Considerando che:
1) la postseason 2015-2016 degli Utah Jazz, sulla falsariga delle tre precedenti, è andata in scena non nella poco ospitale Salt Lake City (per informazioni più dettagliate chiedere ai Golden State Warriors), bensì in mete fuori dalla portata economica della stragrande maggioranza di chi leggerà questo pezzo;
2) la scorsa estate giocatori del calibro di George Hill, Boris Diaw e dell’immortale Joe Johnson hanno deciso di sposare la causa di coach Quin Snyder nel tentativo di aiutarlo nel processo di crescita dei suoi ragazzini terribili;
3) nella stagione attuale i Jazz hanno prenotato le meritate vacanze nelle mete di cui sopra con qualche settimana di ritardo e solo per colpa di una squadra che vanta ben 12 vittorie e neanche l’ombra di una sconfitta nei Playoff,
potremmo supporre che Dennis Lindsey, General Manager degli Utah Jazz, sia una delle persone più felici e soddisfatte del proprio lavoro sulla faccia della Terra. In realtà, Lindsey sa bene che l’estate che lo attende sarà con tutta probabilità la più complicata della sua carriera. Se le aspettative per questa stagione consistevano nell’aggancio al treno Playoff e nella crescita dei più giovani, dopo un anno vissuto finalmente sotto la luce dei riflettori dopo tanti anni di oblio, Lindsey non può permettersi passi falsi. Mantenere lo status quo, per i motivi che vedremo, ha tutta l’aria di essere un’utopia, ed è qui che il front office dei Jazz dovrà stare attento a scongiurare il rischio che i progressi fatti registrare negli ultimi mesi non si rivelino una felice quanto breve parentesi tra le deludenti annate a cui in quel di Salt Lake City sono, loro malgrado, ormai avvezzi.
Sulle vacanze non stavamo affatto scherzando
L’eliminazione per mano dei Golden State Warriors nelle scorse Semifinali di Conference ha lasciato l’amaro in bocca per quanto fatto vedere in Regular Season, ma avere la meglio su gente del calibro di Curry, Thompson, Durant e Green non è certo impresa facile, anzi. L’arrivo di George Hill, Boris Diaw e Joe Johnson in estate ha contribuito a creare quel mix di esperienza e freschezza di cui coach Quin Snyder aveva bisogno e i risultati non hanno tardato ad arrivare. Con Hill a gestire in prima persona le operazioni (16,9 punti di media in regular season, career high per lui) e l’accoppiata Iso Joe – Diaw (partito però 33 volte in quintetto, ma ci arriveremo) in uscita dalla panchina, la squadra era riuscita a trovare finalmente un’identità e, soprattutto, a macinare vittorie su vittorie. Non è certo un mistero che il successo degli Utah Jazz 2016/2017 fosse basato sull’ottima fase difensiva orchestrata da coach Snyder e il 102,7 fatto registrare alla voce “Defensive Rating” testimonia incontrovertibilmente la bontà del lavoro svolto dai Jazz nella propria metà campo, nella quale i ragazzi di coach Snyder sono secondi solo a Spurs e Warriors, che però possono vantare meccanismi difensivi con diversi anni di rodaggio alle spalle.
Potendo contare su delle individualità da sempre votate al sacrificio, Snyder ha avuto il merito di ricamare un’eccellente fase di non possesso su misura di Rudy Gobert, la vera e propria ancora difensiva dei Jazz. Se George Hill garantisce un più che discreto contributo anche nella propria metà campo, se Joe Ingles è un cliente scomodo per chiunque in possesso o meno del pallone e se Gordon Hayward sta assumendo sempre più i tratti distintivi del two-way player, è senza dubbio la torre francese la chiave di volta del muro eretto da Quin Snyder. Senza addentrarci in un’analisi troppo dettagliata sullo spilungone dei Jazz (che potete trovare qui), per il momento vi basti sapere che nel corso della stagione Gobert ha contestato ben 14,2 tiri a partita, convertiti con il 43,3% dagli avversari, una percentuale irrisoria se si considera che la stragrande maggioranza delle suddette conclusioni viene scoccata a pochi passi dal ferro. L’elevato numero dei tiri a cui Gobert si trova a dover far fronte ogni sera è la dimostrazione dell’importanza del francese nella metà campo dei Jazz: i suoi compagni possono permettersi una marcatura stretta con gli esterni avversari, dato che, nel caso in cui riescano a battere il diretto marcatore dal palleggio si ritroverebbero a collassare su uno rim protector d’eccezione (2,6 stoppate ad allacciata di scarpa).
Se Gobert rappresenta l’anima difensiva di questi Jazz, la crescita esponenziale di Gordon Hayward ha fatto sì che il prodotto di Butler diventasse il go-to-guy nella metà campo offensiva (anche in questo caso, per un’analisi più approfondita vi suggeriamo di andare a curiosare qui). I 15,8 tiri presi a partita da Hayward, convertiti con un ottimo 47%, rendono sufficientemente l’idea dell’importanza del nativo di Brownsburg negli schemi offensivi dei Jazz.
Tutto perfetto? Non proprio, dato che l’eccezionale quinto posto nella Western Conference ha portato in dote due serie dall’elevatissimo coefficiente di difficoltà. La prima, quella contro i Clippers, si è conclusa soltanto a Gara-7, con Chris Paul e compagni costretti ad alzare bandiera bianca in quello che forse, documenti e soprattutto contratti alla mano, era l’ultimo atto della (neanche troppo) Golden Age della franchigia di Los Angeles. Una volta archiviata, non senza fatica, la pratica Clippers, affrontare una delle squadre più talentuose di sempre ha fatto sì che l’avventura dei Jazz nei Playoff si concludesse con un brusco 4-0. La difesa, che come già detto costituiva il punto di forza della truppa di coach Snyder, non è riuscita a reggere l’urto dello strapotere offensivo di cui gli Warriors abusano: ne è una prova il Defensive Rating, che nei Playoff ha raggiunto quota 109,2 (che fai dei Jazz la decima squadra in questa graduatoria tra le sedici che hanno avuto accesso alla postseason), con un picco di 114,1 punti concessi nel corso della serie contro i vice-campioni NBA.
Certo, forse era lecito attendersi qualcosa di più da Gobert (i cui 6,2 assist dal blocco, dato che faceva di lui il leader di questa particolare classifica in regular season, si sono drasticamente ridotti a 3,3 nel corso dei Playoff, 0,2 in meno di Cristiano Felicio tanto per fare un esempio) e dallo stesso Hayward, reo di essersi concesso qualche pausa di troppo contro gli Warriors, ma era obiettivamente difficile chiedere di più ad una squadra che non poteva certo vantare, eccezion fatta per qualche giocatore, il palmares e l’esperienza ai playoff dei diretti avversari. Una stagione come quella appena trascorsa potrebbe comunque rappresentare un ottimo punto di partenza per i giovani Jazz, che con qualche serie di playoff alle spalle e i giusti innesti potrebbero affrontare la prossima post-season con una marcia in più. Tuttavia, se in apertura si faceva riferimento alla dura estate che attende il GM Lindsey vuol dire che c’è qualcosa, o meglio qualcuno, che potrebbe rovinare i sogni di gloria a lungo termine della franchigia di Salt Lake City. Come potrete forse immaginare, quel qualcuno risponde al nome di Gordon Daniel Hayward.
Con l’esplosione andata in scena la scorsa estate di un Salary Cap destinato ad aumentare ulteriormente tra qualche settimana, la stragrande maggioranza di coloro che leggeranno questo pezzo, se potesse mettersi nei costosi panni di Hayward, rinuncerebbe a quella “misera” player option di quasi 17 milioni di dollari, anche se con tutta probabilità la cifra in questione basterebbe per potersi permettere le già citate faraoniche vacanze per diversi decenni. Dando per scontato che Hayward uscirà dal contratto per sondare il mercato, le probabilità che il numero 20 decida di prolungare il suo soggiorno nello Utah sono decisamente basse. I motivi sono diversi: in primo luogo, rispetto alle altre città del panorama NBA, Salt Lake City non è esattamente il luogo ideale in cui vivere, e se agli Warriors è bastata qualche trasferta nello Utah per capirlo state pur certi che dopo sette anni di permanenza Hayward è perfettamente in grado di scrivere trattati su trattati sulla discutibile movida della capitale dello Utah. Sempre per lo stesso motivo, dalla fondazione della franchigia non si hanno notizie di ambitissimi free agent che hanno scelto portare i propri talenti a Salt Lake City, preferendo le montagne dello Utah alle spiagge di Miami (South Beach vi dice qualcosa?), alle copertine di Los Angeles o al fascino di New York. Di conseguenza, Hayward potrebbe trasferirsi in un contesto vincente o comunque più promettente in quanto, in un’era cestistica dominata dai superteam, difficilmente i Jazz riusciranno a fare grossi passi avanti nel breve periodo.
L’unico motivo per cui realisticamente Hayward avrebbe potuto scegliere di rimanere nello Utah è quello economico, ma la mancata nomina in uno dei quintetti NBA fa sì che allo stato attuale Hayward non possa avvalersi della Designated Player Veteran Exception, che avrebbe portato nelle sue tasche poco meno di 210 milioni di dollari in cinque anni. Stando così le cose, i Jazz possono offrirgli cinque anni di contratto al massimo salariale, per un totale di 176 milioni di dollari complessivi, a differenza di qualsiasi altra franchigia, che potrebbe mettere sul piatto un quadriennale da 131 milioni, il che fa sì che la permanenza nello Utah perda inevitabilmente quell’appeal garantitogli dal fiume di dollari previsto dalla DPVE.
Con i Celtics (che puntano anche Paul George e Jimmy Butler, per i quali dovrebbero però sacrificare la prima scelta al prossimo Draft o qualche altra pedina di spessore) in prima linea e molte altre squadre pronte a fare carte false per assicurarsi le sue prestazioni, sembra onestamente difficile che Hayward decida di restare a Salt Lake City, a meno che non decida di firmare un annuale con opzione nella speranza di poter beneficiare della DPVE con un anno di ritardo.
Altra situazione spinosa in casa Jazz è quella che riguarda George Hill. L’ex Indiana Pacers è reduce da un’ottima stagione in quel di Salt Lake City, ma i problemi fisici che lo hanno costretto a dare forfait nelle partite decisive contro Golden State sono costati carissimo a Gobert e compagni. Tra qualche settimana Hill sarà libero di ascoltare le offerte delle trenta squadre della Lega per poi decidere dove accasarsi. È probabile che, con le cifre folli della free agency, Hill riesca a strappare un contratto molto più vantaggioso di quello attualmente in essere, ma bisognerà vedere se saranno i Jazz a concederglielo. In caso di permanenza di Hayward, offrire un sontuoso nuovo contratto a Hill potrebbe limitare notevolmente la flessibilità economica della franchigia, ma anche se Hayward dovesse partire, alla luce di una condizione fisica non eccezionale e di una carta d’identità che inizia ad essere un peso, il front office dei Jazz dovrà valutare attentamente se ricoprire di dollari il nativo di Indianapolis sia la scelta giusta per una franchigia in rampa di lancio. Un discorso simile può essere fatto per Joe Ingles: il coltellino svizzero dei Jazz non vede l’ora di battere cassa dopo una stagione di altissimo livello e tanti anni di vacche magre economicamente parlando. Volendo fare una stima del suo potere contrattuale, è molto probabile che Ingles si ripresenterà ai nastri di partenza della prossima stagione con un contratto in doppia cifra, ma anche in questo caso bisognerà vedere se il giocatore preferirà migrare verso altri lidi e se la dirigenza dei Jazz avrà intenzione di fare un investimento del genere su un giocatore esploso nel suo contract year: Bismack Biyombo docet.
Eh sì Joe, finalmente potrai permetterti anche tu le vacanze di Gobert!
Capitolo Alec Burks: il ragazzo ha ancora due anni di contratto garantiti a oltre 10 milioni di dollari a stagione. Decisamente troppi per un elemento ormai ai margini delle rotazioni, per il quale Lindsey dovrà cercare una squadra disposta ad accollarsi il suo contratto. Stessa sorte toccherà probabilmente anche a Derrick Favors: l’eterna promessa dei Jazz è reduce da una stagione decisamente negativa, durante la quale ha accusato diversi problemi fisici che ne hanno condizionato il rendimento. Il front office dei Jazz sarà senza dubbio disposta ad ascoltare tutte le offerte e con tutta probabilità cercherà di rimpiazzarlo con un lungo con caratteristiche diverse. Da valutare anche il futuro di Boris Diaw, sul cui futuro i Jazz possono esercitare una team option da 7,5 milioni di dollari. Anche in questo caso, Lindsey dovrà riflettere attentamente sul valore economico di un trentacinquenne dall’indiscutibile tasso tecnico ma poco futuribile: è difficile pensare che un classe 1982 possa spostare da titolare gli equilibri di una franchigia ambiziosa e in ascesa come quella dei Jazz. A prescindere da chi sarà il playmaker titolare, Shelvin Mack ha dimostrato a suon di prestazioni di potersi meritare la riconferma in squadra, a patto che le sue richieste economiche non siano ritenute eccessive dalla dirigenza: in ogni caso, anche in previsione della probabile partenza di Burks, una delle due scelte a disposizione di Lindsey (le numero 24 e 30) al primo giro dell’imminente Draft verrà probabilmente spesa per assicurarsi le prestazioni di un esterno, data la profondità di questa Draft class nel reparto guardie.
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Con tanti giocatori chiave in bilico tra il denaro, la gloria e l’attaccamento alla squadra, la prossima estate sarà decisiva per le sorti dei Jazz, non solo nel breve periodo. Se Lindsey riuscirà a riconfermare il core di questa stagione, magari con l’ingaggio dei giusti innesti, il pubblico di Salt Lake City potrà ritrovare un entusiasmo simile a quello che serpeggiava nello Utah fino ad una ventina di anni fa, quando i leggendari Jazz di Stockton e Malone lottavano quasi alla pari con i Bulls di Michael Jordan. Attualmente è difficile prevedere uno scenario del genere, ma non bisogna dimenticare che, in fondo, parafrasando Pascal, il cuore ha delle ragioni che la free agency non conosce.