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Sessanta per uno

Kyrie Irving e Isaiah Thomas, due destini incrociati fin dal Draft 2011. Il primo e l’ultimo. Come nelle migliori serie TV, Cavaliers e Celtics ci hanno regalato un colpo di scena magistrale. Qualcuno si aspetta il lieto fine?

Il 23 giugno 2011, al Prudential Center di Newark, New Jersey, si teneva il Draft NBA. Kyrie Irving rimase seduto solamente per poco tempo al proprio tavolino. Il commissioner David Stern chiamò subito il suo nome, scelto dai Cleveland Cavaliers del post-LeBron alla #1.

David Stern e Kyrie Irving al Draft NBA 2011. (Credits to: www.espn.com, via Google)

Isaiah Thomas dovette invece aspettare 59 nomi, prima di sentire il proprio, chiamato alla #60 dai Sacramento Kings (da Chicago, via Milwaukee).

Cinquantanove cestisti nominati prima di lui, compresi:

  • #56, Chukwudiebere Maduabum, nigeriano. Da allora ha giocato in D-League, Estonia, Qatar, Mongolia, Islanda, Finlandia e Giappone (esistono campionati di basket proprio ovunque).
  • #57, Tanguy Ngombo, congolese naturalizzato qatariota. Ha continuato a giocare in Qatar. (Pare che, ai tempi del Draft, avesse 5 anni in più di quelli dichiarati. #vino [cit.])
  • #58: Ater Majok, sudanese con cittadinanza libanese, naturalizzato australiano. (Questa storia delle migrazioni gli è decisamente sfuggita di mano.) Dal 2011 ha giocato in Slovacchia, Corea del Sud, Germania, D-League, Polonia, Cina e Libano.
  • #59: Adam Hanga, ungherese (ungherese e basta). Dopo il Draft 2011 ha giocato in Spagna e Italia (Avellino). Ha appena firmato al Barcellona.

Thomas invece ha giocato solo in NBA. Ha vinto due volte il premio di rookie del mese (marzo e aprile 2012), è stato inserito nell’All-Rookie second team del 2012, è stato due volte All-Star (2016, 2017) e una volta nell’All-NBA second team (2017).

Quest’anno giocherà con il più importante cestista in attività degli ultimi 15 anni, in una contender per il titolo.

Isaiah Thomas che pensa: «Ah, quindi io valgo una SESSANTESIMA chiamata al Draft? Sicuri?». Lo “Steal of the Draft” più attuale che ci sia. Photo credits to: www.si.com

Ma la NBA non è una storia a lieto fine.

Non può esserlo. C’è troppa competizione: 30 squadre, ma un solo trofeo (29 sconfitti, quindi), 400 e passa giocatori, ma un solo MVP. Pochi vincitori, moltissimi sconfitti. E la NBA non sono le Olimpiadi, non conta partecipare.

Che poi, diciamocelo. Qualcuno crede ancora che alle Olimpiadi conti solo partecipare?

La NBA non può essere una storia a lieto fine. Nelle storie a lieto fine contano i valori, i desideri, l’amore. In NBA contano i soldi. State pensando al successo, alla gloria, alla passione? Teneteveli buoni per i film.

La NBA non è una storia a lieto fine?

Ditelo a Shaun Livingston, allora. Che, dopo aver rischiato l’amputazione di una gamba, è finito nella squadra più dominante degli ultimi anni. Vincendo pure due anelli.

Ma ditelo – allora – anche a Tracy McGrady. Ha incantato i tifosi di mezzo mondo, ma non è mai arrivato a giocare i Playoffs quando contano. Colpa della sua schiena dolorante? Degli infortuni di Yao? Se la NBA fosse una storia a lieto fine, un anello al dito – almeno uno – lo avrebbe.

La NBA non è una storia a lieto fine?

Beh, ditelo alla dynasty dei Boston Celtics degli anni ’50-’60, con 11 titoli in 13 anni.

Ma quella non è una storia a lieto fine. È un incubo per tutti gli altri. Vincere così, poi, non dà neanche soddisfazione. È come giocare a 2K17 in modalità principiante, con i Warriors contro i Nets.

Se per voi la NBA è una storia a lieto fine, allora ditelo anche ai Portland Trail Blazers del 2007. Avevano in mano un potenziale Big Three da sogno, ma le ginocchia di Brandon Roy e di Greg Oden non credevano – neanche loro – al lieto fine. Con buona pace di LaMarcus Aldridge e di tutto l’Oregon.

LaMarcus Aldridge, Greg Oden, Brandon Roy. (Credits: www.sixfouls.com, via Google.)

La NBA non è una storia a lieto fine?

Se non lo è, allora ditelo a Sua Maestà Aerea Michael Jordan.

Ben sei Larry O’Brien da protagonista, svariati premi individuali, gloria eterna e un patrimonio da sceicco lo hanno reso uno dei nomi – e dei marchi – più riconoscibili al mondo.

Però, allora, ditelo anche a Len Bias, selezionato con la seconda chiamata assoluta al Draft 1986 e morto due giorni dopo per una notte troppo… Ah, ditelo anche ai suoi genitori e ai suoi amici.

Come fa la NBA a essere una storia a lieto fine?

Di tutti gli eleggibili al draft, ne vengono chiamati 60. Di questi, alcuni non arriveranno mai a un parquet NBA. Per molti di quelli che ci arriveranno, sarà solo una toccata-e-fuga. Di quelli che si ritaglieranno un posto in squadra, pochissimi arriveranno a vincere. Alcuni solo perché si sono trovati al posto giusto al momento giusto. (Chi ha detto “Adam Morrison“?).

Adam Morrison durante i festeggiamenti per il titolo NBA con i Lakers. Credits: ballnroll.com via Google

E se ancora siete convinti che la NBA sia una storia a lieto fine, arriva la trade Irving-Thomas a scardinare le vostre certezze.

Le dichiarazioni di Uncle Drew avevano già gettato ombre lunghe sulla vostra estate. Lui ha la fortuna di giocare con l’Iron Man della NBA, con il giocatore più rappresentativo della lega, con colui che è riuscito a redimersi dopo essere scappato a Miami alla faccia di essere “A kid from Akron”. Ha la fortuna di giocare con una stella che molto più di altre sa come coinvolgere i compagni… E se ne vuole andare per avere una squadra “sua”?

Kyrie Irving ha avuto spazio, è stato protagonista assoluto in partite che contavano. Pur giocando con LeBron James, quella era anche la sua squadra. Lui c’era in Ohio, mentre Il Prescelto sceglieva Wade, Bosh e le spiagge della Florida. Tutto ciò che Irving ha fatto per i Cavaliers gli era certamente riconosciuto.

Ma ha voluto essere il numero uno, ancora una volta. Manie di protagonismo? Sofferenza per il confronto con Il Re? Non tutti sanno essere Scottie Pippen.

Isaiah Thomas è una storia da film. Selezionato alla 60 dai Sacramento Kings (l’unica cosa intelligente che abbiano fatto negli ultimi 10 anni), si ritaglia spazio fino a diventare un punto di riferimento. Cresce con i Suns e ancora di più nei Celtics. Quella squadra che con lui voleva rinascere dalle proprie ceneri. Quella squadra con una canotta molto pesante, quel verde che chiede di sporcarsi di rosso sangue. Il fantasma del glorioso passato che ti chiede – no, non te lo chiede, è semplicemente nell’ordine naturale delle cose – di bleed green.

Isaiah Thomas (Credits: www.bostonglobe.com)

E lui l’ha onorata, quella divisa. Ha giocato i Playoffs da protagonista dopo aver perso la sorella in un incidente. Lui e i Celtics, e tutta Boston, sono arrivati a giocarsi la Finale di Conference proprio contro quei Cleveland Cavaliers. Non è andata, ma le premesse c’erano tutte per una gloriosa rivincita, per una sfida all’ultimo sangue, ancora una volta nel teatro delle Eastern Conference Finals.

Niente da fare. Non ci sarà nessuna nuova sfida, nessuna parabola ascendente di Thomas a Boston. La scelta di Irving non lo ha permesso.

Non sapremo mai se Isaiah Thomas saprà guidare alla gloria i nuovi Celtics. Non sapremo mai se James&Irving sapranno controbattere alla rivincita della rivincita (James&Irving… ah, ci sarebbe pure Kevin Love). Perché, anche se noioso come un’ennesima replica della “Signora in giallo“, un angolo del nostro cuore avrebbe voluto vedere ancora un’altra finale Warriors-Cavaliers. Oramai i cattivi sono diventati i Warriors e il cavaliere redento per cui parteggiare sarebbe stato senza dubbio King James, con il suo fido generale Kyrie Irving.

Già.

Sempre il secondo dopo James.

Forse Kyrie ha avuto ragione. Anche se ci sembra una pazzia.

Quelle dichiarazioni nel cuore dell’estate ci hanno fatto sperare in una botta di caldo, pensando che magari Kyrie non avesse seguito i consigli di Studio Aperto contro le insolazioni.

No.

La NBA non è una storia a lieto fine.

Derrick Rose non tornerà quello del 2011.

Karl Malone e John Stockton non vinceranno mai un anello.

Manu Ginobili non ballerà un ultimissimo tango, dopo l’ultimo tango.

Prendetene atto.

La NBA non è una storia a lieto fine.

È un dramma, dalla trama imprevedibile e guidata in larga parte dallo sporco più sporco dello sport: il vile denaro.

Eppure Kyrie Irving continuerà a farci saltare sulla sedia. Eppure continueremo ad amare quel folletto-non-più-verde che diventa un gigante nei momenti che contano.

Al Draft 2011 Kyrie Irving è stato scelto con la chiamata numero 1. Isaiah Thomas con la numero 60. Cavaliers e Celtics hanno provato a vedere cosa fa sessanta per uno.

La NBA non è una storia a lieto fine, ma soprattutto non segue le regole della matematica. Quanto fa sessanta per uno? Lo scopriremo solamente a fine stagione.

Kyrie Irving, Isaiah Thomas

Dello stesso autore (@AlessBonfa):

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Pubblicato da
Alessandro Bonfante

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