Karl Malone – C’è posta per te

The Mailman. Il Postino. Un lavoro onesto, di quelli da svolgere con costanza e dedizione, con un sole splendente nel cielo o in una tormenta di neve. Sicuramente non il lavoro dei propri sogni, non la risposta di tutti i bambini alla classica domanda “Cosa vuoi fare da grande?”. Eppure siamo sicuri che qualche bambino americano, nato sul finire degli anni ’80 nello stato dello Utah e cresciuto a pane e parquet, abbia risposto così.

Immiginiamoci un bambino afroamericano che ha appena scartato il suo regalo di Natale e dentro ci ha trovato la canotta #32 del suo idolo che è andato un paio di volte a vedere a Salt Lake City. “I will be the Mailman”. The Mailman è il soprannome di uno dei due trascinatori degli Utah Jazz, squadra che non vive giorni di gloria da molto tempo ma che nella metà degli anni ’90 stava tornando a dominare la West Conference. I protagonisti di quella storia sono John Stockton, playmaker bianco che sembra più un impiegato che un atleta ma che ha scritto un record che sembra irraggiungibile, e Karl Anthony Malone, lungo afroamericano con un fisico scolpito nel marmo, o forse sarebbe meglio dire nell’avorio.

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I due hanno segnato un’epoca e sono la massima espressione del pick&roll, lo schema più semplice esistitente e che è stato portato ad un livello sublime dai due sopraccitati. Stockton-to-Malone era la frase che suonava come una condanna per i tifosi avversari dei Jazz. L’impiegato delle poste affidava un bel pacco di lettere da recapitare al postino che, senza scrupoli, suonava due volte (o anche tre per essere sicuri) e consegnava al ferro. “The Mailman” era un soprannome perfetto per un ragazzo venuto dal nulla, abituato a lavorare sodo per aiutare la famiglia e che ha anche rinunciato ad una grande opportunità pur di continuare a sostenere mamma Shirley nel mantenimento della famiglia che, oltre a loro, comprendeva altri 8 fratelli e sorelle, tutti più grandi di lui.

In 19 anni di straordinaria carriera professionistica si è issato al secondo posto della classifica all-time per punti realizzati (36.928) a soli 1.459 punti dal leggendario Kareem Abdul Jaabar, ma tenendo una media per partita anche superiore (25 e spiccioli contro i 24,6 del leader all-time). Non sono stati sufficienti per fare entrare nella sua bacheca un anello ma sono bastati per prendersi il rispetto dell’intero mondo del basketball che lo ha ammirato durante una carriera straordinaria.

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24 Luglio 1963. A Summerfield, Louisiana, si appende un fiocco, il nono, in questo caso azzurro, fuori dalla porta di casa Malone. Mamma Shirley ha dato alla luce un bel maschietto che, insieme a suo marito Shedrick, ha deciso di chiamare Karl Anthony. Difficile in quel momento immaginare che solo 3 anni dopo la situazione economica precaria della famiglia e qualche demone interiore portino il signor Malone ad abbandonare sua moglie con 9 figli da crescere. Ma i tormenti stavano acquistando sempre più forza tanto da spingerlo al suicidio quando il suo ultimo figlio spegneva 14 candeline.

Con 9 figli da mantenere Shirley non può fare altro che rimboccarsi le maniche, abbassare la testa di fronte ai problemi razziali che permeavano lo stato della Louisiana e lavorare sodo. Una dote, quella del sacrificio, che insegnerà molto ai suoi pargoli, ma che si instillerà prepotentemente soprattutto nel carattere del più piccolo. Il giovane Karl cresce temprando anima e fisico in battute di caccia ed in sessioni di taglio della legna nel bosco, utili per dare da mangiare alla famiglia e per tenere acceso il fuoco ma soprattutto per farlo maturare in fretta. Il poco tempo libero lo trascorre sui rari playground sparsi in una terra immersa nelle campagne, non di certo sui libri per cui non svilupperà mai una grande passione.

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Alla Summerfield High School inizia a mettere in mostra l’incredibile talento che Madre Natura gli aveva donato in cambio di quello spirito di sacrificio così spiccato. Per tre anni veste la poco prestigiosa canotta della scuola locale e per tre anni porta all’istituto il titolo di campione regionale della Louisiana, roba mai vista né considerata da quelle parti. Ma esibirsi in un contesto tecnico così poco appariscente fa si che venga notato solo da un college di un certo prestigio, quello dell’Arkansas, che però non trovò una motivazione adatta per convincerlo ad abbandonare la terra natia e, soprattutto, l’amata famiglia. La scelta di Karl è Lousiana Tech, la più vicina a casa.

Al college parte con il botto: 21 punti e 10 rimbalzi di media che gli valgono il titolo di “Player of the Year” della Southland Conference. Gli occhi degli scout NBA iniziano a posarsi su quel lungo dal fisico definito ma iniziano a spostare il bersaglio su altri profili visto che i numeri, al contrario di quello che ci si potesse aspettare, calano. I risultati di squadra invece sono storici per il college. Prima partecipazione al torneo NCAA al suo secondo anno addirittura raggiungendo il traguardo delle Sweet Sixteen. Nell’estate dell’84 partecipa anche ad uno stage pre-olimpico convocato da “The General” Bobby Knight, l’allora coach della selezione a stelle e strisce, in cui conosce un simpatico ragazzo bianco, che di professione faceva il playmaker e che si apprestava ad entrare nel mondo dei professionisti nel draft dell’84. Troppo presto per Malone, che vive un terzo ed ultimo anno nelle tra le file dei Bulldogs prima di decidersi a staccarsi dalla famiglia e dallo stato natio.

Al draft 1985 vennero selezionati molti giocatori che sono diventati Hall of Famer e provenienti da college molto più quotati della piccola Louisiana Tech. Non dobbiamo stupirci allora se un prospetto così interessante come Karl Malone sia scivolato fino alla pick #13 in mano agli Utah Jazz. Le sue umili origini si manifestarono nelle prime emozionate dichiarazioni post-draft in cui si dichiara molto contento e orgoglioso di andare a giocare nella città di Utah. Non proprio un ottimo modo per fare da subito colpo sui tifosi della squadra di Salt Lake City e dello stato dello Utah. Sono sicuro, però, che lo abbiano perdonato molto presto.

Arrivato a Salt Lake City nell’estate dell’85 non ha bisogno di un grande periodo di ambientamento. Nelle prime 5 partite fa vedere di che pasta è fatto andando stabilmente in doppia-doppia, parte in quintetto per 76 volte, praticamente sempre, ed inizia ad intrecciare un rapporto meraviglioso con il playmaker arrivato dal draft precedente. Quando arriva in città gli sembra di aver già conosciuto quel ragazzo dall’aspetto banale, tecnicamente un muto, ma con due mani dolcissime. Ma certo! John Stockton, il ragazzo dello stage! In Utah a quei tempi non sanno ancora che in due estati è stato costruito il più forte asse playmaker – big man mai esistito: se ne accorgeranno presto.

I due iniziano a frequentarsi non solo sui campi da gioco ma anche nella vita di tutti i giorni. Così differenti eppure così simili, l’intesa funziona a meraviglia. La sensazione che ci sia qualcosa di magico nel loro dialogo sul parquet permea l’aria anche negli uffici della dirigenza tanto che dopo 6 mesi dall’arrivo di Malone si decide di fare una mossa quantomeno azzardata. L’indiscussa stella della squadra Adrian Dantley, All-Star e scorer di razza, viene spedito a Detroit in modo da mettere la squadra interamente nelle mani di un rookie e di un sophomore. Tra i Monti Rushmore erano riusciti a vedere più lontano di tutti.

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Nonostante gli sconvolgimenti a livello di roster Utah entra ai playoffs, una costante di tutti gli anni di Malone, con il quinto record venendo però eliminata al primo turno dai Mavericks. E’ solo l’inizio: la musica suonata nello Utah crescerà in maniera regolare e strabiliante di intensità tanto da iniziare ad essere percepita all’interno del sistema NBA, non più abituato a guardarsi troppo di quella franchigia dai tempi di Pistol Pete. In egual misura crescono i numeri del nativo della Louisiana: regolarmente sopra i 20 punti di media dal 1986 al 2003, sopra i 25 di media dal 1987 al 1998 senza contare che oscilla tra i 9 e i 10 rimbalzi di media. Le letture del gioco si approfondiscono, diventa anche un “facilitatore” galleggiando tra i 3 e i 4 assist per partita ma, soprattutto, la capacità di aumentare il livello del proprio gioco nei momenti chiave della stagione.

Quello che da la svolta definitiva è l’avvicendamento in panchina. Dopo 17 partite della stagione 1988-1989 Frank Layden viene ricollocato nella posizione di presidente esecutivo ed in panchina ci finisce Jerry Sloan, l’uomo che ha appena perso la striscia di vittorie più lunga con la stessa franchigia a favore di Gregg Popovich. Come si può intuire, quindi, Sloan sulla panchina dei Jazz segnerà un’epoca. Il problema è che tra gli anni ’80 e gli anni ’90 la corsa ad Ovest era davvero spietata. C’erano i Rockets di Olajuwon, i Trail Blazers di Drexler, i Lakers di Magic, i Sonics di Payton e Kemp, i sempreverdi Spurs… Serve pazienza, costanza e spirito di sacrificio, tutte caratteristiche che sono proprie di Malone, abiutato a sfiancarsi per ore in palestra o a correre giù da un pendio con il paracadute per aumentare la capacità di resistenza. Allenamenti non banali per un giocatore non banale.

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Alla fine della regular season 1996-1997 the Mailman alza il trofeo dell’MVP: 27.4 punti, 9.9 rimbalzi e 4.5 assist di media e miglior record della lega per i suoi Jazz. Si fa sul serio. La cavalcata ai playoff è inarrestabile ed in Utah sognano. 3 a 0 ai Clippers e 4 a 1 ai Lakers nei primi due turni, 4 a 2 ai Rockets nelle finali di Conference e Finals senza troppa pena. L’annata straordinaria di Utah chiusa con un record fuori dal comune di 64-18 era però passata relativamente sottotraccia visto che dall’altra parte c’erano quelli là. E quelli là erano i Chicago Bulls di His Airness che hanno appena riscritto la storia chiudendo 72-10 in regular.

Le Finals 1996/1997 rispettano del tutto le attese e sono spettacolari. Le prime 4 gare le vincono sempre i padroni di casa ma tutte sul filo di lana, salvo gara-2 dominate dai Bulls. In gara-1 MJ piazza il buzzer beater, in gara-3 Malone diventa una forza della natura affossando Rodman nel pitturato (37+10) e in gara-4 si scopre un lungo “moderno” con 23 punti, 10 rimbalzi e 6 assist. Gara-5 diventa così il turning point della serie, l’ultima in Utah secondo il vecchio modello 2-3-2, e tutta Salt Lake City vuole spingere la franchigia di casa verso un insperato 3 a 2 dopo essere andata sotto due a zero.

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Passerà ai posteri come “flu game”, la conoscono tutti e non per le imprese di Malone e dei suoi Jazz ma per la capacità del più grande di sempre di giocare una partita da dominatore (39 a referto) nonostante una intossicazione alimentare causata, molto probabilmente in maniera volontaria, da una pizza portatagli nella notte. Le velleità dei Jazz si spengono lì, quando si accorgono che un uomo sul punto di svenire numerose volte in campo sta dominando il match. Gara-6 diventa quasi una formalità, sbrigata agilmente dai Bulls.

L’annata successiva è una corsa furiosa di entrambe le squadre verso il Replay desiderato da tutti gli appassionati americani e non. I Jazz disputano ancora una stagione memorabile e chiudono con il miglior record della lega (62-20) che gli consentirebbe di avere il fattore campo in caso di approdo alle Finals. Sulla loro strada incontrano Rockets, Spurs e Lakers ma contro il duo Stockton-Malone all’apice delle loro carriere non c’è argine che tenga. 3-2, 4-1 e 4-0 in un crescendo che fa davvero sognare tutti i tifosi mormoni. Dall’altra parte i Bulls arrivano stremati dopo una corsa folle di 3 anni e le micce per l’autodistruzione prossime ad estinguersi.

Il fattore campo risulta decisivo in gara-1 (21+14 per il postino) ma, incredibilmente, i Bulls ne vincono 3 di fila senza che i Jazz riescano ad opporre resistenza, tra cui un clamoroso 96-54 nella prima a Chicago. Poi arriva il colpo di coda che ormai nessuno si aspettava. Nella tana del nemico Malone si carica tutta la franchigia Jazz sulle spalle e tira fuori dal cilindro 39 punti avvicinandosi molto al 50% della produzione dell’intera squadra. Per la gioia dei tifosi neutrali che possono godersi semplicemente lo spettacolo si torna in Utah dove il palazzetto sarà un inferno. Questa volta niente pizza, niente complotti e niente stratagemmi: gara-6 è un’occasione tanto clamorosa quanto meritata perché, in caso di pareggio, la decisiva game-7 si giocherebbe in Utah ed i Jazz sarebbero i favoriti d’obbligo. La partita è epica e può essere decisa solo da una giocata epica di cui fanno parte 3 personaggi: Micheal Jordan, Bill Russel e, purtroppo per lui, anche Karl Malone.

Utah è sopra di uno ed ha la palla in mano, mancano più di 24 secondi alla fine quindi deve per forza provare a tirare. Malone, fino a quel momento strepitoso con 31 punti, 11 rimbalzi e 7 assist (tra cui quello per la tripla del fidato John) riceve palla in post contro Rodman. Jordan spunta dal lato cieco e gli strappa la palla dalle mani, con una facilità che risulta quasi umiliante per Malone. Dall’altra parte lo aspetta Bill Russel: finta di batterlo a destra, ritrova l’equilibrio con una mano appoggiata sul fianco del miglior difensore di Utah e segna due punti con un jumper morbidissimo. Sprecato l’ultimo possesso con un tiro di Stockton che si spegna sul ferro ai Jazz non rimane nient’altro che la seconda sconfitta consecutiva contro la squadra più forte di sempre.

Oltrepassati i 35 anni di età dai suoi due migliori giocatori la parabola della franchigia è destinata a calare. Nessun’altra opportunità, un altro MVP della regular season nel ’98-’99 non coronato da altre Finals, ed un amore, quello tra Malone ed i Jazz, che termina con il ritiro del playmaker muto, leader all-time della classifica degli assist a quanto sembra in maniera irraggiungibile. Incapace di vestire ancora la canotta che gli ha dato tutto senza il proprio fidato compagno Malone tenta l’ultimo disperato assalto all’anello andando ai Lakers per formare quella che, sulla carta, sarebbe una delle squadre più forti di sempre. Bryant e Shaq al massimo della carriera accompagnata dall’esperienza di Gary Payton, Karl Malone e Rick Fox.

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Se fino a 40 anni Malone aveva saltato pochissime partite, una volta arrivato a Los Angeles, il fisico decide di abbandonarlo. Salta la seconda metà della regular season ma riesce a tornare in tempo per i playoffs, il momento decisivo ed in cui non può più sbagliare. Dà un contributo modesto secondo i suoi standard (11+9) di media in tutte le serie ma la squadra va senza incontrare particolari ostacoli. Eliminano Rockets, Spurs e T’Wolves ed approdano alle Finals da assoluti favoriti soprattutto perchè ad Est, a sorpresa, emergono i Detroit Pistons come sfidanti.

Al termine delle 5 gare con cui si risolve la serie Malone entra ancora una volta nei libri di storia ma, ancora una volta, ci entra dalla parte sbagliata. Eh si, perchè i Pistons realizzano il più clamoroso upset della storia strapazzando i divi di Los Angeles per 4 a 1 in una serie senza storia. La delusione per il big man è troppa e decide di gettare la spugna. La decisione di non scendere più in campo viene presa in estate e Malone non si presenta ai blocchi di partenza della stagione successiva.

I 19 anni di carriera sono sufficienti per godersi una meritata pensione anche se per sempre tormentata da quello zero nella casella delle vittorie totali. Il postino appende la borsa e il cappello di ordinanza al chiodo, ha consegnato tutte le lettere possibili ed immaginabili ma non è riuscito a raggiungere il traguardo che si era prefissato perchè un destino beffardo ha posto sulla sua strada il giocatore più forte di ogni epoca.

Ma se dal 1985 al 2003 ti trovavi costretto a passare dallo stato dello Utah per giocare una partita di basket potevi stare certo che, ripetutamente, un Mailman avrebbe suonato alla porta del pitturato e, con una straordinaria eleganza, ti avrebbe salutato con queste parole: “Amico, fammi entrare, c’è posta per te”.

Alberto Mapelli

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  • mi pare che l anno del 72/10 dei Bulls sia il 95/96, anno della finale con i Sonics....cambia poco, bei tempi comunque !!!!!!

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NbaReligion Team

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