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La resilienza degli Utah Jazz

Nella NBA dei Super Team essere uno small town market ha i suoi pro (pochi) e i suoi contro (molti). L’essere un mercato minore ti mette nelle condizioni di poter vestire i panni della Cinderella story, concetto estremamente caro alla mentalità statunitense e alquanto romantico e affascinante, ma ti pone anche davanti a scelte molto complicate. Sei destinato a perdere, a non competere, e con molta probabilità a veder partire il tuo giocatore migliore quando il suo contratto scadrà. Ed è esattamente quello che è successo agli Utah Jazz nella scorsa stagione. Quarto posto ad Ovest (gran risultato!), semifinali playoff dopo aver eliminato una squadra sulla carta superiore a te come i Clippers in 7 partite (grandissimo risultato!!), sweep subito da un Super Team (classic!!!), miglior giocatore che esce dal contratto e decide di andarsene (damn!!!!).

Non è bastato neanche fare bene il proprio lavoro, dallo staff tecnico a quello dirigenziale. Una squadra sana e funzionale sul parquet, delle scelte precise e necessarie da parte del front office. Esteso Gobert, uno dei migliori centri della lega e se non fosse per Draymond Green o Kawhi Leonard anche il miglior difensore, risparmiato sulla point-guard prendendo il buonissimo contratto di Rubio; hanno preso uno dei giocatori più interessanti del draft come Mitchell scambiando la propria scelta con Denver sacrificando poco o niente. Niente da fare. Come ripartire quindi? Che i Jazz restassero uno squadra ostica da affrontare lo si sapeva da inizio da stagione e questo va bene; ma il mese di novembre ha detto chiaramente che i Jazz sono molto di più di una squadra rognosa che cerca disperatamente di non affondare nell’oblio della lega. Gli Utah Jazz sono una squadra viva, moderna, in grado di aggiornarsi continuamente, di aggiustare i propri difetti o perlomeno di lavorare sodo nel tentativo di riuscirci. Sono una delle squadre meglio allenate della NBA e nonostante una visibile mancanza di talento a disposizione riescono a competere ad armi pari contro chiunque, notte dopo notte.

Un’azione che si vede più volte per partita quando giocano gli Utah Jazz. Per Favors è un gioco da ragazzi correggere l’errore di Ingles dopo che tutta la difesa dei Bucks era saltata come un tappo di champagne.

Oltre alla partenza di Hayward i Jazz hanno dovuto subire gravi perdite anche con gli infortuni: prima quello terminale di Exum, che gli farà saltare l’ennesima stagione dell sua (ancora giovane) carriera e poi quello di Gobert, tornato a giocare solo lunedì notte dopo un mese di stop. Ma il vero fenomeno è rimasto al suo posto e si chiama Quin Snyder: c’è la sua firma ovunque sulla stagione dei Jazz ed è merito suo se la squadra ha raggiunto una consapevolezza e una preparazione tale da aver fatto della capacità di superare eventi drammatici il proprio marchio di fabbrica della franchigia.

In questo momento i Jazz sono una delle squadre più calde della lega, soprattutto in casa dove hanno vinto 11 delle 15 partite disputate. Le armi, come nella passata stagione, sono grande applicazione difensiva e circolazione destinata a trovare il miglior tiro (good to great) in attacco. Facciamo una piccola comparazione rispetto all’anno scorso: l’efficienza offensiva è un pelo peggiorata, passando da 107.4 a 106 punti segnati su cento possessi. Quella difensiva invece è addirittura migliorata, visto che il 102.7 che è valso il terzo posto un anno fa oggi è sceso fino a 101 (in casa i Jazz concedono a mala pena 96 punti su cento possessi agli avversari), dando come risultato il quinto miglior Net Rating della NBA (+5.2 anche questo migliore della stagione passata). I Jazz tirano benissimo da fuori ― sono la terza miglior squadra della lega col 39% (dietro solo a Golden State e Indiana LOL!) con ben sei giocatori sopra il 40%, il migliore è Jerebko, un cecchino in questo avvio di stagione col 47.8% ― e muovono la palla sempre con grande ordine e velocità. Inoltre per far fronte alla carenza di talento offensivo Snyder ha optato per una squadra capace di giocare un basket più veloce, più in transizione e meno ancorato all’attaccare a metà campo; il PACE infatti è salito da 93.62 a oltre 97 possessi a partita e questo aiuta a trovare punti facili quando le percentuali si abbassano.

In compenso l’attacco a metà campo è rimasto uno spettacolo per palati fini.

Gli Utah Jazz sono la squadra operaia per antonomasia della lega e traggono linfa vitale dalla propria panchina come nessun altro. Non è un caso infatti che i migliori Net Rating di squadra li facciano segnare i vari Jerebko, Sefolosha, Neto ― tutti con un efficienza difensiva al di sotto dei 100 punti ― piuttosto che Udoh, Burks o O’Neal, in attesa ovviamente del rientro di IsoJoe Johnson. Questi ultimi soprattutto sono stati fondamentali nelle ultime uscite: il primo sta giocando forse la sua miglior pallacanestro da quando è nello Utah, aiutando i suoi con una grande produzione offensiva in uscita dalla panchina, mentre il secondo sta stupendo tutti dimostrandosi un prospetto davvero interessante. Nei 153 minuti che è stato in campo i Jazz sovrastano gli avversari (120 Offensive Rating, addirittura +30.2 di Net Rating) e nonostante sia un rookie ha già una visione di gioco molto sviluppata ed è intelligente in ogni suo movimento sul campo.

Snyder è un mago a trovare rotazioni funzionali e nel mettere i propri giocatori nelle migliori condizioni per esprimersi. L’infortunio di Gobert ha permesso a Favors di prendersi lo spot di centro titolare con risultati molto incoraggianti, visto che sta giocando una delle migliori stagioni da anni a questa parte; è migliorato in quasi tutti i parametri statistici e se gli infortuni lo lasciano in pace Utah ha trovato un back-up di lusso (o un asset molto interessante da scambiare, visto il contratto in scadenza a giugno). Favors si sta esprimendo al meglio perché Snyder è molto bravo nel coinvolgerlo dove è più efficace, nei pressi del ferro o dal mid-range dove ha un jumper solido e movimenti che possono mettere in crisi il diretto avversario. Ma i meriti di Snyder non finiscono qui: è stato bravo a trovare un ruolo diverso anche per Rubio, sfruttando tutta la bravura e l’aggressività difensiva dello spagnolo in una metà campo e chiedendogli di essere più scorer e meno trattatore di palla in attacco. Al suo fianco Snyder non rinuncia mai a Joe Ingles, giocatore di rara intelligenza cestistica che sblocca tantissime soluzioni in entrambe le metà campo per i Jazz: è un difensore versatile, tosto fisicamente che può reggere anche contro avversari più grossi di lui, mentre in attacco è un maestro del pick-and-roll ― che i Jazz usano tantissimo ― e può giocare tranquillamente da portatore di palla o off the ball, visto il 47.3% da tre su oltre 5 tentativi a sera. È lui il giocatore barometro della squadra.

Due situazioni di pick-and-roll giocate da Ingles e Favors. Nella prima l’australiano è bravo ad usare per il blocco del centro per penetrare in area, far collassare la difesa per poi trovare il giocatore libero con un passaggio a una mano à-la-Manu Ginobili.

Qui invece legge benissimo l’evidente buco centrale lasciato dalla difesa dei Magic per servire con un passaggio schiacciato a terra (fondamentale nel quale Ingles è tra i migliori al mondo) Favors, che deve solo rollare e schiacciare la bimane indisturbato.

Snyder è stato bravissimo anche a capire i problemi che hanno accompagnato l’inizio di stagione di Rodney Hood, il giocatore che per tutti avrebbe dovuto prendersi il ruolo di Hayward, ritagliandogli un ruolo in uscita dalla panchina più congeniale a lui. Da quando è diventato il sesto uomo dei Jazz, Hood produce di più (19 punti contro i 16 quando inizia le partite) tirando meglio, e sembra più connesso con il resto dei suoi compagni. Il ruolo di Small Forward è stato consegnato a piene mani a quello che è il vero motivo di speranza di Utah per il futuro, prossimo o remoto che sia: Donovan Mitchell.

Che sarebbe stato uno dei prospetti più interessanti dell’ultima classe del draft potevamo immaginarcelo, ma che sarebbe stato così forte così presto proprio no. Mitchell gioca già come un veterano, ha un controllo del proprio corpo e di quello che lo circonda raro per un rookie ed è già in grado di giocare da ball handler primario. Il suo mese di novembre recita 18 punti, 4 rimbalzi e 3.6 assist a partita con tanto di 1.5 palle recuperate e un sorriso contagioso. Ha già fatto registrare nove partite con 20+ punti ed è esploso letteralmente contro i Pelicans segnando il proprio carrer high da 41 punti. E la sensazione è che la produzione offensiva sia solo la punta di un iceberg molto più profondo. Mitchell è già oggi il franchise player designato e nonostante la poca esperienza Snyder non ha timore nel dargli in mano le chiavi dell’attacco, visto il 28.3 di Usg% che lo colloca al secondo posto dietro solo a Hood.

Nella partita contro New Orleans Mitchell è letteralmente esploso nella ripresa, segnando alla fine 41 punti. Dei tanti canestri questo è quello più impressionante: una tripla dal palleggio dopo che i Pelicans erano tornati avanti di 4 punti. Puntuale arriva la risposta di Mitchell, che tarpa le ali agli avversari. Glaciale e decisivo, come un All-Star dovrebbe essere.

A tutti i meriti di coaching staff e giocatori vanno sommati quelli del front office, con il GM Dennis Lindsey che sta facendo un ottimo lavoro per le (ridotte) possibilità a sua disposizione. È stato anche fortunato, visto il contratto offerto e rifiutato da George Hill nello scorso febbraio, ma se i Jazz possono schierare una delle difese più temibili della lega parte del merito va attribuita anche a lui, vista la bravura nel prendersi giocatori funzionali a contratti vantaggiosi: Rubio è da sempre un buonissimo difensore, Mitchell lo diventerà (ed è già a buon punto), e oltre allo pterodattilo Gobert Snyder può schierare una batteria di giocatori alti tra l’1.95 e i 2.05 metri con un’apertura alare capace di oscurare qualsiasi cosa.

In definitiva gli Utah Jazz sono una franchigia sana, capace di mettersi in pochissimo tempo nelle condizioni di lottarsi questa stagione ed avere buoni motivi per sperare nel medio-lungo periodo. Se non è resilienza questa.

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Pubblicato da
Niccolò Scarpelli

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