Comprendere quando qualcosa è alla fine non è mai un esercizio facile. La storia sportiva ci insegna che nel momento in cui la notte si fa più scura c’è la concreta possibilità che l’alba sia sul punto di sorgere. Dalle parti di Los Angeles però c’è chi ha già commesso l’errore di procrastinare un processo di rebuilding aggrappandosi all’aura mistica di quel fuoriclasse che è stato (fino alla fine) Kobe Bryant.
Sull’altro versante losangelino la sensazione di vuoto avvertito dopo l’ultima sirena di gara 7 contro i Jazz porta alla conclusione che qualcosa si è rotto o, per essere ancora più catastrofici, che non c’è mai stato niente di sano. Soltanto un barlume di genio, rappresentato dall’uomo che peggio ha fatto in quella gara 7, Chris Paul. Pensare che proprio lui aveva acceso la luce in una delle franchigie più bistrattate della storia dello sport americano. Son passati due anni da uno dei canestri candidati ad entrare nella narrativa del passaggio di consegne e invece rimasto lì, come una gemma dimenticata tra le pieghe di un cammino che ha di fatto confermato quello che era vero prima di Chris Paul, prima di Blake Griffin. Clippers being Clippers. In quei playoff hanno dilapidato un vantaggio di 3-1 nelle semifinale contro i Rockets (lontani parenti di quelli attuali) e nelle successive campagne sono usciti al primo turno per mano di Portland e Utah, squadre teoricamente molto meno attrezzate di loro.
Su un piede, cadendo all’indietro, con la manona di Duncan in faccia.
La stagione
La sensazione di ultimo ballo c’era già ad inizio anno, con i contratti dei vari Griffin, Jordan, Paul, Redick che imponevano una cavalcata volta a confermare lo status di terza potenza ad Ovest e magari provare a sparigliare le carte ai playoff. A parte qualche acciacco di Griffin e DeAndre la stagione dei Clippers ha potuto godere di una certa continuità nel gioco, tanto che il quintetto titolare (Griffin, Jordan, Mbah a Moute, Paul, Redick) è stato il terzo per minuti giocati in Regular Season, dietro a quelli di Wizards e T’Wolves. L’idea che guida coach Rivers da quando si è seduto sulla panchina dei Clippers è quella di collocare Chris Paul al centro della chiesa dotandolo di due lunghi complementari e aprendo il campo con gli altri due uomini. I due problemi alla base di quest’idea sono sempre stati gli stessi da quando Rivers è sul pino dei californiani: l’assenza di un quinto uomo capace di contribuire sui due lati del campo e la panchina.
Quando riescono a giocare in quattro va quasi sempre così.
Inizialmente l’idea era quella di alternare Wesley Johnson e Alan Anderson nel ruolo di 3 ma l’inadeguatezza del primo e i problemi fisici del secondo hanno alzato le quotazioni di Luc Mbah a Moute. Il prodotto di UCLA si è confermato un ottimo difensore (secondo Defensive Rating della squadra dopo Chris Paul) ma la sua utilità nella metà campo offensiva è pressoché nulla con appena 4,7 conclusioni tentate a partita che hanno portato 6,1 punti di media. Un giocatore molto utile in regular season che diventa facilmente battezzabile e di conseguenza un problema quando arriva la post-season.
Su 100 possessi i Clippers segnano 110,3 punti, quarto attacco della lega. Considerando soltanto i quattro elementi la produzione sale a 116,9 risultando (dopo le combinazioni schierabili da Golden State e Houston) la migliore macchina da punti della lega. Un’alternativa credibile per innalzare il livello offensivo della squadra sarebbe partire con il redivivo Jamal Crawford, il quale tuttavia ha spento in marzo 37 candeline con il risultato che è stata la sua peggior stagione realizzativa dal 2003 (12,3 punti ad allacciata di scarpa) alla quale si aggiunge un’applicazione difensiva ben sotto la media.
L’idea è quindi quella di una coperta corta che coach Rivers ha fatto fatica a rattoppare nel corso della stagione anche per la mancanza di alternative credibili in panchina. Paul Pierce può dare un immenso contributo carismatico ma il tempo passa anche per lui. Gente come Felton, Speights, Bass, Johnson, Anderson, non si è dimostrata all’altezza di una papabile contender dal momento che nessuno di questi ha chiuso la stagione con un Net Rating positivo. Soltanto Austin Rivers si è rivelato utile in determinate situazioni, più come luogotenente di Chris Paul che come suo backup.
D’altronde basandoci sulle fredde (ma neanche troppo) cifre viene da chiedersi se questa squadra abbia ragione di esistere senza CP3. Con lui in campo si parla di Lob City, di anti-Warriors, di un Net Rating capace di arrivare a 14,9 e un plus/minus a 14,4. Senza è Waterloo, è la parte meno nobile di Los Angeles, è un Net Rating e un plus/minus di -5,3. Nemmeno Westbrook crea un differenziale simile con la sua presenza. Tradotto significa un record di 51-31 valevole per il quarto posto ad Ovest ma una cavalcata playoff destinata a durare poco.
I playoffs
Al primo turno contro gli Utah Jazz forti della terza miglior difesa dietro Spurs e Warriors e di un Gordon Hayward in versione superstar, la serie è stata in sostanziale equilibrio fino a gara 3, quando Blake Griffin esce dal campo dolorante per non rientrare più nella contesa. Tanto bene, da gara 4 ritorna anche Rudy Gobert e anche il controllo del pitturato svanisce lentamente. In gara 6 la squadra di Doc Rivers si salva grazie ad una prestazione esaltante del solito Chris Paul che anche durante i playoff ha evidenziato un deficit strutturale della squadra quando lui non calca il parquet (non che sia colpa sua è ovvio). Alla decisiva gara 7 ci arriva una squadra sfiancata dalla eccelsa difesa sul pallone degli uomini di coach Snyder e incapace di gestire una second unit avversaria che macina punti. Alla probabile fine della Lob City si aggiunge il commosso saluto ad una leggenda dell’NBA contemporanea come Paul Pierce, efficace quando è stato chiamato in causa ma incapace di evitare ai Clippers l’ennesima magra figura.
Il futuro
La notte è più oscura prima dell’alba ma la sensazione è che le tenebre a Los Angeles non abbiano ancora raggiunto il proprio apice. Non c’è un singolo elemento certo nelle ipotesi che si andranno a susseguire nei prossimi giorni circa il futuro di questa franchigia. Partendo dall’allenatore/presidente/Capo Assoluto della Gang mister Doc Rivers si nota come la solidità della sua poltrona scricchioli sinistramente. Da quando ha assunto compiti dirigenziali non si può certo dire che le cose gli siano andate bene. I Clippers dovranno pagare una multa per aver ecceduto il salary cap e di conseguenza le possibilità di mantenere intatto il core della squadra sono assai risicate. Le voci che lo vorrebbero sulla panchina degli Orlando Magic, in qualità di head coach e General Manager, sono suffragate dal licenziamento del GM Rob Hennigan e da un supporto nei confronti dell’ex coach dei Celtics ai minimi storici in quel di LA.
Quando ti dicono che è anche colpa tua…
Anche perché il rischio di rebuilding, o quantomeno di restyling, in casa Clippers è concreto, vista la situazione contrattuale dei due franchise player. Chris Paul è probabilmente il più forte giocatore di tutti i tempi a non aver mai disputato una finale di conference. Arrivato alla veneranda età di 32 anni le possibilità che ciò accada si riducono sempre più al lumicino. Praticamente certo il fatto che decida di uscire dal suo contratto, la legacy di Chris Paul rischia di dipendere fortemente dalla sua scelta estiva. Rimanendo ai Clippers potrebbe chiedere un max-contract che chiamerebbe per 205$ milioni in cinque anni, una cifra difficile da rifiutare per il diretto interessato che a quel punto rimarrebbe in una squadra con ambizioni da titolo, la stessa squadra per la quale un paio di anni fa aveva giurato fedeltà. Le possibilità di occupare i piani alti della Western Conference sono legate a doppio filo con Paul, non si scappa, tuttavia se nelle idee dirigenziali balena l’idea di ricostruire (e magari di risparmiare qualche soldo) le alternative per il prodotto di Wake Forest si sprecherebbero. Le opzioni più suggestive sono gli Spurs, che andrebbero a creare un superteam alla stregua di Golden State, i Knicks dell’amico Anthony e gli Heat, qualora Pat Riley volesse spendere tutto il suo savoir faire per convincere Paul della bontà della scelta. Ancora presto per parlarne, così come rischia di essere prematura qualsiasi considerazione su Blake Griffin.
Il terzo classificato al premio di MVP 2014 affronta per la prima volta nella sua carriera la free agency nel momento forse peggiore della sua vita cestistica. Negli ultimi due anni ha dovuto convivere con una serie di infortuni, rumors di mercato, lezioni di box ai magazzinieri e il peso di dover essere il secondo violino di una squadra che non è mai riuscita ad esprimersi al 100%. Come se non bastasse un anno e mezzo fa le idee di Doc Rivers in merito ad una possibile cessione di un pezzo grosso della squadra convergevano proprio sul prodotto di Oklahoma. Un’era fa certo, ma nonostante la condizione fisica precaria parliamo comunque del pezzo pregiato di questa free agency. (ammesso che i vari Curry, Durant, Paul, rimangano dove sono).
Senza dimenticare che i palazzetti sono sempre sold out quando arriva questo tizio in città.
Per accaparrarselo i Clippers dovranno presentare verosimilmente un’offerta da 175 milioni di dollari, e se la priorità sarà quella di tenere CP3 potrebbe non esserci la disponibilità da parte della franchigia ad investire questi soldi. Il minimo tentennamento tuttavia porterebbe Griffin a sondare un mercato che non aspetta altro. Tralasciando la tesi goliardica di Big Baby Davis che lo vedrebbe ad OKC (che pure avrebbe bisogno di un lungo con le sue caratteristiche) la destinazione più simile ad una contender è sicuramente Boston. Lo spazio salariale c’è e sulla carta la squadra di Brad Stevens diventerebbe un’alternativa realistica allo stradominio lebroniano ad Est. Qualora Blake si dimostrasse un po’ più paziente nella sua rincorsa al titolo ci sarebbero una sfilza di pretendenti in cerca della pietra angolare su cui costruire. Heat e Lakers le ipotesi più credibili, la prima per il core già avviato e la seconda perché dicono che una volta provata Los Angeles sia difficile tornare indietro. Poi sono i Lakers, non scherziamo.
Risolti i due casi più spinosi le grane nella stanza dei bottoni losangelina non sarebbero comunque finite poiché anche Redick andrà in scadenza e rimane uno dei primi tre tiratori della lega. D’altro canto però c’è da sottolineare come in questi playoffs si sia arenato, tirando con il 36% da oltre l’arco e dando un reale contributo esclusivamente in gara 5 (senza considerare che a giugno compirà 33 anni). Vale lo stesso discorso fatto per Griffin: i Clippers partono in vantaggio ma alla minima incertezza squadre come Bucks, Raptors, Thunder, Bulls, Hawks si tufferebbero per accaparrarsi un tiratore d’élite in grado di aprire il campo come pochi. Infine sia Speights che Mbah a Moute probabilmente non eserciteranno la player option e se per il primo non vedremo sommosse in piazza in caso di partenza, per il secondo ci potrebbe essere la volontà di trattenerlo visto comunque il suo apporto quando la palla ce l’hanno gli altri. Un’estate non facile quella che aspetta i Clippers, divisi tra il desiderio di un titolo e l’amaro che ha lasciato in bocca questo gruppo da quando è stato assemblato. Forse siamo giunti veramente alla fine.