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Kemba Walker, il leader che passa inosservato

Una delle situazioni più frustranti per un giocatore NBA, al di là dell’importanza che nella mentalità sportiva americana viene data alle prestazioni individuali, è quando a una propria performance mostruosa non corrisponde la vittoria della squadra. A Kemba Walker è successo il 17 novembre, serata in cui ha messo dentro 47 punti nel canestro dei Chicago Bulls, avvicinandosi a solo cinque lunghezze dal suo career high (52 contro gli Utah Jazz il 18 gennaio 2016). In tale occasione, la point guard degli Charlotte Hornets ha tirato con il 55,6% da tre (5/9) e con il 63% dal campo (17/27), valori che salgono a 72,2 se si considera la effective field goal percentage e a 75,9 di true shooting percentage. Statistiche notevoli, che però non sono valse il successo: gli Hornets, infatti, sono usciti sconfitti 123-120 dal parquet dei quest’anno derelitti Bulls, la sesta sconfitta consecutiva di una striscia che poi si è conclusa lì, ma che ha pesantemente segnato in negativo il mese di novembre per la franchigia del North Carolina.

Fasciarsi troppo la testa per un record di 8-12 dopo un mese e mezzo di regular season è sicuramente eccessivo, perché Charlotte ha indubbie possibilità di agguantare uno degli otto posti validi per i playoff, in una Eastern Conference molto aperta verso il basso. Però, visto che si parla di frustrazione, la storia recente degli Hornets – reduci da una stagione 2016-17 piuttosto deludente (36-46) in cui non sono riusciti a dar seguito agli importantissimi progressi dell’annata ancora precedente (48-34 ed eliminazione a gara-7 del primo round contro i Miami Heat di Dwyane Wade) – denota una certa tendenza al tradimento delle aspettative e non fa dormire sonni tranquilli ai “Calabroni”, tornati tali nel 2014 dopo l’infelice parentesi Bobcats, caratterizzata da due sole post season in dieci anni, in entrambi i casi finite con lo sweep al primo turno, oltre all’onta della peggior percentuale di vittorie mai registrata da una squadra NBA, il 7-59 della stagione 2011-12 (10,6% di wins), quella ridotta per il lockout e che inoltre corrispose all’annata da rookie di Kemba Walker.

Quei 47 punti di Walker a Chicago, uniti alle difficoltà che praticamente da sempre gli Hornets incontrano a livello di risultati di squadra, sono un chiaro indicatore di quanto Charlotte dipenda fortemente da lui. Nonostante la presenza di Michael Jordan al vertice della franchigia e la stabile guida tecnica di Steve Clifford (i cui effetti si notano soprattutto in difesa: Charlotte è uno dei team più efficaci a rimbalzo difensivo con 36,9 di media e 80,7 di percentuale, rispettivamente secondo e quarto posto), gli Hornets faticano, come sempre, a costruire una credibile mentalità vincente e a garantirsi una presenza fissa tra le migliori otto a est. Tuttavia al suo interno Kemba Walker, che giocoforza è uno degli elementi con il minutaggio più alto di tutta la NBA (35,2 a partita, il 16° nella lega), è riuscito progressivamente a diventare una delle migliori e più complete point guard della lega e, a ventisette anni, ha messo piede nel suo prime.

La star che passa inosservata

Walker, malgrado il suo rendimento e la sua costante crescita, ha giocato l’All-Star Game per la prima volta soltanto a febbraio 2017. Di lui non si parla quanto meriterebbe. Sarà perché Charlotte è una franchigia di mercato minore, storicamente perdente, non va quasi mai in diretta nazionale e soffre la concorrenza interna del basket universitario e del football. O sarà perché Kemba è una personalità “normale”, senza tatuaggi o uscite a effetto sui social. Ma dal 2011 gli Hornets hanno tra le mani – è al settimo anno ed è sotto contratto fino al 2019 – una stella di prima grandezza. Dopo aver timbrato nel 2016-17 la sua miglior stagione di sempre per punti segnati (23,2), rimbalzi (4,4), percentuale dal campo (44,4%) e da tre (39,9%), quest’anno sta viaggiando a 22,3 (19° in NBA) a cui aggiunge 6,2 assist (13°), cresciuti rispetto ai 5,5 di un anno fa, grazie anche all’aver trovato in Dwight Howard un destinatario finalmente efficace. Il suo net rating, 7,8, è praticamente raddoppiato ed è al top di carriera per offensive rating (109,9), percentuale a rimbalzo (75,5) e indice PIE (14,4).

Con coach Clifford – Credits to www.nbareligion.com

In particolare, è l’aspetto offensivo quello da evidenziare: nel corso della sua carriera, Kemba ha sempre incrementato il bottino personale, superando i 20 di media nelle ultime tre stagioni e confermandosi, ferme restando le sue qualità di distributore di assist, come playmaker realizzatore. Un aspetto fondamentale nella NBA di oggi, in cui a chi porta palla è richiesto un contributo notevole in fase realizzativa. In questa regular season, finora, oltre ai suddetti 47 ha registrato anche una serata da 34 punti, insieme a 10 assist, nella vittoria su Orlando a fine ottobre, mentre il 1° novembre, nel 126-121 inflitto ai Milwaukee Bucks, con i suoi 26 punti ha battuto il record di franchigia di Larry Johnson di 193 partite con almeno 20 punti realizzati.

Leader a tutto campo

Kemba Walker fa della completezza il suo punto di forza. Non c’è una cosa che non sappia fare. Dotato di un purissimo ball handling e di un’eccelsa capacità di controllo del corpo, per non parlare degli inebrianti crossover che creano spesso più di un problema di equilibrio al marcatore diretto, l’ex Connecticut è uno dei top player assoluti nel pick and roll e nelle penetrazioni, avendo accresciuto sensibilmente la capacità di concludere al ferro e di incunearsi a meraviglia nei più aggrovigliati labirinti d’area pitturata: un aspetto, questo, che stagione dopo stagione gli ha fruttato un sempre crescente numero di viaggi in lunetta e che oggi sta convertendo in canestri con una percentuale di 85,6, la più alta in carriera.

Qui Kemba fa ballare Mills, Gay e Aldridge degli Spurs

Qui manda a monte l’intera difesa degli Atlanta Hawks

Altro suo movimento caratteristico è il fulmineo jumper in step back, grazie al quale riesce a scavare un solco abissale dal marcatore diretto e a concludere con efficacia, soprattutto dalla media distanza, particolare sempre più raro nella NBA odierna. Ma anche al tiro da tre ha compiuto importanti progressi e oggi è una minaccia concreta dall’arco, da cui è capace di tirare anche subito dopo un pick and roll. In campo i movimenti del numero 15 viola-turchese sono fluidi ed equilibrati: è sempre in ritmo, si sposta con naturalezza da una parte all’altra con rapidità e astuzia, abile a variare la velocità e a sbilanciare la difesa con finte e accelerazioni irresistibili, rapido a coordinarsi e a concludere in spot-up e in uscita dai blocchi. Infine, nonostante la statura non eccelsa, sa essere un difensore affidabile. Una point guard completa, vera, solidissima, un leader che forse su un palcoscenico più prestigioso di Charlotte avrebbe lo status di superstar globale.

Qui sono i Magic a fare le spese del jumper in step back di Kemba Walker

Alle doti tecniche affianca una statura psicologica che gli ha permesso di costruirsi una reputazione da leader. Intanto, non ha mai paura di caricarsi la squadra sulle spalle e prendersi un tiro nei momenti clutch. Quindi, è uno studente del gioco, il compagno Cody Zeller lo considera un allenatore in campo, ha una profonda etica lavorativa, passerebbe 24 ore in palestra, vuole vincere ed essere un esempio per i compagni: tutte caratteristiche derivanti dal suo genuino amore per la pallacanestro. Il rapporto con coach Clifford, che gli lascia praticamente carta bianca, è assolutamente solido. E anche a livello universitario i ricordi sono ottimi. “Lo seguo sera dopo sera in NBA – ha detto di lui Jim Calhoun, suo ex allenatore a Connecticut – e scende in campo ancora per la gioia di giocare. È una cosa meravigliosa da vedere e penso che sia una delle ragioni per cui è uno dei più forti della lega. Kemba è uno di quei ragazzi che ama veramente giocare a basket, è una delle migliori persone con cui abbia mai avuto a che fare. Per me l’allenamento era come la messa della domenica per una persona religiosa, un posto in cui trovare sollievo. E anche per lui era così: pur non essendo un ragazzo problematico, andare in palestra per lui significava trovare un rifugio dai pericoli della strada”.

Kemba, The Bronx Finest

Le sue origini hanno un ruolo determinante in tutto questo. Kemba Walker, nato l’8 maggio 1990, viene da New York, precisamente dal Bronx. Tradizionalmente, la Grande Mela ha sempre sfornato playmaker gagliardi e tosti, amanti viscerali del gioco, desiderosi di avere la palla tra le mani e di portarla fino al ferro, come vuole la legge dei playground. Tutto ciò indipendentemente dal borough di provenienza: Stephon Marbury, Jamaal Tinsley e Mark Jackson venivano da Brooklyn, Nate Archibald e Rod Strickland dal Bronx, Kenny Anderson dal Queens. Kemba, figlio di un operaio edile e di un’assistente infermiera che hanno saputo tenerlo lontano dai guai, si è temprato su un playground vicino casa, alle Sack Wern Houses di Soundview, un tipico complesso di condomini popolari in mattoncini rossi, per poi diplomarsi alla Rice High School, liceo cattolico di Harlem da cui, curiosità, sono usciti due particolari giocatori di origine dominicana: la promessa non mantenuta Felipe Lopez e l’energico Edgar Sosa, visto in Italia a Biella, Sassari e Caserta.

Cresciuto nel mito di Tim Hardaway e Allen Iverson, che come lui erano piccoli (Kemba è 1,85), senza paura, abili nel crossover e importanti realizzatori, Walker compie un percorso netto: dal liceo – è il quinto prospetto nazionale tra le point guard uscite dalle high school nel 2008 – arriva al college dove vive tre anni memorabili a Connecticut, campione NCAA nel 2011 e most outstanding player della Final Four (in squadra con lui ci sono Shabazz Napier, oggi a Portland e Jeremy Lamb, suo attuale compagno agli Hornets). La stagione in cui esplode è proprio la terza, quella da junior, conclusa a 23,5 punti di media, che lo porta fino ai professionisti come nona scelta degli allora Bobcats. Lì si ritrova nella “peggior squadra di sempre”, quella delle 7 vittorie su 66 gare, ma saprà stringere i denti e iniziare quel percorso di crescita che lo ha condotto a essere oggi uno dei leader più solidi, intelligenti ed efficaci di tutta la NBA. “Tutti devono attraversare delle avversità – dice Kemba Walker – Io sono l’unico giocatore ancora qui di quella squadra. So cosa siamo stati: non voglio mai più tornare indietro a quella situazione e trovarmi nuovamente sul fondo della lega”. Sta ora agli Hornets non lasciarlo solo e fare in modo che lo Spectrum (Center) della frustrazione si allontani per sempre da Charlotte.

Francesco Mecucci

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NbaReligion Team

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