Sin dal suo approdo nella NBA, all’alba della stagione 2011-12, Kyrie Irving è riuscito a calamitare su di sé una quantità di attenzioni tale da risultare spropositata, anche in un’era in cui gli spettatori vengono bombardati giornalmente da decine di informazioni più o meno utili sui propri beniamini. Il curioso mix di avvenimenti capitatigli, di talento purissimo, traguardi raggiunti e di dichiarazioni controverse, lo ha reso in brevissimo tempo uno dei giocatori più mediatici della lega. Le possibilità di estrapolare dalla vita di Irving una buona sceneggiatura hollywoodiana sarebbero ottime: la perdita della madre in tenerissima età, l’infanzia trascorsa in Australia allevato dai parenti, il miracoloso modo in cui suo padre è sfuggito alla morte l’11 settembre 2001 e la sua scelta con la prima pick del Draft 2011 malgrado il serio infortunio che non gli ha permesso di giocare più di 11 partite a Duke sono elementi che basterebbero a coinvolgere anche il più arido degli spettatori occasionali.
Se un vissuto tanto intenso incontra uno dei talenti più fulgidi del terzo millennio ed una delle lingue più affilate della lega, il risultato non può che essere polarizzante. Kyrie, non a caso, è uno dei giocatori che più divide le opinioni sia degli appassionati che degli addetti ai lavori: che si parli della sua incredibile vita o che si dibatta tra la sua capacità di essere decisivo nei momenti che contano e la sua presunta incapacità di essere una stella assoluta, Irving è sicuramente in grado di far parlare di sé.
Se già nello scorso febbraio l’intera lega era stata scossa profondamente dalle sue dichiarazioni dalle sfumature complottiste, immaginate quale può esser stata la reazione del mondo NBA quando, esattamente un mese fa, è trapelata la notizia che affermava la volontà di Irving di esser ceduto dai Cleveland Cavaliers. A rendere deflagrante una situazione già di per sé bollente, ci hanno pensato le voci immediatamente successive: innanzitutto ha fatto scalpore la presunta lista di team che il nativo dell’Australia avrebbe selezionato come le sue “destinazioni preferite”, poi abbiamo scoperto che Irving aveva chiesto la cessione addirittura prima del Draft, successivamente abbiamo appreso che LeBron James sarebbe stato ben felice di mettergli le mani addosso e che l’ex numero 2 dei Cavs non avrebbe rivolto la parola ai suoi compagni a lungo durante gli scorsi playoff, prima di reclamare a gran voce una squadra che non lo costringesse a risplendere di luce riflessa. Malgrado dallo spogliatoio di Cleveland non emergesse un quadro idilliaco della point-guard da Duke, l’intera lega si è mobilitata per prenderlo: alcune voci riportano come circa venti squadre NBA abbiano presentato un offerta ai Cavs per poter ottenere le prestazioni di Irving.
“Ehi NBA, io vorrei cambiar squadra”.
Che piaccia o meno,infatti, a soli 25 anni Irving è già uno di quei giocatori che vale la pena di provare a prendere non appena si apre uno spiraglio di mercato su di loro: è già un campione NBA, una medaglia d’oro olimpica, un campione mondiale (competizione vinta da MVP), un MVP dell’All Star Game e del Rookie Game, il Rookie dell’anno 2012 ed un vincitore del 3-point contest. E il Palmarès non racconta neanche lontanamente la sua capacità di vivere i momenti topici delle partite da protagonista assoluto.
Anche nella Baia ne sanno qualcosa.
Per circa un mese, quindi, ci si è chiesti quale fosse la destinazione più adatta per Irving : ogni giorno abbiamo letto notizie di diversi team che “facevano sul serio” per lui e, proprio quando sembrava che la bolla di speculazioni attorno a questa faccenda stesse per scoppiare, i Celtics sono riusciti a prenderlo nella notte tra il 22 ed il 23 agosto a seguito di una trattativa lampo, spedendo in Ohio un pacchetto extra lusso che comprendeva Isaiah Thomas, Jae Crowder, Ante Zizic e la prima scelta di Brooklyn del 2018: un agglomerato che permette di capire quale sia lo status attuale di Irving nella lega. La successione tra voci,conferme e ufficialità è stata tanto repentina da spiazzare chiunque, sollevando una serie di domande al quale solo il tempo potrà trovare delle risposte. In questo articolo ci preoccuperemo di provare a rispondere ai quesiti riguardanti la metà bianco verde della trade: Irving è il giocatore giusto per rendere i Celtics una squadra davvero da titolo? Come si integrerà nel sistema-Stevens? Boston è il posto giusto per permettere ad Irving di scacciare i propri fantasmi?
Sky is the limit
Danny Ainge è solito compiere mosse nette e decise: in questo caso l’occasione era troppo ghiotta per non provare a capitalizzare un lavoro durato anni che ha già portato in questa estate Gordon Hayward a Boston. “Kyrie Irving è una stella e le stelle vincono i titoli”: questo era il titolo di un articolo pubblicato da Marc D’Amico sito dei C’s. Il GM dei Celtics ha deciso di rompere finalmente gli indugi, sacrificando un asset di valore assoluto (la scelta dei Nets), un giovane su cui sembrava puntare, uno dei migliori 3 & D della lega per rendimento e contratto ed il miglior Celtic della passata stagione per assicurarsi un venticinquenne che è già un perennial All Star e che ha dato spesso l’impressione negli ultimi mesi di vivere la convivenza con LeBron James come una sorta di camicia di forza che ne frustrasse la definitiva esplosione. Irving giunge a Boston con un contratto eccellente -in relazione alla qualità del giocatore- in scadenza 2019: circa 19 milioni annui (con player option che quasi sicuramente verrà declinata per il 2019-20). Allo stesso tempo la franchigia del Massachusetts –forse anche aiutata da un noto problema all’anca accusato durante gli ultimi Playoff- rinuncia alla difficilissima scelta legata a Thomas ed al suo probabile max-contract, cedendo una scelta importante ma mantenendo comunque saldamente il possesso della scelta non protetta dei Lakers nel prossimo draft. Malgrado il carissimo prezzo pagato, in pochi possono negare che, da solo, Irving è capace di donare a Boston una pericolosità in zona-Finali di Conference sconosciuta ai bianco-verdi dai tempi di Pierce, Allen e Garnett. Il nuovo ed intrigante core composto dall’ex Cavs, Gordon Hayward , Al Horford e dai giovani Jaylen Brown, Jayson Tatum e Marcus Smart, guidato dal mai troppo celebrato Brad Stevens, può davvero dar battaglia a Cleveland nella prossima stagione per la vetta dell’est. L’elemento straordinario dell’aggiunta dei C’s è che l’entusiasmo attorno ad Irving non viene minimamente smorzato neanche attraverso il confronto statistico con Thomas. Nonostante le dimensioni davvero ridotte, IT nella passata stagione è stato un giocatore migliore di Irving: ha segnato di più (28.9 punti a partita contro 25.2), realizzato un numero analogo di assist (6 contro 5.9) e di rimbalzi (2.7 contro 3.3), risultando anche più efficiente (122 di offensive rating contro 116) con uno usage non estremamente più alto (34 contro 30). Irving, però, è più giovane e dà costantemente la sinistra idea di poter diventare un giocatore ancora migliore di quello che già: è dotato del miglior ball-handling al mondo, la sua abilità di chiudere nel traffico con entrambe le mani è già ineguagliabile e si ha la sensazione che possa trovare ancora maggiore continuità al tiro pesante (nella scorsa stagione comunque sopra il 40%) semplicemente migliorando le scelte di tiro.
Sul ball-handling nessun dubbio.
A Boston Kyrie trova un sistema che,probabilmente, potrà dargli la possibilità di lavorare meno con la palla in mano lasciandone intatta la pericolosità offensiva: Hayward e Horford possono sopperire alle sue lacune nel playmaking puro e permettergli di prendere meno tiri dopo un numero estenuante di palleggi, consentendogli probabilmente di gestire i palloni a propria disposizione con maggiore lucidità. Il sistema difensivo di Stevens,seppur orfano di Avery Bradley, sembra poi attrezzato per assorbire di buon grado i suoi blackout: se i Celtics sono riusciti ad arrivare in finale di Conference pur avendo un enorme target difensivo come Thomas, niente ci porta a credere che non possano giocarsi alla pari un’eventuale finale con Cleveland con un difensore sotto media ma di una taglia più “normale” come Irving. Smart, Hayward e Brown potranno alternarsi sugli esterni avversari più pericolosi, lasciando ad Irving la possibilità di arrivare maggiormente sereno e riposato nella metà campo offensiva, pronto a sprigionare il suo terrificante arsenale di crossover, penetrazioni, circus shot e tiri dal palleggio. Inoltre, Irving porta a Boston una cattiveria nei finali di partita non rintracciabile in nessun giocatore bianco-verde. Quando la palla peserà, si andrà da lui senza se e senza ma: è quello che aspettava da una vita. E probabilmente il Kyrie che vedremo con la numero 11 di Boston sarà un giocatore troppo forte ed affamato per lasciarsi scappare la possibilità di incidere.
Genio ribelle
Boston si augura che Brad Stevens sia per Kyrie Irving ciò che Robin Williams è per Matt Damon in “Good Will Hunting” Credit to Mentalfloss
Ai giardini pubblici di Beacon Hill, a Boston, c’è una panchina che viene religiosamente venerata: è quella su cui il compianto Robin Williams e Matt Damon hanno girato alcune delle più famose scene di “Good Will Hunting”. Come il professor Sean McGuire con il genio ribelle Will, Brad Stevens ha bisogno di portare idealmente Kyrie Irving su quella panchina per calmierare i suoi bollenti spiriti ed indirizzare il suo talento e le sue ambizioni personali nella giusta direzione: quella che dovrebbe rendere Boston una squadra da titolo. Stevens dovrà essere capace di immergere Irving nel suo nuovo status, quello di stella se possibile ancor più fulgida, epurando le tossine derivanti dal suo ego che cerca smodatamente una nuova affermazione. Il rischio che Irving venga rigettato da un sistema che ha subito numerosi cambiamenti nel recentissimo passato non è da trascurare: la sua tendenza ad isolarsi emotivamente dal resto dello spogliatoio non depone a suo favore e la sua voglia di uscire costantemente dallo spartito potrebbe fare il resto. Aver sacrificato Thomas, leader delle ultime due stagioni e mezzo, un pezzo fondamentale sui due lati del campo come Crowder e due asset importanti per provare ad essere subito competitivi comporterà, però, responsabilità diffuse che poggeranno anche sulle spalle di Jaylen Brown e Jayson Tatum, chiamati ad essere subito performanti nella rotazione dei Celtics: questo elemento, sommato alla cessione di Bradley (a seguito della quale sarà Smart a dover alzare il proprio livello) potrebbe far pensare che, forse, a Boston si avrà bisogno di qualche mese per riassestare gli equilibri e lanciare l’assalto al trono dell’Est detenuto da King James. In ogni caso l’offensiva Celtics passerà, senza mezzi termini, dagli umori e dal rendimento di Irving.
Finale obbligata
Se già ben prima dello scambio erano in pochi a prefigurarsi una finale dell’Est diversa da Celtics-Cavs, adesso le opinioni sono unanimi: non si scappa da questi due nomi per scegliere l’eventuale contendente dei Golden State Warriors. Che lo spostamento di Irving possa essere sufficiente a garantire a Boston la finale è NBA è opinabile, in ogni caso la possibilità di assistere a delle finali di Conference più combattute è sensibile, così come è sensibile la possibilità che la squadra vincente di una serie lunga e dura tra le due squadre possa arrivare con poche energie allo show down finale con i campioni dell’Ovest.
Le carte sono in tavola: entrambi i finali sembrano allettanti. Che Irving metta il tiro decisivo in finale contro la sua ex squadra o che si debba arrendere allo strapotere di LeBron James, una cosa è chiara: questa trade ha ridisegnato gli equilibri di un’intera conference, rischiando di relegare ben tredici squadre al ruolo di figuranti di lusso.
Maggio è ancora lontano, ma se vogliamo un assaggio della battaglia che infiammerà la East Coast ci basterà aspettare solo fino al 17 ottobre.