15 aprile. E’ questa la data cerchiata in rosso sul calendario di tutti coloro che sono coinvolti in maniera diretta o no con il mondo NBA. I tifosi iniziano a fremere e sognano grandi risultati per la propria squadra del cuore, a seconda di ciò che la stagione regolare ancora in corso gli sta ponendo come obbiettivi possibili. Staff tecnici e giocatori iniziano a tirare un po’ i remi in barca, chi per gestirsi in vista di una proficua e impegnativa sessione di playoff e chi per iniziare a pensare alla prossima stagione. Nel mezzo ci sono ancora coloro che si affannano per prolungare i loro impegni sportivi oltre la metà di aprile.
Gli ultimi 40 giorni di regular season sono quindi vissuti in maniera molto diverse a seconda di ciò che si è ottenuto da ottobre ad oggi e, a mio parere, sono un periodo molto affascinante, in cui le opposte motivazioni possono produrre conseguenze importanti anche in ottica del mercato free agent e del draft, uno dei più talentuosi degli ultimi anni. Tentiamo allora di fare chiarezza su roster, aspettative presenti e future ed eventuali speranze di un glorioso cammino fino a giugno. Per eleganza partiremo dal fondo per risalire fino alla cima del monte Olimpo della Eastern Conference in cui attendono le divinità in maglia Cavs.
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See you next year
Partiamo dal fondo del baratro dunque, dove troviamo i Brooklyn Nets che, perlomeno, stanno cercando di togliersi la voglia di scavare ancora più a fondo e, molto molto timidamente, iniziano a guardarsi intorno per cercare di ripartire. Detto che probabilmente anche dall’opening night della prossima stagione inizieranno a guardare a quella successiva, cedendo Bogdanovic ai Wizards sono riusciti ad ottenere una benedetta prima scelta che, fatta fruttare in maniera intelligente, potrebbe consentire di iniziare a gettare le basi per fare tornare nel quartiere più in di New York una vera squadra di basket. Se contiamo che sono riusciti a raggiungere anche le 11 W, risultato tutt’altro che scontato, possiamo dire che poteva andare peggio.
Di questa categoria di squadre che stanno già guardando al prossimo anno fanno parte altre tre franchigie ma tutte con prospettive molto diverse. A New York, cestisticamente parlando, non se la passano bene nemmeno i Knicks, sempre più confusionari e in ostaggio del mega contratto di Melo e della sua clausola per opporsi al trasferimento, anche se con un record decisamente più dignitoso (26-39 nel momento in cui scrivo) e con una perla come Porzingis su cui tentare di costruire qualcosa. Quello che va cambiato però è l’atteggiamento della franchigia. Come volevasi dimostrare Noah è ad anni luce dal suo rendimento negli anni d’oro a Chicago, D-Rose non è e non sarà mai più quello di prima (ed il balletto della trade poi non andata in porto con Minnesota non può certo aiutare il giocatore) e Melo, per quanto ormai da separato in casa, rimane l’uomo più produttivo a cui affidare la palla nei momenti decisivi. Presumendo che Rose non rinnoverà ci sarà un minimo di spazio salariale per inventare qualcosa in estate, con molta fantasia.
Spostandoci in Florida troviamo i Magic che, a prima vista, sembrano decisamente in confusione. Hanno sacrificato in estate Oladipo, non un All Star ma un giocatore importante, e Sabonis (appena scelto con la #11) per arrivare a Ibaka, puntualmente spedito dopo soli sei mesi in Canada per dare speranze di competitività ad altissimi livelli ai Raptors in cambio di un buon rinforzo sugli esterni (Ross) e una prima scelta al prossimo draft. Posto che Ibaka probabilmente sarebbe diventato free agent al termine della stagione quella dei Raptors sarà una chiamata da seconda metà del primo giro quindi, salvo clamorosa steal, non in grado di far svoltare immediatamente l’organizzazione in blu. Diverso è il discorso per la propria prima scelta che detiene ancora la franchigia e che con un sano tanking (attualmente 24-41) e una discreta dose di fortuna potrebbe fruttare una chiamata nelle zone alte del draft. Un Aaron Gordon che sembra aver arrestato la sua crescita non aiuta a pensare positivo mentre Payton e Byombo sono le buone notizie stagionali. Giudizio in sostanza sospeso in attesa dell’estate.
Menzione d’onore invece per i Philadelphia 76ers che sono ufficialmente una squadra in crescita nonostante il 23-40 sembra dire altro. Circa un mese fa Philadelphia poteva addirittura cullare piccole ambizioni di ottavo posto, prima che i nuovi problemi di Embiid le stroncassero sul nascere. Le notizie dolci però sono numerose: 23 vittorie in stagione (and counting), un McConnell che ha dimostrato di poterci stare, un Dario Saric meraviglioso ed in odore di Rookie of The Year e un Processo che si è finalmente messo in moto. Il capolavoro di Sam Hinkie (sempre sia lodato, caduto per un ideale più grande) inizierà però a compiersi in estate quando, oltre alla propria scelta, a Phila potrebbero andare anche la prima scelta dei Lakers (protetta 1-3), quella di Dallas e il diritto di scambiare la propria con quella di Sacramento, oltre alle innumerevoli seconde scelte. Il potenziale di Embiid, una grande chiamata al draft ed infinito spazio salariale potrebbero anche attirare grandi nomi nella prossima o in quella successiva ondata di free agent. Nella città dell’amore fraterno si sogna in grande.
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Terra di mezzo
Superate le 4 franchigie più perdenti dell’Est ci si addentra in una vera e propria terra di mezzo che parte dall’11° posizione occupata attualmente dagli Hornets e si estende, ad essere molto larghi, fino alla 6° posizione occupata dai Pacers. Le sei franchigie che si presentano in questo spazio di classifica presentano differenze, anche notevoli, sotto diversi punti di vista: da aspettative ribaltate rispetto ad inizio stagione nel bene o nel male a roster più o meno in bilico, da legittime speranze playoff agli ultimi disperati tentativi ad agguantarli in extremis. Cerchiamo di analizzarle brevemente.
I calabroni di Charlotte non possono essere per niente soddisfatti della loro stagione. Reduci dal sesto posto dello scorso anno e da un’eliminazione al primo turno solo dopo 7 lunghe battaglie con Miami (in cui era presente ancora un certo Dwyane Wade) questo era l’anno in cui, con la conferma sostanziale di un roster che aveva fatto così bene, la franchigia doveva iniziare a porre le basi per diventare una presenza fissa ai playoff. Nonostante l’aggiunta di Belinelli per aumentare la solidità della franchigia e la conferma a ottimi livelli del leader tecnico della squadra Kemba Walker il record recita 28-36. Le speranze di agguantare l’ottava casella si stanno esaurendo rapidamente e non si vedono all’orizzonte grandi rivoluzioni grazie al draft o ad un mercato che difficilmente attirerà grossi nomi. Forse si poteva fare un pensierino in più per Cousins…
Risalendo di un gradino troviamo i cervi di Milwaukee che sono all’ennesimo anno di transizione in cui c’è un riconosciuto giovane potenziale da alti livelli che, per un motivo o per l’altro, non riesce a compiere lo step decisivo per far diventare una squadra talentuosa una squadra vincente. Ma se l’anno scorso la causa principale era lo stato ancora acerbo di determinati elementi quest’anno tanto (in negativo) hanno fatto gli infortuni. Quello iniziale di Middleton ha tolto un giocatore fondamentale per la produzione dal perimetro e la difesa sugli esterni avversari ed il suo rientro ha coinciso grossomodo con il nuovo, brutto stop per Jabari Parker, durante la sua migliore stagione in carriera sotto l’aspetto dell’impatto sulla partita e sulla squadra, oltre ai meri numeri (20 + 6 rimbalzi). Coach Kidd non sembra in discussione anche per il grandissimo lavoro fatto su quel giocatore greco che fa tanto impazzire gli appassionati. L’ormai All Star Antetokounmpo sta dimostrando tutto quello che serve per essere un giocatore franchigia e, personalmente, spero in una presenza ai playoff per testarne la solidità mentale ad un livello superiore (30-33 record attuale).
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A South Beach si respira entusiasmo per un gruppo che ha svoltato dopo un inizio disastroso e sembra lanciatissima per rubare l’ennesima presenza nei mesi che contano, nonostante l’addio di Wade, nonostante il forfait (definitivo?) di Bosh, nonostante tutto. I tifosi di Miami devono dire grazie al coach Spolestra, uno in grado di cavare sangue dalle rape e trasformare un gruppo di buoni mestieranti con qualche elemento superiore alla media in una squadra vera e in grado di battere per ben due volte Cleveland (vera bestia nera, soprattutto in Florida) e di essere una vera e propria mina vagante. Assecondando la svolta anche in società stanno cercando di crederci fino in fondo, rumors danno contatti in corso tra Riley e Sullinger per rinforzare il reparto lunghi ora completamente nelle mani di Whiteside. Un Goran Dragic vicino ai livelli di Phoenix e un ottimo apporto di elementi come Waiters e Tyler Johnson stanno facendo il resto. Se dovessi scommettere un dollaro su chi, tra quelli attualmente fuori dalla griglia, riuscirà a risalire in posizione utile me lo giocherei su di loro.
Detroit, Chicago e Indiana meritano una menzione comune. Tutte e tre sembrano insoddisfatte di quanto fatto fino ad ora, tutte e tre hanno sondato con insistenza il mercato cercando eventuali compratori per le proprie stelle, tutte e tre sono rimaste con lo stesso mix di giocatori. Nessuna vera offerta ha fatto si che il gruppo a disposizione di Stan Van Gundy rimanesse inalterato ma estremamente irritato dalla decisione dell’allenatore di essere aperto allo smantellamento della squadra in caso di offerta eccezionale. Il clima in casa Pistons non è quindi dei più distesi, esattamente come quello della franchigia della Windy City. Gli spifferi che escono dallo spogliatoio dei Bulls dicono di un Jimmy Butler sempre più voglioso di cambiare aria per riuscire a compiere la metamorfosi definitiva in vera Superstar. Come da pronostico il mostro a tre teste non ha funzionato e Rondo vive da separato in casa (ovviamente come leader degli assist). I Pacers, dal canto loro, sono stati veramente tentati di salutare Paul George e lo scambio con Denver sembra essere saltato solo per la manifesta volontà della stella di non rinnovare il contratto in scadenza nel 2018 tranne che con la sua franchigia attuale o con quella della sua terra natia (i Lakers). Più che al presente tutte e tre stanno guardando al futuro e nessuna sembra davvero interessata a prolungare di molto la stagione oltre i primi di aprile.
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Rivoluzionari
Atlanta, Toronto, Washington e Boston fanno sul serio e, quantomeno, sembrano in grado di poter infastidire la corazzata Cleveland. Continuiamo a scalare la classifica tenendo conto che l’attuale posizione potrebbe non rispecchiare le aspettative in ottica playoffs.
Atlanta è la franchigia che punta maggiormente sul collettivo e sul gioco corale ma sembra, francamente, un gradino sotto le altre tre cospiratrici. Howard non è Horford e per quanto l’aria di casa gli abbia fatto bene tanto da fargli disputare una stagione discreta è l’elemento che stona all’interno della franchigia della città della Coca-Cola. La cessione di Korver proprio a Cleveland è sembrata quasi una resa incondizionata ai più forti. Nonostante tutto questo è una squadra rognosa da affrontare in una serie al meglio delle sette: le serate in cui Millsap è in stato di grazia, Schroder si ricorda che anche in America può avere un impatto sulla partita e i comprimari svolgono appieno il loro compito (Bazemore su tutti) Atlanta diventa una squadra difficile da battere perché altamente versatile. Ammesso e non concesso che gli Hawks chiuderanno al quinto posto, la quarta piazza sarà quella che le altre tre vorranno evitare a tutti i costi per non trovarsi accoppiati con i ragazzi di Budenholzer al primo turno.
Le altre tre si trovano ad un livello simile nella situazione attuale ma con incognite differenti tra di loro. Toronto, ormai uscita pienamente dalla crisi di metà stagione si è ritrovata dopo il mercato con una soluzione in meno sugli esterni (Ross) ma un giocatore (Ibaka) in grado di far salire il livello soprattutto della second-unit grazie al suo inserimento pressoché immediato in quintetto con conseguente spostamento di Patterson in panchina. Oltre alle qualità ormai conosciute del lungo di passaggio ad Orlando, coach Casey può così avere in campo il suo scudiero nei momenti delicati, soprattutto in vista di un accoppiamento con Cleveland che, con LeBron a capeggiare i panchinari, solitamente scava parziali decisivi nell’economia dell’incontro. La grande incognita sono le condizioni di Lowry al rientro dal suo infortunio al polso, il giocatore chiave dei Raptors insieme a DeRozan. Per dare l’assalto al trono serve una squadra al 110% in tutte le sue componenti.
“We The North” (credits to thestar.com via Google)
Washington vive in uno stato emotivo di assoluto entusiasmo, grazie al fatto di essere risaliti fino alle posizioni nobili dopo un avvio disastroso. I meriti del tanto vituperato coach Brooks sono sotto gli occhi di tutti: ha fatto tornare Wall a livelli da Superstar della Lega, lo ha convinto a parlare la stessa lingua di Beal nonostante i due non siano per niente amici fuori dal campo (solitamente se le due stelle della squadra non sono in sintonia le cose non vanno benissimo) e ha convinto la dirigenza a puntare forte sul gruppo, giocandosi la propria prima scelta per ottenere Bogdanovic e dare profondità ad un roster che ne aveva tremendamente bisogno. L’impatto dell’ex-Nets è stato al livello delle aspettative e potrà essere un fattore fondamentale in una serie di playoff data la sua grande capacità di mettere a referto tanti punti nel poco tempo a disposizione. Mossa azzeccata, squadra in fiducia, attuale terzo posto: franchigia in missione senza un vero obbiettivo da raggiungere. La leggerezza mentale potrebbe essere decisiva per andare oltre le più rosee aspettative, anche se partono, a mio parere, leggermente dietro le altre due.
Arriviamo infine a Boston, franchigia in cui si sta arrivando al tanto atteso punto di svolta della ricostruzione firmata Danny Ainge. Paradossalmente un team al secondo posto della Conference in questi giorni di quiete prima della tempesta sta pensando un po’ troppo al futuro e troppo poco al presente. Molti degli addetti ai lavori sembrano più concentrati su come verranno spese le numerose scelte accumulate per i prossimi anni che su un gruppo che sta facendo faville agli ordini di coach Stevens. La dirigenza stessa non ha ancora ben capito cosa farne ma, sicuramente, ha pensato che il gruppo attuale più una stella (George, Butler, Cousins, Melo) non sarebbe bastato per insidiare Cleveland prima e la vincente dell’Ovest poi. In sostanza ha dato un messaggio che, se interpretato nella maniera peggiore, potrebbe distruggere quanto è stato creato fino ad ora. Tutto da verificare poi se il solo piccolo immenso Isaiah Thomas basterà per raggiungere quello che ormai sembra l’obbiettivo stagionale, ovvero le Conference Finals. La voglia di grande basket del popolo in verde darà sicuramente una grande mano (vedasi la partita con Cleveland di pochi giorni fa per averne un riscontro) ma contro una Toronto molto più abituata negli ultimi anni a sfide del genere potrebbe non essere sufficiente. Si stanno avvicinando i mesi decisivi per Boston, sprecare tutto ciò che hanno costruito fino ad ora sarebbe un peccato imperdonabile.
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Monarchia assoluta
Dall’alto del monte Olimpo Cleveland osserva incuriosita l’affannarsi delle aspiranti contendenti per assicurarsi degli accoppiamenti favorevoli e presentarsi così al cospetto dei detentori del titolo con qualche credenziale in più. Nel frattempo, stimolato a modo suo dal Re, il gm David Griffin ha compiuto un piccolo capolavoro dando una profondità sulla carta imbattibile ad un roster che aveva bisogno come il pane di una panchina affidabile. Korver per aggiungere l’ennesimo tiratore letale sugli scarichi di LeBron e Irving (in parte migliorato sotto questo aspetto), Deron Williams ovvero il “fucking playmaker” necessario, Derrick Williams utile ad allungare le rotazioni vista la lunga degenza di Love e lo sfortunatissimo Andrew Bogut che, teoricamente, doveva servire a dare il cambio all’inesauribile Tristan Thompson.
Immaginarsi Cleveland eliminata da una concorrente dell’Est sembra una fantasia irrazionale e, probabilmente, rimarrà tale. Che le altre franchigie si siano rafforzate o meno non può e non deve interessare un gruppo che ha tutto per ripetere la straordinaria impresa compiuta l’anno scorso e battere nuovamente la vincitrice della contesa occidentale. La superiorità interna sotto le voci talento, organizzazione, esperienza, profondità del roster è evidente. Però non sarà facile e non è una banalità o una frase di circostanza. Il livello medio delle prime 4 squadre oltre a Cleveland si è alzato e tutte le squadre che potranno verosimilmente incontrare dal secondo turno in poi rappresenteranno un bel grattacapo per coach Lue e i suoi. Hanno perso almeno una volta in stagione contro ognuna di esse e, nonostante si tratti solo di regular season, questo dato deve essere preso in considerazione da tutta l’organizzazione dell’Ohio per non allungare troppo le serie sprecando così energie preziose in vista del rush finale. Il rientro ai massimi livelli di J.R. Smith e Kevin Love sembra fondamentale in tal senso.
La stagione 2016-2017 della Eastern Conference sembra avviarsi ad una conclusione prevedibile visti i valori ai blocchi di partenza. La concorrenza, almeno per quanto riguarda il ruolo di anti-Cleveland, si è ravvivata e appare pronta ad un ulteriore balzo in avanti nella prossima stagione consegnandoci finalmente un degno rivale. Il movimento NBA, però, non può permettersi una sosta e prosegue la sua corsa verso un altro finale di stagione che si preannuncia memorabile.
Se siete alla ricerca di rivoluzioni e cadute clamorose vi conviene rivolgere lo sguardo in un’altra direzione. Per il momento, niente di nuovo sul fronte orientale.
Alberto Mapelli