Primo Piano

Il Pagellone del Mercato NBA: posizioni 18-13

15 • UTAH JAZZ, Voto: 6

di Jacopo Gramegna 

 

Non è stata assolutamente un’estate semplice per i Jazz. Quin Snyder -che ha lavorato incessantemente per tre stagioni con l’intento di costruire un sistema che portasse i mormoni ad ergersi tra le migliori squadre della Western Conference- dovrà ripartire da una squadra che ha perso ben due delle sue certezze. Salutare nella stessa estate,via free-agency,  sia il giocatore-franchigia (Gordon Hayward) che la vera chiave di volta della scorsa eccellente stagione disputata dai Jazz (George Hill) è un colpo durissimo, ma i Jazz non si sono fatti trovare completamente impreparati.

Il mercato dei Jazz è stato mirato a riparare i gravissimi danni portati da queste due perdite, riponendo il futuro della franchigia in un mix di giovani, giocatori in cerca di riscatto e role player. Già a partire dalla notte del Draft, i Jazz si sono mostrati reattivi e con le idee ben chiare: aggiungendo Trey Lyles alla scelta numero 24 in loro possesso sono riusciti a scalare ben undici chiamate, portando a casa Donovan Mitchell con la scelta numero 13 originariamente di proprietà dei Denver Nuggets. Mitchell era uno dei profili in maggiore ascesa nei Mock Draft, ed è un profilo estremamente interessante per il sistema di Snyder: molto energico sui due lati del campo, versatile in attacco, atletico e con un tiro da tre migliorabile, ma non eccessivamente sotto media (35.4 % nell’ultima stagione a Louisville). Un prospetto che sembra una manna dal cielo per una squadra che perdendo Hayward si è vista privata del proprio faro offensivo, nonché del proprio miglior difensore sugli esterni. Oltre a Mitchell, dal Draft sono giunti un lungo con un ottimo upside: Tony Bradley, centro con le mani piuttosto educate da UNC, ed uno dei migliori giocatori dello scorso torneo NCAA: Nigel Williams-Goss. Un draft molto positivo per una squadra che aveva, probabilmente, già il sentore di dover vivere una durissima estate. Subito dopo il draft è sbarcato nello Utah anche Ricky Rubio, ottenuto dai T-Wolves per la “miseria” di una scelta protetta in top-14. Tutto da testare il fit di Rubio con il sistema di Snyder: i Jazz sono stati ultimi per Pace nella scorsa stagione, caratteristica non propriamente adatta al playmaker spagnolo, che ama correre il campo senza far schierare la difesa per poter sprigionare la propria fantasia creativa ed evitare di veder esposti i propri arcinoti limiti al tiro. Se replicasse le ottime percentuali con cui ha chiuso la scorsa stagione, Rubio avrebbe buone possibilità di imporsi alla guida dei Jazz, anche proponendoci una regia ed un’applicazione difensiva ben diverse da quelle di Hill.

In campo aperto, però, Rubio fa segnare persino Anthony Bennett.

Vista la mancanza di certezze sulla capacità dei nuovi arrivati di incastrarsi nel puzzle, la dirigenza dei mormoni ha scelto di evitare ulteriori danni rifirmando a 52 milioni per quattro anni Joe Ingles, tassello molto importante nel sistema-Snyder. Un rinnovo caro ma inevitabile per una franchigia che non sembra avere intenzione di ripartire da zero. Nello Utah sono anche sbarcati con dei biennali Thabo Sefolosha, Jonas Jerebko e Ekpe Udoh, tre profili che incideranno in maniera diversa sulla franchigia: Sefolosha, firmato per la buona cifra di 10.5 milioni in due anni, è destinato ad ereditare un buon numero di minuti lasciati vacanti di Hayward, minuti che probabilmente spenderà da agente difensivo sul miglior esterno avversario cercando anche di trovare continuità nel tiro da tre punti. Udoh, che guadagnerà 6.5 milioni nelle prossime due stagioni, ha molta voglia di riuscire ad imporsi a livello NBA dopo due stagioni dominanti in Europa: i Jazz sembrano seriamente la squadra migliore per assorbirne pro e contro, facendone un buon pezzo della macchina su entrambi i lati del campo. Jerebko, invece, copre definitivamente le necessità di rinfoltire il reparto-ali di Utah: un contratto da 8.5 milioni in due anni che non stravolge la situazione salariale e allunga la panchina dei Jazz.

Tra le partenze fanno poco rumore gli addii di Mack e Whitey, mentre è decisamente più doloroso il taglio di Boris Diaw: il francese porta via con sé la sua proverbiale indolenza e una passione smodata per il buon vino ma anche e soprattuto tanta intelligenza cestistica e la capacità di creare gioco per sé e i compagni, caratteristiche che avrebbero forse fatto comodo a coach Snyder.

Malgrado la difficilissima free agency, i Jazz hanno concluso un mercato dignitoso e non vogliono cedere la propria postazione-playoff nella sempre più competitiva costa Ovest: missione difficile ma non impossibile.
Quin Snyder ora è chiamato ad incanalare al meglio nel proprio sistema il materiale eterogeneo che, dopo questa travagliata estate, si trova per le mani.

 

14 • CHARLOTTE HORNETS Voto: 6,1

di Paolo Stradaioli

 

Coinvolti in quella che senza ombra di dubbio è la trade a più alto tasso di rischio di questa offseason gli Hornets escono per buona parte immutati da questa tonnara di trattative aggiungendo al core della squadra elementi che fino ad oggi si sono dimostrati un lancio di moneta.

Partiamo proprio da Dwight Howard: l’ex Superman non ha mai convinto nel suo ritorno alle radici di Atlanta e la domanda che circola da diversi anni negli ambienti NBA è se possa tornare ad essere un giocatore, se non dominante, quantomeno funzionale per una franchigia con ambizioni importanti. Ogni giorno che passa la risposta si avvicina ad un categorico “NO”, eppure a Charlotte hanno deciso di concedergli quella che rischia di essere l’ultima ghiotta occasione per lasciare un segno più marcato del suo passaggio nella lega.

Un segno diverso da questo è chiaro.

Per Howard e una seconda scelta all’ultimo draft (poi scambiata) gli Hornets hanno ceduto Miles Plumlee e Marco Belinelli (più la loro seconda scelta). È evidente che il prezzo di Howard non è più così inavvicinabile dal momento che né il centro from Duke né la guardia azzurra avevano un ruolo chiave nelle rotazioni di coach Clifford. Probabilmente ha pesato molto proprio la volontà di Clifford di insistere su questo gruppo, dal momento che il contratto di Howard toglie ogni tipo di elasticità al payroll della squadra per le prossime due stagioni. Dalle parti di Charlotte sperano che Howard si riveli quella presenza torreggiante sotto le plance che servirebbe per fare un salto di qualità troppo a lungo rimandato. Rimanendo quindi incerti sulla bontà di questa trade c’è da segnalare l’ottima presa in sede di draft che risponde al nome di Malik Monk. Il prodotto di Kentukcy era pronosticato leggermente più in alto della 11 degli Hornets, ma alla fine la soluzione potrebbe sorridere ad entrambe le parti. Le innate qualità al tiro sono abbinate ad un set di movimenti senza palla difficile da trovare in altri rookie e l’unica stagione di college ha mostrato anche lampi di discreto atletismo.

La postura non è elegantissima e anche il movimento va un po’ sgrezzatto, ma questo è un tiratore vero.

Insomma probabile che inizialmente occuperà i minuti di Belinelli con la speranza che possa diventare un’arma più completa nel futuro prossimo (palla in mano non fa sempre la cosa migliore e gli istinti difensivi non sono incoraggianti). Infine era importante trovare un’alternativa solida per dare respiro a Kemba Walker, ma evidentemente vanno più in voga le scommesse in North Carolina. È vero che si tratta di un annuale al minimo però non sembra essere Michael Carter Williams l’alternativa migliore per la point guard titolare. Senza una dimensione accettabile al tiro, con un passato clinico e psicologico che lo hanno ridotto a decente passatore e nulla più, rischia di essere già al tramonto la carriera di MCW. Sarebbe bello se Clifford gli donasse nuova linfa, magari rendendolo un difensore di livello (i mezzi fisici e atletici non mancano) per supplire alle mancanze di Kemba nella propria metà campo.

Posto che quando gioca sereno è ancora un buon utilizzo del League Pass.

Con tutti i vari Walker, Batum, Kidd-Gilchrist rimasti alla base la franchigia di Michael Jordan ha quasi il dovere di occupare uno degli otto slot validi per i playoff (vista anche la penuria di talento ad Est) ma quanto più in là possa spingersi questo organico non è dato saperlo. Certo se Clifford trovasse la chiave di volta per sbloccare Howard…

 

13 • MIAMI HEAT Voto: 6,4

di Alberto Mapelli

 

Provarci di nuovo con la stessa sporca dozzina. Questa è sostanzialmente la missione che l’estate ha affidato a coach Spoelstra con la differenza che l’impoverimento della Eastern Conference sembra mettere i Miami Heat tra le ipotetiche squadre da playoff. Avevamo lasciato i Miami Heat alle prese con la delusione per aver mancato l’aggancio all’8° posto all’ultimo sprint in favore di Chicago e Indiana. Proprio queste squadre hanno perso per strada le loro stelle (Butler e George) mentre Miami ha confermato il blocco che ha stupito lo scorso anno. Tuttavia hanno raggiunto una sufficienza risicata nella nostra speciale classifica, come mai? Andiamo a scoprirlo.

Partiamo dalla delusione dell’estate per Riley e Spoelstra. Gli Heat erano infatti una delle tre squadre accreditate per accaparrarsi i talenti di Gordon Hayward insieme ai Jazz e ai vincitori Celtics. L’incontro tra Riley e GH sembrava però aver dato buoni frutti e i giorni di confusione e di rumors testimoniano l’indecisione che si era istillata nella mente del prodotto di Butler. La versatilità dell’ex Jazz avrebbe dato un grosso contributo e sicuramente Spoelstra sarebbe stato in grado di costruire attorno a lui una squadra davvero intrigante. La stella che manca agli Heat dall’addio di Wade stenta ad arrivare e questo rappresenta un malus nella valutazione della post-season dei Miami Heat.

Altri tempi, altri tipi di mercato…

Dicevamo poi che i cagnacci di Miami sono stati confermati tutti, ma a che prezzo? Oggettivamente spropositato. I contratti firmati da Waiters (quadriennale da 47 milioni di $) e, soprattutto, James Johnson (stessa durata, 60 milioni complessivi) ripagano l’esplosione vissuta l’anno passato ma ingolfano inesorabilmente il salary cap dei Miami Heat dei prossimi anni, impegnato anche dai contratti di Dragic e Whiteside. Se poi aggiungiamo la firma di Kelly Olynyk, free agent adattissimo alla mentalità combattiva fiorita a South Beach ma a cifre non consone al talento posseduto dall’ex Boston (4 anni al modico prezzo di 45 milioni mal contati) e il rinnovo di Tyler Johnson che scatterà dalla stagione 2018/2019 comprendiamo come il core degli anni futuri è stato consolidato. La fiche Pat Riley l’ha puntata sulla crescita complessiva di un gruppo che vede presenti anche Winslow, Ellington e il veterano Haslem. Un gruppo che ha stupito e che potrebbe stupire ancora, grazie al lavoro maniacale di uno dei migliori allenatori in circolazione.

Fino al 2020-2021 oltre i 100 milioni garantiti per firmare Olynyk e Johnson…

L’unica presa arrivata dal draft è quella di Edrice “Bam” Adebayo , esplosivo lungo afroamericano che punta a ritagliarsi spazio come back-up di Hassan Whiteside e dalle caratteristiche molto simili al dominatore dell’area degli Heat. Qualità aggiuntiva però risulta essere una sorprendente velocità negli scivolamenti laterali per un ragazzone di questa taglia e che potrebbe renderlo un prospetto interessante, dopo i dovuti sgrezzamenti nella metà campo offensiva in cui è limitato al gioco sopra il ferro.

Tutto sommato la franchigia della Florida ha il merito di non essersi indebolita, un pregio nel panorama desolante dell’Est in cui solo poche franchigie sono riuscite a non vedere depredato il proprio arsenale delle frecce più pericolose. Per tutto il resto ci penserà coach Spoelstra. Con la stessa, sporca dozzina.

 

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NbaReligion Team

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