Chi sarà l’MVP?

Karl-Anthony Towns ha appena battuto Washington, seppellendo Wall e soci con 39 punti e 13 rimbalzi. Il prodotto di Kentucky si è da poco steso sul letto, soddisfattissimo: le cose girano per il meglio e le trasferte di Miami, Boston e New Orleans diranno ai giovani Timberwolves se sognare i Playoffs è proibitivo o meno. Starsene dietro l’arco a sparare da tre servito da Rubio – riflette KAT – non è poi così male. Towns si assopisce pensando al futuro: portare l’anello a Minneapolis, riconoscimenti individuali, vittorie epiche contro i campioni di domani. Interrompe il suo fantasticare un cinguettio del telefono: è una notifica di Twitter. Lo show di Kevin Garnett, Area21, lo ha taggato: lui guarda il video, apprezza e si riappisola. E siccome la mente fa brutti scherzi – lezione 0 su Sigmund Freud – Towns sogna l’attuale corsa al premio di MVP. Associazione di idee, chissà, con KG.

Quello fantasticato da Towns è un mondo strano. Attorno ad un tavolo, sospeso sopra le nuvole, a metà tra la pubblicità Lavazza e la Stanza dello Spirito e del Tempo, LeBron James, Kawhi Leonard, James Harden, Russell Westbrook e Isaiah Thomas stanno discutendo dell’assegnazione del premio di miglior giocatore (MVP) più combattuto degli ultimi anni. Tutti e cinque indossano una sorta di saio, che se avesse loghi, colori e rifiniture Adidas sarebbe all’ultima moda. Il più agitato di tutti è, ovviamente, Russell Westbrook. E’ il meno adatto al contesto: non appena qualcuno prova a controbattere una sua tesi, si riscalda, alza la voce e parla sovrastando gli altri. Il più fiaccato di questo comportamento è Harden, che con la mano destra sorregge il testone. Moderatore figurale dell’incontro è LeBron, mentre Isaiah parla dell’amicone Floyd Mayweather a Kawhi, finto interessato e oltremodo silenzioso. Ma il lapalissiano mutismo di Leonard ha già stancato i presenti, su tutti LeBron, che sbatte il pugno contro il tavolo come una professoressa ignorata e prende parola.

“E’ un gran casino, insomma. Se nemmeno nell’Olimpo della pallacanestro c’è concordia, come possiamo pretendere ve ne sia altrove? Diamo l’esempio, per favore”. Un attimo di silenzio precede l’arrivo di John Wall, Anthony Davis e Paul George. I tre chiedono di poter partecipare alla discussione, LeBron – capotavola – guarda due fogli davanti a sé e risponde picche. Si fa quindi avanti, ammantato di un’aurea gialla e blu, uno con la faccia da bambino. Come veggion le terrene menti non capere in triangol due ottusi, i cinque riconoscono subito Steph Curry: sta consegnando la statuetta, l’unica unanime. Senza fiatare, volta le spalle – con un po’ di spocchia – alla compagnia. Pochi metri più indietro compaiono Klay e Draymond, che lo accompagnano fuori dalla scena.

LeBron riprende il discorso: “Come ben sapete, signori, siamo qui riuniti per discutere del premio di MVP”. “THAT’S NONE OF YOUR BUSINESS!” tuona Westbrook, puntando il dito contro LBJ. Ribatte “Per 82 partite cazzeggi, nei primi tre turni di Playoffs batti due squadrette – stavolta il dito è puntato contro la piccola figura di Isaiah Thomas – e alle Finals ok, giochi bene. Tutti ti ammantano come il Miglior Giocatore Mai Visto per sette partite fatte bene. Io guido una banda di scappati di casa ad OKC, 365 giorni l’anno. Chiami te stesso Il Re, ma amministri il regno solo le prime settimane di Giugno”. Westbrook ha gli occhi fuori dalle orbite e le vene della testa particolarmente pronunciate. Quando sente Harden ridere sotto i baffi con Thomas per la rinunciataria difesa del playmaker dei Thunder, si gira verso il barbuto rivale così:

You said what!?

RW0 prosegue con un’analisi sorprendentemente lucida per la frustrazione che dimostra: “Isaiah, ogni squadra che viene al Garden ti coinvolge in cinquanta giochi a due perché sia una defensive liability se ce n’è una in sta Lega. James, poi, proprio tu? Ricordi quando ad OKC ti hanno relegato a sesto uomo perché sugli scouting report degli avversari al posto del tuo nome c’era Telepass?”

Stavolta LeBron ride di gusto. “Sei quello col PER più basso dei cinque seduti al tavolo, fossi in te non riderei così tanto” attacca ancora Russell, che evidentemente non ricorda il passato e non ha scheletri nell’armadio. Il Re è scocciato dal comportamento di Russ, sa bene che il play di OKC non vincerà il tanto ambito premio. Lo sanno tutti a quel tavolo. Westbrook è l’unico che non lo vuole ammettere a sé stesso.

LeBron si alza e se ne va, dopo un laconico: “It’s all about this”. Il posto a capotavola rimane vuoto.

Isaiah, i cui piedi a fatica toccano per terra, si guarda spaesato attorno: “Ragazzi, ora che si fa?”

I restanti sono un po’ perplessi. “Scambiare una delle centomila scelte che avete per portare Blake o Carmelo al Garden? Brutto? Un po’ di competizione per quel gasato là, brutto?” incalza sibillino Westbrook, indicando con la mano la direzione in cui è scomparso LeBron. “Ci stiamo provando, ma…” si giustifica il King in the Fourth. “Ma cosa? Ogni anno sempre la stessa storia. La verità è che quest’anno arriverà alle Finals per la settima volta di fi…”

“E tu no!” lo interrompe Harden, che ha appena finito di giocare con una matita sul tavolo. Kawhi abbozza un sorriso. Westbrook è interdetto. “Adesso tocca a me” dice Harden che improvvisa per qualche secondo la signature move.

“Se non sbaglio, amico mio, il tuo USG è piuttosto altino, sei settimo nella Conference e hai una decina di vittorie in meno rispetto ai miei Rockets. E non dirmi che Ryan Anderson, Eric Gordon e Lou Williams sono una compagnia così migliore di Steven Adams, Victor Oladipo e Enes Kanter“. Il dibattito è improvvisamente catturato da una fragorosa risata di IT. Prima che Westbrook possa esplodere, il #4 si giustifica: “Scusate, ho immaginato quanta peluria facciale sarebbe in campo se Kanter, Adams e tu James scendeste in campo assieme”. [KAT si rigira nel letto: nemmeno il suo subconscio pensava che le stelle NBA potessero fare battute così brutte]

Sorriso di Leonard, sorrisone di Harden, risentimento di Westbrook. “Visto che stiamo parlando di altro, siamo d’accordo? MVP a me per tutte quelle triple doppie eccetera eccetera? Benissimo, possiamo and…”

“Scusate, posso dire qualcosa anch’io?”

“Non vorrei sembrare inopportuno – esordisce Kawhi – ma pochi giorni fa sono venuti i tuoi Rockets, James, da noi a San Antonio, e come dire… abbiamo vinto. Mi hanno fatto molto piacere i tuoi complimenti per la stoppata nel finale. Come squadra siamo lì, coi Warriors. Posso dirvi che in difesa mi temono così tanto che mi mandano sulla Kawhi Island pur di non coinvolgermi. Un tuo omonimo, Isaiah, mi ha incensato di recente. Ogni volta che una partita si fa dura, Pop mi mette sul miglior giocatore avversario: siccome è una cosa che avete provato sulla vostra pelle, sapete bene come va a finire il più delle volte, no?”

Nessuna delle tre guardie ha il coraggio di ribattere. Anche Westbrook è scosso: brutta bestia, gli incubi.

“Ricordo – dice Isaiah dopo qualche attimo – delle semifinali di Conference dell’anno scorso. Coi miei Celtics eravamo già eliminati, così ho guardato Gara-1 di OKC-Spurs. E tu, Russ – puntando il dito al play dei Thunder – sei stato terribile. Kawhi ti mangiò in testa“.

“Chi passò alla fine?” replica piccato Westbrook.

“Voi, ma solo perché Donovan went big con Kanter e Adams” continua Isaiah. Il prodotto di Washington si scusa col resto della compagnia e agitatissimo farfuglia mentre si alza e se ne va: “I migliori tre della stagione regolare, comunque, siete voi. Continuate pureBoston love. See ya bros“. La verità è che ne ha piene le palle di queste discussioni: gli importa altro.

Harden prende la parola, dopo che i tre hanno salutato il folletto di Tacoma. “Io devo andare a dormire. Ci vuole tanto ancora?”

“Senti brutto Snorlax con barba – torna nuovamente alla carica Westbrook – mi hai rotto. Siamo in tre. Tutti votano per sé stessi. Non ne verremo mai a capo…”

“Veramente io voterei Kawhi”.

Momento di silenzio. Il Barba ha appena rotto la parità. Westbrook lo incenerisce con lo sguardo, ma Harden ancora una volta non presta attenzione a ciò che gli sta attorno.

Harden giustifica la propria scelta: “Ma sì dai Russ, non vedi? Kawhi ha un record stratosferico, è un ingranaggio fondamentale nel motore di una fuoriserie e difende fortissimo. Io e te ci prendiamo pause ridicole nella nostra metà campo. E’ vero che dobbiamo portare sulle nostre spalle un attacco intero, mentre Kawhi ha Parker, Manu, Pau eccetera, però non so… Contesta ogni tiro, nega ricezioni con braccia infinite, taglia fuori il più grosso dei lunghi. Lo darei a lui, ecco. Tutto qua”. Westbrook è mortificato, allora il Barba tenta di consolarlo: “Davvero, Russ, non fraintendermi. Sei un grandissimo. Nothin’ but love fo’ya, bro. Triple doppie, energia, passione, attaccamento alla maglia, sudore, maschere: non ti sei mai tirato indietro davanti a niente. Ma se dovessi scegliere un giocatore con cui cominciare una franchigia, andrei con Kawhi. Se dovessi scegliere un compagno di squadra, Kawhi”.

Westbrook ha perso. Di nuovo. Harden e Kawhi si alzano dal tavolo: quest’ultimo con argenteria in mano. L’ex UCLA, invece, è seduto al tavolo e non riesce a capacitarsi di tanta discrepanza tra ciò che vede lui e ciò che vedono gli altri. “Sarà per questo che non vinco?” si chiede.

Karl-Anthony Towns si sveglia. Che sogno strano. Scende a far colazione ancora intorpidito, nell’ascensore trova Wiggins e gli chiede un’opinione sulla corsa all’MVP. “Is Steph winning this year, too?” chiede asettico mentre si infila nelle orecchie il nuovo album di Drake.

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Pubblicato da
Michele Pelacci

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