Coach Of The Year: Erik Spoelstra

Partiamo da lontano, da questa estate. Prendete i Miami Heat 2015/16: terzo posto dietro solo ai Cavs futuri vincitori e ai Raptors del duo Lowry-DeRozan, e semifinale di Conference persa 4-3 proprio contro i canadesi. Ci siete? Ora a quella squadra aggiungete Chris Bosh, che aveva saltato tutta la seconda metà di stagione per il ben noto problema di coaguli di sangue ma che, stando alle parole del soggetto in questione e di tutti gli addetti ai lavori, sarebbe dovuto rientrare in tempo per la prima palla a due del nuovo anno (in precedenza si era parlato anche di un suo possibile rientro ai Playoff contro la sua ex squadra). Ora quindi, se la memoria non ci inganna, a metà estate lo starting five dei Miami Heat doveva essere composto da: Dragic-Wade-Winslow-Bosh-Whiteside, con Joe Johnson, Luol Deng e Gerald Green a uscire dalla panchina. Indiscutibilmente una squadra che, se non poteva aspirare a contendere il titolo agli allora campioni in carica della Baia(che proprio in quei giorni peraltro firmavano a libro paga tale Kevin Durant), sicuramente poteva almeno sperare di affermarsi nuovamente nelle posizioni nobili della Eastern Conference.

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Bene, ora però togliete a quel roster il suo capitano e go-to-guy partito dalle spiagge di South Beach per raggiungere la Windy City dove era nato poco più di 34 anni prima. Togliete Deng che con un mega contrattone si accasa ai Lakers, Johnson che vola a Salt Lake City, Green finito ai Boston Celtics. Poi togliete anche Chris Bosh che, ben lungi dal rientrare, sembra chiudere definitivamente la sua carriera in NBA. Cosa vi resta adesso? Un gruppo di promettenti giovanotti, direte voi, con Winslow, in particolare, pronto ad affermarsi come uno dei migliori difensori della Lega. Bene allora dopo una ventina di partite togliete anche lui: lacerazione del labbro glenoideo della spalla destra, operazione chirurgica, out for the season.

Cosa vi resta ora? Niente, ecco cosa. Un enorme ammasso di macerie, con Dragic e Whiteside predicatori nel deserto. Ora, a quello che vi è rimasto aggiungeteci Dion Waiters, firmato con quattro spicci, Rodney McGruder, Wayne Ellington, James Johnson e Willie Reed.
Tanking City here we come, penserete legittimamente. E anche a ragione, almeno all’inizio: il 13 gennaio infatti, dopo 41 partite, gli Heat hanno un record di 11-30, lo 0.80% di possibilità di andare ai Playoff, uno dei peggiori Net Rating della intera NBA(-4.2), e quel che resta della stagione per gareggiare con gli altrettanto disastrati Nets a chi perde di più.

Poi succede qualcosa. E’ il 17 gennaio quando la banda di Erik Spoelstra batte un colpo, andando a vincere contro dei lanciatissimi Rockets, terza forza nella Western, guidati da un irreale James Harden in formato MVP (chiuderà quella partita con 40 punti, 12 rimbalzi e 10 assist). Da quel giorno i Miami Heat hanno accumulato un record di 24-8, il terzo migliore Net Rating della Lega sotto solo a Golden State e San Antonio (+7.2) con un efficienza offensiva di 110.3 e difensiva 103.1 punti. Attualmente sono a due partite e mezzo dal quinto posto occupato dagli Hawks. E no, nel corso dell’anno non hanno firmato il nuovo fenomeno del basket mondiale, sono rimasti sempre gli stessi, con Babbitt e McGruder nel quintetto titolare. E allora, a parità di interpreti, se si vuole ricercare la causa prima di questa straordinaria cavalcata non si può che guardare a bordo campo e fissare lo sguardo su quel giovanotto di 46 anni di origini filippine che sta guidando questa sgangherata combriccola ad un’impresa eccezionale. Ecco perché, a poche settimane dall’annuncio dei premi individuali, Eric Spoelstra è uno dei candidati più forti per il riconoscimento di Coach Of the Year. Premio che merita principalmente per due ordini di motivazioni: prima di tutto per il lavoro psicologico e motivazionale che è riuscito a compiere su giocatori mediocri e mai affermatisi nella lega, e secondo – ma non per importanza – per quello più prettamente tecnico e tattico attuato sia in fase offensiva che difensiva.

Partiamo dalla prima serie di ragioni allora, quella evidentemente manifesta anche ai freddi cultori delle statistiche. Osservando le basic stats del roster degli Heat, la prima cosa che salta agli occhi e l’incredibile opera di coinvolgimento collettivo che Spoelstra è riuscito a porre in essere: escludendo Derrick Williams (ora accasatosi ai Cavs) si nota subito come vi siano ben 13 giocatori attivamente e stabilmente inseriti in rotazione con almeno 14 minuti di utilizzo a partita, con il solo Haslem al di sotto di questa soglia. Di questi ben 7 (8 se consideriamo anche Richardson) hanno a referto almeno 10 punti di media, con 9 atleti in procinto di stabilire il loro carreer high di punti realizzati, mentre sono in 10 a poter vantare almeno una partenza nella starting lineup, con Erik Spoelstra che dall’inizio dell’anno ha usato ben 70 quintetti titolari diversi, il più frequente dei quali schierato solo per due partite. Altro dato interessante è quello relativo all’età del roster, con un solo giocatore – proprio Haslem, il meno utilizzato – sopra i 30 anni. Ma l’elemento più rilevante lo si riscontra proprio leggendo i nomi degli interpreti e soffermandosi un momento sulle rispettive storie all’interno della lega; tra questi abbiamo infatti 4 giocatori finiti undrafted nei rispettivi anni di esordio (Tyler Johnson, McGruder, White, Reed), 6 giocatori che hanno militato per periodi più o meno lunghi in D-League (Richardson, James Johnson, McRoberts, Babbitt, Whiteside, Reed), e un paio di “vagabondi” mai realmente affermatisi (Wayne Ellington e Dion Waiters). Chiamasi, almeno sulla carta, “accozzaglia”.

Se a questo punto “integriamo” i dati raccolti, ciò che otteniamo è la manifesta testimonianza di come Erik Spoelstra all’inizio della stagione abbia preso uno sgangherato coacervo di atleti colmo di mediocrità (non necessariamente intesa in senso negativo), inesperienza, frustrazione e voglia di rivalsa e sia riuscita a trasformarlo in un gruppo integrato e coeso all’interno del quale tutti – letteralmente tutti – sono utili e funzionali. Sì, anche Luke Battitt, che ridendo e scherzando tira da fuori con il 41%.

Volete l’emblema lampante di questa straordinario lavoro? Prendete James Johnson. Il nativo di Cheyenne arriva in sordina verso la metà di luglio dopo un paio di stagioni deludenti a Toronto. Neanche disfatte le valigie che lo staff degli Heat gli scatta una foto per attestarne lo stato di forma (all’epoca a dir poco rivedibile), ma lui perde 17 kg in pochi mesi e si afferma come uno dei giocatori più importanti del roster di Erik Spoelstra. È uno dei migliori della Lega in uscita dalla panchina, e grazie alle sue doti di all around è capace di giocare in tutte le posizioni (spesso, nei momenti decisivi, viene schierato anche da 5 nel quintetto small ball) essendo pericoloso sia in post basso che in penetrazione ― sfruttando i blocchi portati da Whiteside o addirittura da uno dei piccoli ― così come da oltre l’arco visto il 34% da tre punti (massimo in carriera) agevolato dagli scarichi post-penetrazione di Dragic e Waiters. La sua presenza è indispensabile anche in fase difensiva per la sua abilità nel cambiare su tutti i giocatori della squadra avversaria, come il 2.3 di Defensive Box plus/minus dimostra. L’energia che mette in ogni azione è a dir poco incredibile, e le statistiche, non a caso, gli stanno dando ragione: 12,3 punti, 4,8 rimbalzi, 3,5 assist in 26 minuti abbondanti di utilizzo. E qualche giocata niente male.

Sì, il perno forse non è proprio immobile, però dai, non facciamo i pignoli…

Già ma tutto questo non può bastare, direte voi. Va bene le statistiche, ma le partite si vincono sul parquet dove gli Heat non hanno la possibilità di schierare affermate all star o talentuosi scorer da 30 punti a partita. Come le hanno vinte quei signori 35 partite? Ebbene, anche in questo caso, il “colpevole” va ricercato in panchina. Perché se è vero che ogni singolo giocatore del roster di Miami sta disputando una stagione straordinaria in termini individuali, è altrettanto vero che 35 gare gli Heat le hanno vinte grazie al collettivo, ad una condizione fisica incredibile figlia di un allenamento chiaramente mirato, alla loro straordinaria organizzazione in fase difensiva, all’intensità e alla velocità di esecuzione messa in quella offensiva. Tutti fattori che vanno ricondotti in larga misura proprio a Erik Spoelstra.

Partiamo dalla fase difensiva ad esempio, ragione principale dei successi di Miami. Gli Heat, non per caso, sono sesti in assoluto per DefRtg e quinti per punti concessi a partita rispettivamente con 106.8 e 102.1, con coach Spoelstra che, conscio dei limiti dei suoi ragazzi in termini di talento e finalizzazione, ha colto a pieno l’essenza del “fare di necessità virtù”. La difesa di Miami si articola su due capisaldi strutturali: la protezione del ferro e la protezione della linea dei tre punti. Per quanto riguarda il primo punto non è servito altro che affidarsi ai centimetri e alla verticalità di Whiteside, 14 rimbalzi abbondanti e 2 stoppate di media a partita (quinto nella Lega) con un’efficienza difensiva di 100 punti concessi su 100 possessi, e Willie Reed, che sta disputando una buona stagione da back-up center. L’ordine è semplice, semplicissimo: difendere l’anello. Sempre, in ogni situazione, sulle penetrazioni o dopo i blocchi avversari, non pensare a nient’altro. Il risultato è che la percentuale di realizzazione delle squadre avversarie degli Heat entro 5 piedi dal canestro è del 56,3%, la terza più bassa della Lega dietro a Blazers e Jazz.

Not in my house, Giannis, not in my house!

Il secondo punto di forza della difesa è parzialmente consequenziale rispetto al primo. Perché se l’area è protetta così bene, i piccoletti di Miami possono spendere tutte le loro energie (e ne hanno veramente tante) per salvaguardare la linea dei 3 punti. Un giocatore che lo sta facendo in maniera davvero straordinaria è Tyler Johnson, con una intensità e una prestanza che hanno pochi pari nell’odierna NBA. Anche qui i dividendi si riscontrano tramite i numeri che raccontano come gli Heat siano la squadra contro la quale in assoluto si tira meno da 3 (22,6% di tiri tentati dagli avversari da dietro la linea), una di quelle contro la quale si tira peggio (34,5%, quinta più bassa in NBA) e, in conseguenza dei due dati sopracitati, quella che subisce meno tiri in assoluto da dietro la linea dei 7,25 m(7.8 triple a partita). Se poi a questi dati aggiungiamo anche che Miami è la terza migliore squadra della Lega in transizione difensiva ed il fatto che per tutti i 48 minuti l’intensità, l’abnegazione, il sacrificio e la determinazione non mancano mai, ne viene fuori il ritratto dello straordinario lavoro svolto da Spoelstra.

Se c’è una falla nel sistema difensivo dei Miami Heat questa riguarda la difesa dei pick-and-roll. Whiteside è lento, lentissimo, e anche non poco goffo in alcune occasioni. Conscio di ciò, Erik Spoelstra – nei limiti del possibile – si guarda bene dal farlo uscire dal pitturato, in zone dove si creerebbero dei mismatch che lo vedrebbero sistematicamente battuto. Questo però determina che una volta che il difensore rimane bloccato sul lungo(ammesso che ciò si verifichi visto che le guardie di Miami sono tutt’altro che arrendevoli sui blocchi), il portatore di palla avversario ha il tempo di arrestarsi, guardare il canestro e tirare, il tutto relativamente indisturbato. Non è un caso, infatti, che gli Heat siano rispettivamente secondi in tiri subiti da 5-9 piedi (9.6%, con il 42,9% di realizzazione) e primi nella stessa statistica da 10-14 piedi (8.1% con il 45,7%, la più alta in NBA). Si tratta dei midrange shot, per intenderci, proprio quelli presi dopo essere passati dietro il blocco ed essersi accorti che il lungo avversario è distante perché è rimasto a difendere il ferro.

Ricapitoliamo: Thompson porta un ottimo blocco alto per Shumpert, che non ha difficoltà a prendere vantaggio sul diretto difensore. Al netto di ciò la difesa degli Heat non può fare altro che accettare il cambio, con Whiteside, però, che rimane a proteggere il ferro per impedire un eventuale penetrazione a canestro; tuttavia, a quel punto, Shumpert ha gioco facile nel segnare il midrange completamente libero dopo un piccolo step back.

Si tratta di una scelta difensiva sistematica, adottata dalla squadra di Spoelstra proprio in considerazione delle debolezze del loro centro, ancora troppo statico e carente da questo punto di vista. Una scelta che, sebbene per un concorso di fattori causali si sia rivelata vincente nel corso della stagione, potrebbe tuttavia determinare qualche problema maggiore ai playoff – qualora Miami dovesse arrivarci – contro squadre come Washington, Boston o Cleveland, dotate di lunghi molto efficaci nel portare i blocchi (Gortat, Horford e Thompson) e guardie ancora più efficaci nell’approfittare di quei pochi secondi di libertà concessi loro (Wall, Thomas, Irving). Ma in fondo, se quelle poche volte che Whiteside si lascia trascinare fuori dalla sua zona di competenza i risultati sono quelli visti qui sotto, non resta altro da fare che guardare il cielo e iniziare a pregare.

Situazione analoga alla precedente con il lungo che porta il blocco alto per Lillard; in questo caso però Whiteside, un po’ per scongiurare la chiusura di un ipotetico pick’n pop con Leonard(che ha nelle mani un tiro da quella distanza), un po’ per contestare un eventuale tripla di Lillard(che aveva già 13 punti a referto, 5 dei quali proprio su tiri incontestati in uscita dal blocco), si lascia trascinare fuori dalla sua comfort zone. Il risultato finale è sotto gli occhi di tutti(difesa vietata ai minori).

Anche per quanto riguarda l’attacco l’ordine è molto semplice: leggere la situazione e muoversi di conseguenza, quasi per istinto, senza pensare più di tanto. Quello che in gergo un po’ più tecnico si chiama read and react. Quello che, in definitiva e molto in soldoni, rappresenta l’esatto contrario di qualsiasi schema costruito ex ante, dove i movimenti di tutti e 5 i giocatori sono determinati a priori. Nel sistema read and react, tutto è molto estemporaneo, più veloce e meno ragionato: chi porta la palla è libero di decidere come impostare l’azione, gli altri, dopo aver guardato la sua “mossa”, non devono fare altro che farsi guidare dall’istinto e muoversi. Verso la mischia o fuori dalla mischia, verso il canestro o verso il perimetro. Muoversi sempre, non appena si vede uno spiraglio di possibilità. Ciò che aiuta moltissimo la truppa di Spoelstra a tal proposito è – come già accennato sopra – uno stato di forma fisica eccezionale (vedi James Johnson sopra, vedi Ellington sotto). Gli Heat non si stancano mai, non si fermano mai, tutti si muovono per cercare la “zona di luce” con la conseguenza che la palla gira velocemente e la coordinazione tra i cinque giocatori in campo risulta molto agevolata. Proprio per la libertà di cui godono i portatori di palla, avendo poi a disposizione tre guardie molto veloci come Waiters, Dragic e Tyler Johnson la prima soluzione offensiva non può essere che quella della penetrazione a canestro dopo il blocco del lungo (35,2 drives a partita, primi nella lega). E volete sapere con che percentuali realizzano le guardie di Miami una volta entrate in area, considerando anche i numeri nei liberi che scaturiscono dalle penetrazioni? Con uno sconfortante 55.8%, la percentuale più bassa dell’intera NBA. Ebbene, se non si segna allora che si fa? Facilissimo, si penetra lo stesso, si fa collassare la difesa sul giocatore in entrata e dopodiché si scarica fuori (13.4 a partita, sempre primi in assoluto). Poi si tira, si ripenetra, si cerca l’extrapass, qualcosa ci si inventa sempre, ma sempre guidati dall’istinto.

Vabè stendiamo un velo pietoso sulla difesa dei Pelicans, con Davis più spaesato di Zach Randolph dal dietologo, ma la sostanza è questa: penetrazione a canestro di Dragic con tre uomini ben saldi sul perimetro ad aspettare la palla in uscita, scarico fuori dopodiché ricerca del tiro migliore, in questo caso proprio quello di McGruder, rimasto libero nell’angolo dopo la rotazione difensiva (lentissima) di New Orleans

Ma abbiamo detto che non si corre solo verso l’area. Che succede se non si penetra verso il canestro? Facile, si corre fuori, verso la luce. In questo Wayne Ellington è sicuramente il migliore tra i giocatori a disposizione di coach Spoelstra. La stagione che sta facendo il nativo di Wynnewood è qualcosa di letteralmente straordinario, con 10.9 punti di media a partita, 115 di OffRtg e il 55% di eFG%. La percentuale dietro la linea dei tre punti (37%) non deve trarre in inganno perché va letta solamente in considerazione della difficoltà dei tiri tentati da Ellington stesso, la maggior parte dei quali sono appunto catch-and-shoot presi in uscita rapida da uno o più blocchi magari dopo ripetute finte. Tiri molto difficili da realizzare ― perché spesso e volentieri vengono comunque contestati e il margine di vantaggio dell’attaccante, se c’è, è di decimi di secondo ― e ai quali spesso si arriva con il fiato corto, dopo essersi fatti tutto il campo orizzontalmente passando dietro 4 o 5 maglie. Ma diciamo che Ellington non se la cava niente male nel complesso…

Ecco una azione perfettamente esplicativa della difficoltà della maggior parte dei tiri di Ellington, che in questa situazione parte in punta, si fa tutto il campo orizzontalmente passando dietro tre blocchi, anticipa il tentativo di intercetto di Cousins(che comunque gli rende difficoltosa la ricezione) prima di ricevere palla e sparare(sostanzialmente dalla stessa zona dalla quale era partito).

Anzi se la cava talmente bene che la difesa avversaria, conscia dei rischi che corre lasciandogli il tiro, finisce per fare queste cose qua. Ellington ha già 19 punti a referto, Cousins vuole impedirgli la ricezione e nel farlo lascia libero il suo uomo. Risultato: (bellissima) palla dentro di Johnson e bimane di Whiteside facile facile.

O ancora queste cose qua. Azione offensiva successiva: Ellington parte dalla linea di fondo e si apre verso l’angolo destro sfruttando il blocco di James Johnson per ricevere il passaggio di Tyler, questa volta portandosi dietro ben due uomini. Risultato: Richardson si allarga nell’angolo opposto, chiama palla, riceve indisturbato, Crawford al quel punto è in ritardo, tripla non contestata, vantaggio Miami.

Insomma questi sono i Miami Heat. Una simpatica combriccola di sgangherati reduci che Erik Spoelstra è riuscito a trasformare in una squadra capace di battere due volte i Rockets di Harden, i Warriors dei Big-Four e due volte i campioni in carica di King James. E allora Spoelstra merita – se non di vincerlo – quantomeno di essere candidato per il titolo di allenatore dell’anno, indipendentemente dall’esito della stagione, dall’ingresso degli Heat ai playoff, dal record positivo o negativo. Se lo merita perché nove allenatori su dieci con quel roster non avrebbero pensato ad altro che a tankare. Se lo merita perché Miami è una bella favola, di quelle che piacciono sempre a chi ama lo sport. E se lo merita anche – e forse soprattutto – come riconoscimento postumo. Perché molti se lo dimenticano spesso ma Erik è uno dei pochi allenatori che nel suo palmares può già vantare due titoli vinti da capo allenatore ma non un titolo di Coach of the Year. Quei due titoli sono di LeBron, sono di Wade, sono di Bosh, di Allen, nel migliore dei casi di Battier e Mario Chalmers, secondo i più. Con quella squadra non si poteva perdere, dicono, non serviva un buon allenatore, e in ogni caso vincere non attestava il fatto che lo si fosse.

Ebbene, se gli Heat dei Big Three avrebbero vinto ugualmente senza Spoelstra in panchina non lo sapremo mai, ma se cercavate una prova che quel giovanotto di 46 anni fosse un ottimo coach adesso ce l’avete, perché sì, questa stagione lo attesta definitivamente. E forse sarebbe davvero arrivato il momento di riconoscerglielo.

Statistiche aggiornate al 27 marzo 2017

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Pubblicato da
Alessandro Zullo

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