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La rinascita di Eric Gordon

26 giugno 2008, Madison Square Garden, New York City. Un’ingenerosa pioggia di fischi accompagna Danilo Gallinari verso la stretta di mano più importante della sua vita. Si sa, la platea newyorkese ha il palato fino e ancora una volta dimostra di avere più confidenza con i giudizi affrettati piuttosto che con il basket europeo: citofonare Porzingis per saperne di più.

Durante la consueta intervista post-Draft, un Gallo notevolmente imbarazzato tira fuori dal cilindro una serie di frasi di circostanza nel tentativo di lasciarsi alle spalle i pur preventivati fischi, che non accennano a placarsi. The Mecca of Basketball non esita a manifestare il proprio disappunto per la scelta della franchigia locale, ma la bontà delle decisioni del front office dei Knicks non rappresenta la priorità di tutti i presenti al Madison Square Garden. Già, perché il ragazzo in giacca bianca e camicia a righe, seduto ad uno dei tavoli riservati ai prospetti in odore di Lottery, non sembra avere particolarmente a cuore l’intervista di Gallinari, ancora alle prese con le premature dichiarazioni d’affetto dei suoi tifosi. Secondo gli esperti, a minuti la sua fida mano destra si sarebbe aggiunta a quelle già strette dal Commissioner, ma la storia del Draft insegna che le sorprese sono sempre dietro l’angolo. La sua testa è altrove: se i Clippers, detentori della settima scelta, decidessero di puntare su qualcun altro, con tutta probabilità si ritroverebbe a trascorrere i primi anni di carriera a Milwaukee o a Charlotte… non esattamente Los Angeles, mettiamola così. Le telecamere del WaMu Theatre, avvicinatesi di soppiatto qualche secondo prima del ritorno di Stern sul palco, lo riportano bruscamente alla realtà.

With the seventh pick in the 2007 NBA Draft the LA Clippers selected… Eric Gordon, from Indiana University!

Cheeeese! (Credits to www.gq.com, via Google)

Le telecamere prima e Stern poi lo indirizzano ad Ovest, in una City che, prima di essere of Angels, è storicamente of Lakers. I Clippers in cui Gordon si trova a giocare sono infatti ben diversi da quelli che da qualche anno rientrano a buon diritto nella categoria di contender: Baron Davis è ormai in procinto di imboccare il viale del tramonto e il pur ottimo contributo del solo Zach Randolph non basta per rendere i Clippers il sogno di ogni rookie, almeno da un punto di vista meramente sportivo. Nonostante il record finale di 19 vittorie e ben 63 sconfitte testimoni come il roster della squadra sia più adeguato al garbage time che ad una serie di Playoff, Gordon dà sfoggio delle sue qualità offensive, che lasciano ben sperare per il futuro della franchigia più sfortunata della Lega. Tuttavia, se 16,2 punti, conditi da 2,8 assist e 2,6 rimbalzi ad allacciata di scarpe costituiscono un ottimo punto di partenza, le troppe incognite che aleggiano sin dai primi mesi attorno alla sua integrità fisica rischiano di compromettere la sua carriera professionistica.

Su 246 partite a disposizione nei tre anni trascorsi a Los Angeles, Gordon è fermo ai box in ben 50 occasioni: in buona sostanza, in più del 20% delle partite dei Clippers Gordon è costretto a fare il tifo, senza troppo successo, per i suoi compagni. Per sua fortuna, quando non è costretto ad assistere in giacca e cravatta, il giovane Eric è una gioia per gli occhi. Fino all’avvento di Blake Griffin, è lui l’unico motivo valido per decidere coraggiosamente di guardare una partita dei Clippers: d’altronde, nascere ad Indianapolis vorrà pur dire qualcosa. Gordon fa letteralmente quello che vuole in campo. Il suo range di tiro pressoché illimitato gli consente di tenere costantemente sotto pressione le difese avversarie, regolarmente punite dall’arco o nel pitturato, dove la giovane ala dei Clippers non disdegna affatto qualche sortita offensiva. Certo, la sua tenuta difensiva è quantomeno rivedibile, ma in un contesto così lontano dal poter essere considerato competitivo poco importa. Quelle stesse telecamere che avevano accompagnato il suo sbarco nel basket dei grandi celebrano le imprese solitarie di un ragazzo intento a ricostruire l’immagine dei Clippers. Certo, la strada è ancora lunga, ma il talento c’è e si vede, eccome se si vede.

È talmente evidente che neppure David Stern può fare a meno di accorgersene. A distanza di tre anni, quel ragazzo di Indianapolis è agli occhi di tutti un astro nascente della pallacanestro a stelle e strisce, il che lo rende un’ottima pedina di scambio per una superstar la cui cessione dev’essere, guarda caso, gestita dal Commissioner per tutelare gli interessi della Lega. Inutile dilungarsi troppo sulla vicenda: la trade che porta Chris Paul a Los Angeles obbliga Eric Gordon a compiere, suo malgrado, il tragitto inverso. Lo scenario che il prodotto di Indiana si trova di fronte è quanto di più avvilente si possa concepire in ambito sportivo: al di là delle non troppo sottili differenze che separano New Orleans da Los Angeles, la partenza del più talentuoso playmaker dell’ultimo decennio, nonostante le attenzioni di Stern, ridimensiona inevitabilmente le ambizioni di una franchigia che somiglia più ad un cantiere aperto che ad una squadra di basket. Come se non bastasse, le avvisaglie di fragilità fisica che si erano manifestate nel corso delle precedenti stagioni diventano una costante per Gordon, il quale disputerà solo 9 partite su 82 disponibili nella sua prima stagione con la casacca degli Hornets.

I guai fisici di Gordon non sembrano però spaventare il front office dei Calabroni, che pareggiano i 58 milioni di dollari offerti dai Phoenix Suns per i successivi quattro anni, dimostrando di voler coinvolgere Gordon in un progetto sportivo del quale il ragazzo aveva più volte dichiarato di non voler far parte. Purtroppo però neanche il passaggio da “Hornets” a “Pelicans” è sufficiente per mettersi alle spalle tutti i problemi. La preoccupante tenuta fisica di Gordon influisce negativamente sulle sue prestazioni, che conoscono un progressivo ed inesorabile calo in tutte le statistiche.

“Cheeeese!”, parte seconda (credits to www.rantsports.com, via Google)

È risaputo, le telecamere hanno la memoria corta. Basta sparire per un po’ dai riflettori per ritrovarsi dimenticato da tutti, in un mondo in cui la riconoscenza fa fatica a penetrare. Eric Gordon? Chi, quello che passa più partite in infermeria che sul parquet? Quelli che solo qualche anno prima non avevano esitato ad acclamare quel ragazzino che faceva ben sperare in quel di Los Angeles adesso non fanno altro che criticarne la tenuta fisica e il rendimento difensivo, rendendolo vittima di un processo simile ― con le dovute proporzioni ― a quello subito da Dwight Howard, passato nel giro di qualche mese dallo status di superstar alla gogna mediatica.

Paradossalmente, è proprio sul palcoscenico su cui l’ex Superman ha dovuto suo malgrado fare i conti con un inesorabile declino psicofisico che Gordon si è ripreso ciò che la sorte aveva frettolosamente deciso di sottrargli. Liberatosi finalmente del pur vantaggioso contratto che l’aveva confinato in Louisiana, nella scorsa estate Eric Gordon è approdato alla corte degli Houston Rockets, e del nuovo allenatore Mike D’Antoni. Che le doti offensive del nativo di Indianapolis si sarebbero potute sposare alla perfezione con lo stile di gioco proposto dall’ex coach dei Lakers non è certo da considerare una sorpresa. Tuttavia, la presenza di James Harden, stella assoluta della squadra, fa sorgere più di un dubbio sulla collocazione tattica del neo-acquisto. Al suo arrivo in Texas, Gordon non è altro che una brutta copia del Barba, soltanto più lento, più fragile, meno atletico e meno talentuoso. Gordon non è neppure in grado di offrire garanzie migliori nella metà campo difensiva, quella in cui Harden si concede qualche pausa di troppo (eufemismo).

Il primo scoglio da superare è dunque rappresentato dalla rinuncia a quel posto fisso nel quintetto di partenza che nei precedenti anni di carriera, infortuni a parte, nessuno aveva osato mettere in discussione. Numeri alla mano, sembra che Gordon non abbia avuto grossi problemi ad accettare un ruolo di minore rilevanza rispetto agli anni passati.

Le tre shot chart relative alle fasi più significative della carriera di Eric Gordon. Iniziamo con la shot chart di Eric Gordon in maglia Clippers, stagione 2010-2011 (credits to www.statmuse.com)

Qui con la maglia dei Pelicans, stagione 2013-2014 (credits to www.statmuse.com)

Infine quella di questa stagione, in maglia Rockets, stagione 2016-2017 (credits to www.statmuse.com)

Dal confronto delle tre mappe di tiro si può notare come il gioco di Eric Gordon abbia conosciuto qualche significativa evoluzione nel corso della sua carriera. Sin dai tempi dei Clippers si è fatto apprezzare per le notevoli doti balistiche dall’arco e per le sue penetrazioni nel pitturato, e non è dunque una novità che Mike D’Antoni sappia sfruttare al massimo queste particolari doti. In particolare, dal suo approdo in Texas Gordon sembra aver rivalutato la tripla dall’angolo: se nel 2010-2011 e nel 2013-2014 le corner three tentate sono state rispettivamente 24 e 40, in maglia Rockets Gordon ha già fatto registrare 71 tentativi dall’angolo, che manda a bersaglio nel 40,8% dei casi. Il motivo è presto spiegato: se nelle sue precedenti esperienze in Nba era Gordon a gestire la stragrande maggioranza dei possessi della sua squadra, il magnetismo esercitato da Harden nei confronti delle difese avversarie fa sì che l’ex Pelicans possa mettere in mostra le sue doti da cecchino in situazioni di catch-and-shoot, cosa che la presenza di Anthony Davis in squadra gli consentiva di fare solo parzialmente.

È inutile girarci intorno: alla base dei 53 milioni di dollari che andrà a guadagnare nei prossimi quattro anni c’è il suo vastissimo range di tiro, che fa di lui una seria minaccia nella metà campo più glamour. L’incredibile volume di conclusioni da tre punti tentate, oltre alla vittoria nell’ultimo Three-Point Contest tenutosi proprio a New Orleans, rappresentano una testimonianza più che sufficiente della sua importanza nell’economia offensiva dei Rockets: con 586 triple tentate, frutto di 8,9 tentativi a partita, è il terzo giocatore della Lega, dietro Steph Curry e James Harden, a fare più affidamento sulle sue doti balistiche, pur avendo calcato i parquet d’America rispettivamente 318 e 608 minuti in meno dei due leader della classifica.

Essendosi dovuto adattare alla Moreyball, è interessante notare come la sua mappa di tiro sia cambiata, e non solo per le tantissime triple tentate in più. Secondo il credo del General Manager dei Rockets Morey in area si tira solo in prossimità del ferro e questo ha portato ad un calo delle sue conclusioni da due punti. Ad esempio, nonostante fosse sceso in campo soltanto in 56 occasioni ― a fronte delle 65 partite già disputate quest’anno ― nella sua ultima stagione a Los Angeles, aveva tirato ben 426 volte dal pitturato, mentre in maglia Rockets i tentativi fin ora registrati si fermano a 229, poco più della metà. Ancora una volta, è la presenza di Harden a fare la differenza: con il Barba in campo, Gordon è esentato dalle responsabilità di gestione del pallone, limitandosi a quello che sa fare meglio: tirare dalla lunga distanza. Inoltre, la presenza in squadra di un lungo vecchio stile come Clint Capela, in grado di trovarsi a suo agio solo a pochi metri dal canestro, costituisce un’ulteriore motivazione alle ridotte penetrazioni nel pitturato di Gordon, che spesso preferisce servire il giovane centro svizzero piuttosto che concludere a ferro.

Sono bastati pochi mesi affinché Gordon si adattasse alla sua nuova dimensione di comprimario, un passaggio senza dubbio difficile nella carriera di un ragazzo che fino a qualche anno fa sembrava proiettato verso ben altre responsabilità. Ad ogni modo, a Mike D’Antoni serviva come il pane un uomo in grado di far rifiatare Harden e di gestire il pallone in assenza del Barba e Gordon è il più classico degli uomini giusti al momento giusto. La sua fornitissima faretra offensiva, unita ad un più che discreto ball-handling, fanno di lui il perfetto sostituto di Harden e il leader della second unit dei Rockets. Di certo il contesto, notevolmente più competitivo rispetto a quelle delle precedenti annate, contribuisce a nascondere gli storici difetti, come la scarsa concentrazione difensiva e la pressoché nulla presenza a rimbalzo.

Ma grazie ad un’applicazione tattica che raramente aveva mostrato in passato ― e a 220 triple mandate a bersaglio (e realizzate col 37,9%), record assoluto per una riserva ― Eric Gordon è uno dei principali indiziati nella corsa al titolo di Sesto Uomo dell’Anno. Candidatura meritata o frutto del caso?

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LA REDENZIONE DI ERIC

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Pubblicato da
Federico Ameli

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