Dopo aver pensato a lungo come aprire il pezzo su una carriera tanto bella quanto velata di tristezza quando ci si accorge che questo straordinario atleta non è ai riuscito a disputare nemmeno una volta le NBA Finals abbiamo deciso di mettere per un attimo da parte le parole e lasciare parlare le immagini.
Il tributo che hanno dedicato i Toronto Raptors, squadra iniziale della sua carriera e quella in cui ha lasciato il ricordo più indelebile, è, contemporaneamente, da pelle d’oca e da adrenalina pura. Quella stessa adrenalina che metteva in circolo ogni volta che indossava la canotta #15 e si presentava sul parquet canadese, quella stessa adrenalina che senti vibrare quando riguardi la leggendaria “dunk de la morte” sopra il piccolo Frederic Weis, il centro francese 2.18 letteralmente sotterrato da quel giocatore in maglia USA.
Ripercorrendo in maniera veloce la sua carriera ci si accorge che non ha mai potuto giocare in una squadra davvero competitiva, forse un’arma a doppio taglio perchè se da una parte può non avere rimpianti, consapevole di aver sempre dato il massimo e non aver mai “toppato”, dall’altra sarebbe stato bello vederlo andare a giocarsi il Larry O’Brien almeno una volta nella vita.
Guardando il suo impatto sulla lega e i numeri pazzeschi messi insieme nei primi anni della carriera non si comprende come Toronto non sia mai riuscita a dargli un’occasione vera e come i Nets non siano stati in grado di costruire attorno a lui e Jason Kidd una squadra quantomeno competitiva ad Est, dato che era sì una presenza costante ai playoff ma non sarebbe mai stata in grado di impensierire l’ascesa del Prescelto o gli Heat di capitan Wade.
Ma nonostante tutto questo, nonostante la presenza “marginale” nelle partite che contano, Vince Carter ha lasciato un segno indelebile nella NBA, verrà ricordato come uno dei migliori schiacciatori di sempre, tanto da diventare musa ispiratrice per i giovani schiacciatori. Il fatto che anche a 40 anni suonati riesca a dare un contributo importante ai suoi Grizzlies non fa che aumentare l’ammirazione per l’uomo che sapeva volare: “Air Canada”, “Vinsanity” o, più semplicemente, Vince Carter.
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Sulle orme di MJ
Nato a Daytona Beach, in Florida, il 26 Gennaio 1977 Vincent Lamar Carter si divide fin dalla tenera età tra le più disparate passioni che permeano la Contea di Volusia. E’ un appassionato di motori e non potrebbe essere altrimenti data la “Daytona 500”, l’evento season-opening del calendario NASCAR, che si tiene ogni anno nella sua città natia. Gioca discretamente a football e fa parte della banda della scuola, suonando sufficientemente bene sia il sassofono che la tromba per ricevere addirittura una proposta dal college Bethune-Coockman per proseguire gli studi e diventare un musicista.
Per la gioia dei posteri, però, non è attratto da una carriera musicale. Vince gioca a basketball nella Mainland High School, dove viene notato da numerosi osservatori a stelle e strisce che gli valsero le proposte per alcune borse di studio. Tra le lettere recapitate nella cassetta della posta della famiglia Carter ne arriva anche una che proviene da North Carolina e contiene una proposta di Dean Smith, niente di meno che l’allenatore universitario del suo modello. Eh si, perchè quando Vincent si trova a scegliere quale offerta accettare è il 1995 e Micheal Jordan ha appena deciso di tornare. Chiunque avrebbe voluto essere like Mike.
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Il giovane Carter vola quindi in North Carolina ma non entra da subito nelle rotazioni di coach Smith, come tutti i freshmen che decidono di andare a giocare per lui (tranne uno). Dai 17 minuti di media del primo anno passò ai 27 del secondo dove iniziò a fare intravedere tutte le potenzialità che lo avevano portato ad essere considerato come uno dei migliori giovani da reclutare. Paradossalmente la sua carriera esplode con il ritiro di Dean Smith e con la promozione a capo-allenatore dell’assistente Guthrdige che lo fa giocare stabilmente in quintetto e che viene ripagato dalle final-four NCAA e 15 punti e 5 rimbalzi di media. Facendo parte del secondo quintetto All-American Vincent decide di rendersi eleggibile per il draft del 1998.
Selezionato alla #5 dai Golden State Warriors viene tradato in cambio di Antawn Jamison scelto alla #4 proprio dai Toronto Raptors, secondo un accordo già stabilito in precedenza. La sua prima stagione (’98-’99) è quella del lock-out e del secondo ritiro di His Airness dopo il secondo, storico, three peat raggiunto dai Bulls. La lega ha bisogno di un nuovo punto di riferimento, soprattutto sul lato mediatico, e quel ragazzo in uscita da North Carolina sembra promettere davvero bene. L’atletismo e il college di provenienza aprono subito paragoni scomodi ma, per quanto possa essere positiva la breve stagione regolare, il pubblico capisce che non siamo a quei livelli. Intendiamoci, tiene 18 punti e oltre 5 rimbalzi di media vincendo in carrozza il Rookie Of The Year, ma non sembra poter diventare la stella polare della lega come colui che se ne era appena andato per la seconda volta.
Half amazing
La stagione a cavallo dei due millenni diventa la rampa di lancio per Vincent, per nulla spaventato dai paragoni pesanti. Il pubblico di casa inizia ad idolatrarlo ed ha i suoi buoni motivi: 25 punti di media (conditi da 4 assist e 5 rimbalzi), prima partecipazione all’All Star Game (presenza fissa per 8 stagioni consecutive), vince un meraviglioso Slam Dunk Contest arrivando in finale con Steve Francis di Houston e, soprattutto, il suo amico fraterno Tracy McGrady e trascina Toronto ai playoff, prima volta nella storia della giovane franchigia canadese, da cui vengono eliminati subito dai New York Knicks.
L’amore tra il pubblico dell’Air Canada Center ed il sophomore originario della Florida sboccia immediatamente tanto da valergli il soprannome di “Air Canada”. E’ già l’uomo franchigia, colui da cui tutti si aspettano la leadership, è il re di Toronto e con lui i tifosi possono sognare in grande. Prima di rituffarsi nella piacevole routine NBA Vince si toglie anche lo sfizio di vincere una medaglia d’oro alle Olimpiadi di Sidney 2000 e di rimanere nella storia con quel gesto atletico mostruoso con cui abbiamo aperto il pezzo.
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Nella stagione 2000-2001 il feudo canadese di Carter si qualifica di slancio ai playoff, grazie ad un ulteriore salto di qualità del suo leader (27 punti ad allacciata di scarpe), e si prende la rivincita sui Knicks approdando in semifinale. Tra Toronto e Philadelphia si apre una serie fantastica ed emozionante che si risolve in favore della franchigia della Città dell’Amore Fraterno dopo 7 battaglie ed un ultimo tiro sbagliato dal #15 sulla sirena.
Nonostante il miglioramento evidente nella fredda aria canadese iniziano a sentirsi degli scricchiolii. Nasce e muore in qualche giorno una “polemica” sul fatto che il giorno prima della decisiva gara-7 in Pennsylvania la stella della squadra abbia saltato gli allenamenti per andare a ritirare la laurea. Il tutto ovviamente era stato concordato con la squadra e le voci si spengono dopo pochi giorni, anche grazie al prolungamento firmato in estate fino al 2007. Gli scricchiolii iniziano a sentirsi anche nel fisico di Carter, nonostante i soli tre anni di attività professionistica, e dopo le prime 60 partite della stagione successiva è costretto a fermarsi ai box e saltare la fase conclusiva della regular ed il primo turno di playoff in cui, nonostante la sconfitta al primo turno con i Pistons, viene apprezzato il gioco corale della squadra privata della sua stella.
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I numerosi problemi al ginocchio sinistro lo limitano a sole 43 presenze, con il minimo in carriera dalla sua stagione di rookie per quanto riguarda i punti (“solo” 20 a partita) ed innescano il lungo percorso di trasformazione del suo gioco, costringendolo a passare molto più tempo appostato sul perimetro e limitando le penetrazioni che lo rendevano quel giocatore di cui si erano follemente innamorati i tifosi di Toronto. L’estate lo aiutò a riprendere la fiducia nei suoi mezzi e ripristinò, in parte, la dinamite nei polpacci del nativo di Daytona.
Nell’estate del 2003, però, la scelta numero #4 al draft porta in città un nuovo aspirante re, un lungo dalle mani dolci ed in grado di allargare il campo in maniera decisamente intrigante, tale Chris Bosh, ancora acerbo ma decisamente pericoloso per la leadership del #15. La prima stagione risulta di affiatamento ed il mediocre record 33-49 porta all’esclusione dai playoff per il secondo anno di fila. Le lamentele di Carter per le sabbie mobili in cui stava affondando la franchigia non piacciono ai tifosi: con un ambiente destabilizzato per i dissidi tra la stella e la sua tifoseria la partenza dell’anno successivo è ancora una volta mediocre. A gennaio 2005 la situazione si è fatta insostenibile e la proprietà decide di dare il via alla ricostruzione. “Air Canada” prende il volo, destinazione New Jersey.
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Arrivato in una squadra che sente di essere in declino, dopo non essere riuscita a tornare per la terza volta consecutiva alle Finals, Vince ritrovò la forma dei tempi migliori e continuò a fare il bello ed il cattivo tempo nelle metà campo difensive avversarie, senza però riuscire a produrre risultati di squadra accettabili. Le sue grandi capacità di scorer vengono anche accompagnate da una buona produzione di assist raramente mostrata nei suoi anni in Canada ma non basta per far tornare la franchigia ai fasti recenti. La prima stagione completa (2005/2006) vissuta con i Nets viene interrotta dai futuri campioni di Miami al secondo turno della post-season mentre l’anno successivo la corsa viene interrotta nello stesso momento da i Cavs dei LeBron.
Half man
Esce dal contratto per rifirmare con i Nets a cifre più vantaggiose ma la fiducia nella franchigia viene tradita con la scelta di spedire Jason Kidd ai Mavericks (Dirk ringrazia) e fare partire la ricostruzione. Già da quel momento il destino di Carter ai Nets è segnato e la parabola della sua carriera inizia la fase discendente, senza aver mai toccato davvero il suo massimo apice possibile. Passa comunque altri due anni nella franchigia senza dare segni di sofferenza sullo stato di mediocrità in cui era precipitata la squadra, quasi rassegnandosi al suo destino di “perdente di successo”.
Nel 2009 viene spedito con una trade ad Orlando diventando un ottimo giocatore perimetrale per il sistema di Van Gundy. Del giocatore “amazing” che fu si vedevano sempre meno tracce e, con grande intelligenza, capì cosa doveva fare per prolungare la sua carriera in NBA. La squadra dello stato natio riesce anche a dargli la soddisfazione di arrivare ad un passo dalle Finals andandosi a giocare le finali di Conference contro i Celtics. Il trio in verde ha però altre idee e fa fermare a quella stazione la corsa del treno Magic.
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A metà del 2010 viene spedito a Phoenix dove rimane giusto un anno prima di subire l’onta del taglio nel dicembre 2011. All’alba dei 35 anni, diventato definitivamente un giocatore umano e senza più una squadra, Carter si guarda intorno e deve decidere cosa fare. A dare di nuovo un senso alla sua carriera ci pensano quei Dallas Mavericks campioni in carica alla ricerca di veterani a cui affidare una disperata difesa del titolo di cui erano detentori.
Ancora una volta arriva nel momento calante di una squadra ma il suo innesto è una boccata di ossigeno e consente ai Mavs di qualificarsi ai playoff con il ricord di 36-30, a causa del lockout di inizio stagione. Non riuscendo a resistere all’esuberanza dei giovani Thunder, Dallas viene spazzata via 4-0 al primo turno, diventando la prima squadra campione in carica ad essere eliminata al primo turno senza vittorie. Non esattamente un record di cui andare fieri. La fase discendente di Dallas la vive senza rimorsi e partecipando attivamente al tentativo di rebuilding guidato da coach Carlise.
Diventato free agent nell’estate 2014 firma con i Memphis Grizzlies diventando quest’anno il più anziano giocatore ancora in attività. La cosa che stupisce è il grande impatto che è in grado di dare dalla panchina, avendo modificato radicalmente il suo gioco e passando definitivamente dallo spot di “ala piccola” a quello di “guardia”. Con pazienza si è costruito una eccellente meccanica di tiro con cui riesce ad essere una risorsa importante nella second-unit oltre ad essere un apprezzato uomo spogliatoio.
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Le cifre parlano chiaro: 8 punti a partita con quasi 7 tentativi di media (di cui 4 sono dietro la linea dei 7,25) sono il manifesto dell’utilizzo che ne fa coach Fizdale nei quasi 24 minuti di media che trascorre sul parquet, un dato notevole per un fresco quarantenne se pensiamo a quanto si sia modificato e velocizzato il gioco dai suoi esordi. In questi ultimi sgoccioli di carriera si sta anche togliendo delle soddisfazioni personali. L’altra sera è diventato il quinto marcatore di sempre per quanto riguarda le triple realizzate, meglio di lui solo dei mostri sacri come Pierce, Terry, Miller ed Allen.
Non stupiamoci però se questa non sarà la sua ultima stagione NBA. Ad inizio stagione ha espresso il desiderio di arrivare a 20 anni da professionista per poi decidere se ritirarsi o se proseguire per scrivere una pagina di storia ponendo un record difficilmente pareggiabile. La passione per il Gioco, che brucia ancora dentro questo ragazzino di 40 anni, sarà più forte del degrado fisico che immancabilmente arriverà e che gli imporrà il ritiro.
Mentre aspettiamo che ciò accada possiamo semplicemente ringraziarlo per una carriera per metà “human” e metà “amazing” che ha donato a tutti gli amanti di questo sport.
Alberto Mapelli