media, non lo fai e gli lasci un centimetro e lui ti infila due punti con un dolcissimo floater mancino(cosa che a Rondo, ad esempio, non è mai riuscita troppo bene). Non se ne esce, non più ormai.

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“E allora la mia statura non dispensò più buon umore
A chi alla sbarra in piedi, mi diceva Vostro Onore,
E di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio
Prima di genuflettermi nell’ora dell’addio
Non conoscendo affatto la statura di Dio.”

Più di tutto, però, Isaiah Thomas, in quella lega di titani, coi suoi 175 cm per 80 kg era e rimane tuttora un nano, esattamente come continua ad esserlo Selah Lively nella società normodotata dalla media statura. Solo che adesso Selah Lively fa il giudice, e le risate di scherno, le occhiate sfuggenti e i sorrisi di compatimento sono scomparsi, tutti quanti. Ora tutto ciò che gli è dato di vedere sono sguardi supplicanti, ostentate espressioni di finto rispetto, accondiscendenti capi chini e mansuete pecore da spedire al macello col solo gesto di una mano, quella con cui batte il martello sul tavolo dopo aver emesso la sentenza di condanna. Quella che, per Thomas, diventa la mano con la quale segnare un layup, realizzare una tripla, forzare una palla persa su un puntualissimo anticipo, prima di prendersi il boato di una arena dalla quale adesso non si alzano più cori o canzoni che lo deridono per la sua statura come accadeva ai tempi della high school. Anche Isaiah Thomas, a modo suo, è diventato un giudice. E adesso non ride più nessuno. Forse solo lui.

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Pubblicato da
Alessandro Zullo

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