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Carmelo Anthony: My Way

L’importante non è vincere, ma partecipare.

A dispetto di quanto si possa pensare, non fu Pierre de Coubertin a pronunciare questa celeberrima frase, o meglio, non fu il primo. A quanto pare, infatti, il fondatore delle moderne Olimpiadi si limitò a citarla: il vero padre dell’espressione altri non è che un vescovo della Pennsylvania, tale Ethelbert Talbot, in occasione delle Olimpiadi del 1908. Giustizia è fatta dunque, Padre Talbot vedrà finalmente riconosciuti i suoi diritti d’autore. Fin qui tutto bene, ma esattamente cosa c’entrano Pierre de Coubertin e Ethelbert Talbot con quel ragazzone in copertina?

C’entrano, eccome se c’entrano. A giudicare dalle gesta del ragazzo in questione, il mantra della strana coppia di cui sopra avrebbe potuto rappresentare una più che discreta consolazione che, unita agli oltre 50 milioni di dollari garantitigli per i prossimi due anni dal suo contrattino con i New York Knicks, gli avrebbe fatto trascorrere più serenamente le ultime stagioni prima dell’inevitabile pensionamento. Eppure il nostro uomo non si è rassegnato, voleva vincere ad ogni costo. Al diavolo de Coubertin e le sue belle parole: cosa ne vuol sapere un pedagogista di basket? A pensarci bene, se il pedagogista in questione è quello che ha ridato nuova linfa alle Olimpiadi forse di sport ne avrà pur capito qualcosa, ma cosa dire di un vescovo? Che ne sa dell’aura mistica che circonda i vincitori del titolo Nba? Eppure, come Michael Caine ci insegna in “The Prestige” (si ringraziano i peggiori siti di aforismi per la citazione), “l’ossessione è un gioco che si fa da giovani” e forse vescovi e pedagogisti non hanno sempre torto.

Pierre de Coubertin in tutta la sua eleganza (Credits to www.mondi.it, via Google)

Riuscire a vincere un anello. Non male come ossessione, soprattutto se consideriamo che una ventina di anni fa i problemi del giovane Carmelo Kyam Anthony erano ben altri. Già, perché in una Brooklin che ha poco a che vedere con la patinata Fifth Avenue, un male incurabile lascia i fratelli Anthony prematuramente privi di una figura paterna e mamma Mary è costretta a fare gli straordinari per mantenere la famiglia. È il 1992 quando la famiglia di Carmelo fa i bagagli e si trasferisce nella vicina Baltimora, in cerca di un futuro migliore. Tuttavia, pensare di trovarlo nel quartiere “Chemistry” di una delle città più pericolose d’America è poco meno di un’utopia: si parla di chimica, ma non certo quella che si studia a scuola. Non che i più tradizionali racket malavitosi non trovassero spazio, anzi, ma è lo spaccio di stupefacenti a monopolizzare le vie in cui il piccolo Melo si ritrova suo malgrado a crescere. In un contesto non esattamente fiabesco il rischio di scegliere la strada più facile è davvero dietro l’angolo, ma come per tanti suoi colleghi è la palla a spicchi a salvarlo, nella migliore delle ipotesi, da un futuro dietro le sbarre. Meglio la compagnia del pallone che quella dei secondini, avrà pensato mamma Mary, ancora ignara del talento spropositato di cui il piccolo Carmelo dispone. Il pallone ben presto diventa il miglior amico che Melo potesse scegliere: i due vivono in simbiosi, non riescono a fare a meno l’uno dell’altro. Nessuno in tutta Baltimora è in grado di flirtare con l’arancia come fa lui, nessuno merita di averne il controllo più di lui, e su questo dovremo ahinoi tornare in seguito.

Per il giovane Anthony è ormai tempo di iscriversi alla Towson Catholic High School. Se sulle doti tecniche già da qualche anno non c’erano dubbi, l’esponenziale sviluppo fisico compiuto da Carmelo nei tre anni trascorsi alla Towson riesce a convincere anche i più scettici che il ragazzo di strada potrà farne quanta vorrà. Purtroppo però, tenere nascosto un talento del genere non è certo la cosa più semplice del mondo: il nome di Anthony comincia a circolare tra gli scout dei principali college americani e l’attenzione mediatica non fa che distrarre la stellina di Baltimora, le cui numerose assenze in classe non passano inosservate in un contesto poco frequentato da future superstar del basket.

Kevin Garnett, Kobe Bryant e Tracy McGrady, stelle dell’Nba dei primi anni 2000 (ci sarebbe anche Kwame Brown, ma il buon senso ci impedisce di scrivere il suo nome nelle immediate vicinanze del termine “stella”) avevano già sfatato il tabù dei giocatori che si erano resi eleggibili al Draft senza mettere piede al college e ben presto giocatori del calibro di LeBron James e Dwight Howard avrebbero seguito le loro prestigiose orme. Anche Anthony, dall’alto della sua fama di stella liceale, avrebbe potuto compiere il grande salto nel basket dei grandi senza che nessuno avesse da ridire. Tuttavia, come il già citato Kwame Brown insegna, il rischio di bruciare le tappe non è da sottovalutare. Per evitare di seguire le orme sbagliate, su consiglio della madre Carmelo decide di trascorrere almeno un anno al college, onde evitare di arrivare impreparato sui parquet che contano. Con ancora due anni da trascorrere al liceo, la scelta del giovane Anthony ricade su Syracuse. Per il momento però il rischio che corre la star di Towson è un altro: arrivare impreparato, ma dal punto di vista scolastico. Con i libri la scintilla non è mai scoccata e i voti non proprio entusiasmanti rischiano seriamente di precludere la carriera universitaria, e di conseguenza sportiva, di Anthony. Mamma Mary, preoccupata per la carriera di Melo, tenta di convincerlo a cambiare liceo per trasferirsi in una High School più prestigiosa e alla Towson sono ben presto costretti a farsene una ragione: gli ultimi due anni di liceo Anthony li passerà nella Oak Hill Academy, in Virginia. Inutile dilungarsi troppo: ormai consacratosi come una delle migliori ali a livello liceale, dopo due anni caratterizzati da un discreto impegno scolastico ma soprattutto da un dominio assoluto sugli impotenti coetanei, Anthony riesce a superare i test d’ingresso del college (con un punteggio bassissimo, ma comunque sufficiente) e a far parte dei Syracuse Orange.

Tenerissimi, non trovate? (credits to www.3stoogiez.com, via Google)

Come si diceva, meglio andare al college che rischiare di bruciarsi finendo prematuramente in panchina. Eppure, a differenza di quello che si potrebbe pensare spolverando le statistiche della fantastica stagione trascorsa nel nativo Stato di New York, i primi tempi in quel di Syracuse non furono affatto facile per il giovane Anthony. Al di là del presunto leader, per di più alla sua prima esperienza nel circuito NCAA e di conseguenza costretto a fare i conti con ragazzi molto più esperti, la squadra non parte certo con grandi ambizioni: il roster non è particolarmente competitivo e gli Orange non riescono ad ingranare. Oltretutto, la repulsione di Carmelo verso lo studio mette a dura prova la sua permanenza al college. Alla lunga, però, il talento cristallino di Anthony ha la meglio su ogni difficoltà.

Anche se, come lui stesso dirà, l’intenzione originaria era quella di rimanere a Syracuse almeno un paio d’anni, Melo è il tipico one-and-done. Una sorta di diamante grezzo, da raffinare partita dopo partita. Nel panorama collegiale americano non esiste un’ala piccola in grado di competere con lui (a dire il vero ci sarebbe un ragazzo di Akron, ma per lui il college era decisamente un optional): bastano poche partite per convincere gli scout Nba e consacrarsi come l’attaccante puro più promettente dell’intero lotto, mascherando i suoi difetti a suon di punti. Anche coach Jim Boheim riesce ad ovviare alle carenze della squadra, cucendo una veste tattica perfetta per far emergere le doti della sua stella, che lo ripaga nell’unico modo che conosce: segnare un canestro dopo l’altro. Con una media di 22,2 punti e 10 rimbalzi a partita, Anthony trascina i suoi compagni fino alle Final Four della March Madness. I suoi 33 punti (record per un freshman) sono più che sufficienti per rispedire a casa i Texas Longhorns, mentre nella finale contro Kansas si limita a metterne a referto 20. Il premio di Most Outstanding Player è suo, così come il titolo NCAA e il record di primo giocatore della storia a guidare la sua squadra al titolo da freshman.

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L’intenzione di rimanere ancora qualche anno al college svanisce definitivamente. Che senso avrebbe? Non c’è più nulla da dimostrare e se un anno è stato sufficiente per vincere tutto, perché non provare a giocarsi le proprie carte nel basket che conta? Con il college basketball che non ha più nulla da offrirgli, Anthony decide di rendersi eleggibile al Draft del 2003.

Nonostante i fiumi di inchiostro sprecati per una disputa del genere, il premio di miglior Draft di sempre è ancora da assegnare ufficialmente. Al di là delle polemiche, è innegabile che le matricole del 2003 abbiano rivoluzionato gli equilibri della lega. Stelle del calibro di LeBron James, Dwyane Wade, Chris Bosh, Dark… – forse è meglio fermarsi a Bosh – alla loro prima esperienza nell’universo Nba, in una serata che avrebbe riscritto la storia del nostro sport. Se Draymond Green è in grado di ricordare i nomi dei 34 giocatori scelti prima di lui, non dev’essere stato troppo complicato per il nostro Anthony memorizzare quello che ha indirizzato la sua carriera verso il perdente epilogo a cui stiamo assistendo: pare proprio che sia stato Darko Milicic a condannare Anthony ad una carriera priva di trionfi.

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Ne abbiamo già parlato, ma con tutta probabilità i Denver Nuggets erano la squadra peggiore in cui il giovane Anthony potesse capitare. Cleveland aveva eletto il suo re con qualche settimana d’anticipo, mentre le scelte delle franchigie immediatamente successive erano ancora avvolte nell’ombra. I Detroit Pistons, così come i Miami Heat, avrebbero di certo rappresentato un’opzione migliore, ma tutto sommato Melo a Denver avrebbe avuto la possibilità di crescere con più calma. Ha solo 19 anni, per vincere ci sarà tempo.

Sei partite sono più che sufficienti per far capire che ad est ci sarà pure il Prescelto, ma il futuro dominatore dell’ovest è un ragazzo di origini portoricane, che viene da Baltimora ed ha una faretra offensiva che tutta la lega gli invidia. Il debuttante Anthony impiega solo sei partite per mettere a referto trenta punti, secondo solo ad un certo Kobe Bryant in quanto a precocità. Circondato da compagni perlopiù mediocri, l’estro di Melo non può che emergere, lasciando il pubblico senza fiato di fronte ad una costanza offensiva che in pochi possono a buon diritto vantare. A fine stagione saranno 21 i punti fatti registrare ad allacciata di scarpe, che portano in dote tutti i premi di Rookie del Mese della Western Conference. Sarà poi Sua Maestà James ad aggiudicarsi il premio di matricola dell’anno, ma a soli vent’anni Anthony ha dimostrato al mondo intero di poter assoggettare l’Nba per gli anni a venire.

Eppure gli anni passano, ma di vittorie neanche l’ombra. Un’infinita serie di sconfitte al primo turno dei Playoff, intervallate da una Finale di Conference persa contro i Lakers di Kobe e Gasol. È questo il bilancio di sette anni e mezzo trascorsi tra le montagne del Colorado cercando di raggiungere una vetta più alta del previsto. Forse non era il contesto giusto, forse cambiare aria risolverebbe il problema. I New York Knicks non se lo fanno ripetere due volte e grazie ad una mega trade riportano Carmelo sulle rive del natio Hudson. Anthony ha ancora ventisette anni ed è nel pieno del suo prime: che sia la volta buona per riassaporare quella sensazione dai tempi di Syracuse si è data alla macchia?

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E invece eccoci qui a tirare in ballo de Coubertin e Talbot. È evidente che anche a New York qualcosa non sia andato per il verso giusto, ma cosa? Dal 2003-2004 mai una stagione sotto i 20 punti di media. Nove convocazioni all’All-Star Game (dieci tra qualche giorno), un titolo di miglior marcatore stagionale e una lunga lista di record Nba infranti o stabiliti ex novo. Eppure alla voce “Titoli Nba” non c’è stata nessuna novità da 13 anni a questa parte. Di fronte alle cifre fatte registrare ogni anno ci si potrebbe interrogare sul perché di questa lacuna, ma basta dare un’occhiata agli highlights della sua annata a Syracuse per fare un po’ più di chiarezza. È evidente come il più grande successo della carriera di Anthony (ammettiamolo, la cosa più difficile nella vittoria di tre ori olimpici consecutivi con gli Stati Uniti è stata rinunciare a parte dell’estate) sia stato quasi esclusivamente merito del solo Melo. Per un giocatore del suo calibro i 2,2 assist distribuiti a partita sono una cifra irrisoria, sintomo di un giocatore che mette volutamente in secondo piano le sue pur notevoli doti di passatore per cercare di arrivare il successo mettendosi in proprio. Scarsa etica del lavoro, assenza di leadership, totale disinteresse per la fase difensiva, oltre all’egoismo a cui si faceva riferimento. Sono questi i principali capi d’accusa ad un fenomeno che, per sfortuna e per carattere, non è mai riuscito a fare la differenza, e non certo per mancanza di mezzi tecnici o fisici. Se il basket fosse uno sport individuale ci troveremmo di fronte ad uno dei più grandi interpreti del gioco di ogni epoca, ma per fortuna non è così.

Il ritorno in patria, almeno per il momento, è stato molto diverso dal coming home di lebroniana memoria e l’arrivo di Phil Jackson a dirigere le operazioni ha solo parzialmente risollevato una franchigia che ormai da qualche anno veleggia ai margini della lega. Non solo: se fine a qualche mese fa non c’erano dubbi su chi fosse la stella della squadra, l’arrivo di Kristaps Porzingis ha rimesso in discussione anche quest’aspetto.

Tanti anni di sconfitte e delusioni sembrano aver temprato quella voglia di vincere che animava il primo Carmelo. Quelle Finali di Conference perse contro i Lakers di Kobe rappresentano il punto più alto di una carriera dalla quale era lecito attendersi molto di più. Ad essere onesti però, al di là dei tanti difetti di Anthony, l’essersi ritrovato a giocare in squadre molto lontane dal concetto di “contender” non ha certo aiutato. Se il Melo ammirato a Denver sperava di poter ripetere i fasti di Syracuse, quello newyorkese ha ormai perso quasi ogni speranza, nonostante le smentite di rito. Dopo tanti anni nella lega il suo stile di gioco non è cambiato (esistono solo lui e il canestro, gli altri sono poco più che dei figuranti), ma l’Anthony di oggi sembra continuare a mettere a segno un tiro dopo l’altro per abitudine, niente di più. Più che ossessionato dalla vittoria, Carmelo Anthony appare rassegnato all’inesorabile sconfitta. Chi crederebbe ai Knicks campioni Nba a giugno? Nessuno, e lo stesso vale per la prossima stagione. Sia chiaro, c’è ancora qualche anno di tempo per poter cambiare un destino che allo stato attuale appare segnato, ma se in fin dei conti de Coubertin, Talbot e perfino Michael Caine avessero ragione? Se la cosa essenziale fosse battersi al meglio e non vincere? Forse è ancora presto, ma tra qualche anno Carmelo Anthony potrà fare un più sereno bilancio della propria carriera. Magari non avrà vinto nulla o quasi, ma che abbia partecipato, e bene, non c’è ombra di dubbio. Comunque vada, he did it his way.

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Pubblicato da
Federico Ameli

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